domenica 6 marzo 2011

LO STEMMA DEL COMUNE DI SAN MINIATO

di Luciano Marrucci e Francesco Fiumalbi

Simbolo della comunità sanminiatese e del suo territorio, lo stemma nei secoli è sempre riuscito a tradurre in immagine l’origine passata, la fierezza contemporanea e l’ambizione per il futuro. Un emblema dietro al quale ripararsi nei momenti difficili e da portare con vanto in quelli più felici.
Oggi il significato attribuitogli è forse meno romantico di quello di un tempo, ma riscuote ancora il proprio tributo di fascino.

Stemma del Comune di San Miniato
Aut. Prot. N. 3302 del 9 febbraio 2011
E’ vietata la riproduzione

Lo stemma porta una leonessa quale effige. Secondo alcuni studi, mutò in leone nel 1355 quando il Comune si schierò con l’imperatore Carlo IV, il quale concesse ai sanminiatesi numerosi privilegi (1).  Tuttavia, in mancanza di "attributi" maschili, ancora oggi il simbolo è caratterizzato da una leonessa cosiddetta “rampante”: si tratta di un animale che esprime forza, coraggio e, soprattutto, nobiltà. La figura si sostiene in piedi con la sola zampa posteriore sinistra, mentre la destra è sollevata da terra. Le zampe anteriori sono distese in avanti e quella destra stringe, vigorosamente, una lunga spada. La leonessa si protende in avanti, come se stesse per acciuffare una preda. Infatti l’aggettivo “rampante” deriva dal latino rapiens che significa “che ghermisce”, ma anche “che conquista” (2). Lo Stemma contiene anche una frase:

“SIC NOS IN SCEPTRA REPONIS”

“Così ci restituisci agli antichi onori”
(G. Fumagalli, L’Ape Latina, Hoepli, Milano, 1975, n. 2403)

Esprime aspirazione presente a recuperare il prestigio passato. Aspirazione che oggi appare imprecisata in forza del difficile computo del dare e dell’avere scritto dalla storia.

Questa breve locuzione è in realtà una colta citazione: si tratta di cinque parole tratte dal primo libro dall’Eneide, poema scritto dal poeta e filosofo romano Virgilio (29-19 a.C.).
Dopo la terribile disfatta della città di Troia, Enea e i suoi seguaci partirono dalla Sicilia alla volta delle coste italiane. La dea Giunone venne a conoscenza che una stirpe troiana si recava verso le coste del Lazio per fondare un popolo che avrebbe mosso guerra per la rovina della Libia e della sua amata città di Cartagine. Adirata per ciò che sarebbe accaduto, istigò Eolo a scatenare contro gli esuli troiani una possente tempesta che costrinse loro, grazie al provvidente intervento di Nettuno, a fare naufragio sulle coste africane.
Venere, madre di Enea e mossa da sentimenti di pietà e indignazione allo stesso tempo, si rivolse a Giove chiedendo spiegazioni per aver lasciato operare Giunone contro gli esuli.

“(…) nos, tua progenies, caeli quibus adnuis arcem,
navibus (infandum!) amissis, unius ob iram
prodimuratqueItalis longedisiungimuroris.
Hic pietatis honos? Sic nos in sceptra reponis?”
(Virgilio, Eneide, Libro I, 249-253)

“(…) noi, tua progenie, cui prometti la fortezza del cielo, perdute (cosa indicibile!) le navi, per l'ira di una sola siamo traditi e siamo separati lontano dalle spiagge italiane. Questo il premio della virtù? Così ci restituisci agli antichi onori?”
(versione tratta parzialmente dal sito internet:
http://it-it.abctribe.com/versioni_latino/eneide/_gui_331)

A queste parole Giove, con fare paterno, si rivolse a Venere invitandola a risparmiare la paura, perché la stirpe riuscirà ad arrivare nel Lazio, dove fonderà Roma che sarà grande nel mondo.

Letta nel suo contesto, la locuzione appare quasi ironica, di sfida, dettata dalla disperazione. E’ però una frase interrogativa. Nello stemma del Comune di San Miniato la ritroviamo eguale, ma stavolta affermativa, quasi a non voler lasciare dubbi e a presagire futuri onori.
Chi può averla apposta? A quali onori potrebbe riferirsi? Ai fulgori della dinastia sveva? All’autonomia comunale? Ai vantaggi conseguiti sotto i Lorena?


Servigi e benefici erano legati assieme: quasi sempre il privilegio era pagato in sudditanza e la libertà scontata con le privazioni. Il Comune di San Miniato, già entrato dalla fine del XIII secolo nella sfera di influenza della Repubblica Fiorentina fu definitivamente conquistato da questa, al termine di un lungo assedio, nel 1369, e ne diventò un importante vicariato, mantenendo comunque gran parte dei privilegi (3). La nostra ipotesi si arricchisce di un successivo livello di riflessione: ironia verso un popolo che mai più avrebbe avuto la forza di rendersi autonomo, oppure la certezza di un futuro prestigioso all’interno di una crescente grandezza fiorentina o Toscana?
La storia è ben nota: San Miniato è sempre stata contesa dall’esterno, ancora più divisa dall’interno; incalzata dalle scelte e sopraffatta dai problemi reali ha dovuto imparare, come tanti altri centri della Toscana, che era impossibile scegliere al meglio il proprio destino e difficile seguire la propria vocazione.

La risposta corretta, forse, ci viene fornita dal Canonico Francesco Maria Galli Angelini nel testo "San Miniato, la sveva città del Valdarno", edito come numero 86 della raccolta "Le Cento Città d'Italia", pubblicato intorno al 1928. Secondo il l'autore la frase sarebbe stata inserita per volontà di Giovanni Persio Migliorati, alla fine del '700 per ingraziarsi i "Granduchi di Toscana" e dimostrare loro la devozione del popolo sanminiatese. In effetti, in quegli anni Pietro Leopoldo dette avvio ad un'importante stagione di riforme, che riguardarono un po' tutta la Toscana e anche San Miniato.

Il dubbio rimane, così come rimane questo stemma ambizioso, forse ironico, sicuramente affascinante. Sono caduti gli scettri e le corone, ma non il forte senso comunitario all’interno di una terra ricca di storia.

Questo intervento si pone come sviluppo di un articolo di Luciano Marrucci: Lo Stemma del Comune, in Fabrizio Mandorlini (a cura di), Almanacco Stradario del Comune di San Miniato 2000, FM Edizioni, San Miniato, 2000.
Si ringrazia l’Amministrazione Comunale di San Miniato, in particolare l’Assessore con delega alla Cultura Chiara Rossi, la Sig.ra Franca Giani dell’Ufficio Cultura e la Dott. Francesca Pinochi dell’Ufficio Stampa per il contributo nella realizzazione di questo intervento.


Note Bibliografiche:
(1) L. Passerini, Armi dei Municipi Toscani, Tipografia E. Ducci, Firenze, 1864, pagg. 158-159. In Lotti Dilvo, San Miniato. Vita di un’antica città, SAGEP, Genova, 1980, pag. 311.
(2) http://it.wikipedia.org/wiki/Leone_(araldica)(3) Salvestrini Francesco, Il nido dell’aquila, in Malvolti e Pinto (a cura di), Il Valdarno Inferiore terra di confine nel Medioevo (secoli XI-XV), Olschky Editore, Firenze, 2008

1 commento:

  1. Interessante. Ripesco dai miei ricordi universitari il dialogo "Il Conte overo de le imprese" operina molto minore di Torquato Tasso. Andando a memoria ricordo che alcuni elementi venivano considerati, nel Rinascimento avanzato, indispensabili per rendere efficaci i motti delle imprese. 1. Devono riguardare l'avvenire e non il passato; 2. Le imprese di carattere militare o civile hanno come finalità l'esaltazione dell'onore; 3. Risultano particolarmente efficaci se mostrano un certo "spirito" che renda complesso il ragionamento, attraverso l'ironia (cioè il rovesciamento del senso) o l'ambiguità dell'interpretazione, come avviene per i giochi di parole.
    Per capire se il verso virgiliano vada inteso in senso proprio o in senso rovesciato, aiuterebbe molto conoscere l'evento storico in seguito al quale (o in previsione del quale) è stato adottato nell'impresa sanminiatese (ma è un po' un'ovvietà).

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