giovedì 28 giugno 2012

E’ TEMPO DI MIETERE IL GRANO!

di Giuseppe Chelli

"Le messi biondeggiano, in lontananza si ode il canto dei contadini". Lo scrisse, una mattina di fine giugno, il professore di italiano sulla lavagna, per i ragazzi della terza media. Era il tema per gli esami di licenza.
L'ampia aula, al terzo piano di un vecchio palazzo, con i suoi grossi finestroni permetteva di spaziare lo sguardo su una campagna collinare ricca di uliveti, frutteti, filari di vigne  a perdita d'occhio, ma di grano neppure un filo. Giù, in basso, il grano biondeggiava davvero: ricopriva mezza vallata, stretta all'inizio, ma che poi s'apriva in campi a non finire, tutti biondeggianti, con vistose macchie  rosse dei papaveri.
Dalla grande finestra dell'aula, aperta per un refolo di vento marino, niente messi biondeggianti e neppure canti. Strilli, solo strilli! Lunghi, vicini o  smorzati dal vento come il fischio di un treno in corsa. Non uno: dieci, cento treni impazziti a rincorrersi, in un groviglio di binari. Erano le rondini, indaffarate a far scorta di cibo! A capofitto verso la valle si incrociavano in veloci volteggi, poi risalivano, a bocca piena, verso le grondaie, e giù di nuovo ripartivano per un'altra scorpacciata, strillando a perdifiato.
Gli strilli e l'orizzonte che entravano dalle finestre non erano proprio adatti a dare una mano ai trentacinque ragazzi. Tuttavia i loro sguardi erano là, anzi al di là delle vetrate, cercando tra il verde dei colli pisani il "loro" campo di grano o lo stornellare di un innamorato più forte dei gridi delle rondini. Non c'erano via di scampo:  bocciare o trasformare le verdeggianti colline e gli strilli di rondine in messi biondeggianti ed in canto di contadini!

Campi di grano a Isola
Foto di Francesco Fiumalbi

Ed un ragazzo cominciò:
Non usava più da tempo sbattere sui pancali i covoni del grano. La trebbiatura si faceva con la"macchina del grano" infilata tra le masse, sull'aia in piena estate. Anche i piccoli contadini, quelli che appena ricavavano grano per mezza annata, si servivano della trebbiatrice di qualche vicino.
Il grano portava via un sacco di tempo: si cominciava a metà luglio dell'anno prima a coltrare i campi, lasciati a riposo, perché il sole d'agosto seccasse le gramigne e arricchisse le zolle. Dopo la vendemmia si cominciava a sistemare la terra per la semina, spargendola di letame, pianeggiandola con l'erpice trainato dai buoi. Ai primi di ottobre avveniva la semina, fatta per lo più con la seminatrice, che spesso i contadini se la prestavano. Di tanto in tanto in mezzo ai campi, ben pareggiati e con gli sgrondi perché le piogge non stagnassero, si vedevano strani pagliacci: erano gli spaventapasseri che avrebbero, dovuto tenere lontano gli uccelli, che dai fili del telegrafo si tuffavano a saccheggiare il seminato.
Sotto la neve, pane; sotto l'acqua fame! ripetevano i “capoccia” la sera a veglia al circolo, legando le speranze ed i timori del raccolto agli eventi metereologici. Il chicco del grano che aveva attecchito durante l'inverno, ai primi del nuovo anno cominciava a verdeggiare riempiendo di un manto la pianura. Era il tempo di spargere il concime. Con corbelli a tracolla pieni di "vano" ( così chiamavano il guano che, su i carri merci, arrivava alla stazione dal Cile!) solcavano i campi spargendo la polvere a larghe e copiose manate. I vari tipi di seme: mentana, roma, littorio, frassineto, davano origine a steli (fili di paglia) più o meno lunghi, anch’essi importanti per avere paglia in abbondanza per il "letto delle bestie" che poi sarebbe diventato concime per le colture.

Campi di grano a Isola
Foto di Francesco Fiumalbi

"Di giugno, la falce in pugno”, si diceva! I lavori della raccolta del grano duravano circa un mese e forse erano i più faticosi per l'impegno fisico che richiedeva la mietitura e la battitura. Si cominciava a metà giugno a mietere il grano quando lo stelo era ancora abbastanza fresco. Di buon mattino si vedevano gruppi di uomini e donne, quasi sempre scalzi, ma con in capo cappelli dalle falde larghe o pezzòle variopinte dalle cocche legate sulla testa, avviarsi verso i campi da segare, a mano con la falce che via via era affilata con la pietra. Curvi sotto il sole fin quando non suonava la campana di mezzogiorno, ognuno prendeva un pezzo di campo e a colpi di falce tagliava mazzetti di grano che poi raccoglieva facendone una fascio legato con la paglia: erano i covoni. Alla fine della giornata i covoni venivano raccolti in mucchi per permettere allo stelo  ed alla spiga ancora freschi di seccarsi, inturgidendo così i chicchi del grano del sapore che conteneva lo stelo.
Dalle massette dei covoni, si passava a fare le "barche " che rimanevano sul campo a completare la seccatura del chicco e dello stelo. Raramente, ma capitava che un temporale improvviso con tuoni e lampi mandasse a fuoco qualche barca di grano, quando non anche l'invidia di qualche "vicino" aiutasse i fulmini! Pochi giorni prima che arrivasse la macchina del grano per la battitura, avveniva la "carrata". Se l'aia era ammattonata si levavano le erbacce nate tra i mattoni, si spazzolava al meglio. Se invece era sterrata si procedeva a renderla "impermeabile", cioè si induriva il fondo con lo sterco delle bestie facendone una poltiglia più o meno densa e si spargeva sul terreno. Il sole l’avrebbe resa dura! Con i buoi aggiogati al carro si andava a prendere i covoni ammassati a barche e sull'aia si faceva la "massa". Spesso erano due grosse masse di grano fatte  a nave distanti tra loro tanto quanto era necessario per infilare nel mezzo la macchina del grano.

La mietitura del grano vicino Isola
Foto di Giuseppe Chelli

Ormai la battitura era vicina e lo sapeva bene la massaia! Quando i paperi, allevati da mesi per l’occasione, si “ritiravano” per la notte, lei con un grosso randello, e con l’uomo di famiglia più vigoroso, prendeva ad uno ad uno i paperi, gli metteva il collo sotto il randello (che lei tratteneva con i piedi) e ”tira” diceva, finché sul terreno non restava una bianca massa immobile.
La sera prima del giorno fissato per la trebbiatura arrivava la” macchina del grano” trainata dal Landini (uno dei primi modelli di trattore!). Per lo più il piazzamento avveniva la sera, sul tardi, al termine di una giornata di lavoro in un altro podere, così di buon mattino il lavoro poteva cominciare. Agli uomini  ed alle donne di casa si aggiungevano i vicini in un muto tradizionale costume di aiutarsi nei lavori in cui la manodopera non era mai troppa. Flotte di ragazzi di casa e dei poderi vicini si facevano in quattro per le incombenze loro richieste, o correvano da un punto all'altro dell'aia a tuffarsi nei monti di loppa bollente di sole e di macina. Al primo singhiozzo del Landini l'aia si animava di un viavai di gente e polli richiamati dall'odore del grano, e tutti gli ingranaggi della trebbiatrice, azionati dalla lunga cinghia di cuoio, si mettevano in movimento. Il martellare cadenzato del Landini, prima lento, come colpi di tosse, poi più spedito e infine ritmato, dava il via al grande affaccendarsi dell'aia. L'imboccatore in vetta alla macchina infilava i grossi covoni nella bocca della trebbiatrice che arrancava, sbuffava e allo stesso tempo, inghiottiva in un soffio i covoni che qualcuno,  dalla massa del grano in punta di forcone, faceva arrivare all'imboccatore. Dalla grossa bocca dentata usciva da dietro la paglia  a cascate più o meno abbondanti. Tre o quattro donne, in mezzo a nuvoli di polvere urticante l'affastellavano, legandola con il “nottolo di “salcio” e fissandola al palo dell'antenna che la depositava ai piedi o attorno allo stollo del pagliaio. L'antenna altro non era che un palo fisso in terra a cui era ancorato un braccio rotante che alzandosi depositava il fastello dove indicava l'addetto al fare il pagliaio.
Quello del "pagliaiolo" era un lavoro che non tutti sapevano fare. Bisognava equilibrare bene la paglia e stenderla intorno allo stollo a formare una specie di cono, in modo che la massa di paglia finisse a punta compatta per non far penetrare l'acqua piovana. Se questo lavoro non veniva eseguito a regola d'arte il pagliaio sarebbe caduto o si sarebbe inzuppato d’acqua rendendo la paglia inservibile. Sempre da sotto la grande bocca della paglia usciva la loppa (o pula), trainata via in grandi ceste di “salcio”.
I ragazzi erano fissi a dispensare bicchieri di acqua fresca che direttamente tiravano su dal pozzo a sterro intorno casa. A mezza mattinata si faceva la sosta per la colazione, sempre la stessa da un anno all'altro, da un podere all'altro: salame a fette e pomodori a salino, che gli operai consumavano seduti all'ombra dei gelsi che non mancavano in ogni podere per via dei bachi da seta. A colazione quasi fatta, passava il “capoccia” con il fiasco del Vinsanto: era il segno che la pausa era finita e che il lavoro ricominciava ininterrottamente fino all'ultimo covone della massa.

Le “barche” di grano vicino Isola
Foto di Giuseppe Chelli

Mentre nel dietro della macchina si accumulavano monti di loppa e paglia, nella parte anteriore  ammassati su due cataste incrociate si formavano le pile dei sacchi. Il fattore ed il “capoccia”  meticolosamente riempivano lo staio con cui riempivano le sacche: una per il contadino, una per il padrone. Un podere, infatti, si definiva per la sua produttività da quante staia o sacca di grano produceva, da quanti barili di vino e di olio ricavava dalle sue culture. "La terra vale quanto l'uomo che la lavora", soleva pontificare ogni anno il fattore a fine battitura. Ma il capoccia, che proprio sprovvisto non era, ribatteva puntualmente: "Si vede che lei sor' fattore passa più tempo allo scrittoio che nella terra".
La stretta di mano, e quando il raccolto era andato bene, anche una pacca sulla spalla, metteva fine alla ripartizione in parti uguali delle sacca di grano. Ma la giornata non finiva lì, anzi ora cominciava il bello.
Sotto i gelsi una lunga tavola bianca di lino apparecchiata con le scodelle del Ginori, con abbondanti vassoi di prosciutto e salame, con molti fiaschi di rosso e scòle di pane fresco invitava a sedersi attorno. L'odore di paglia non si sentiva più. Dalla cucina della massaia profumi di buone pietanze riempivano l'aria. Donne e uomini attorno al pillone del pozzo cercavano di levarsi di dosso il sudore e la polvere, gettandosi abbondati secchiate di acqua fresca. A volte la stanchezza era tanta che qualcuno per lavarsi i piedi li metteva dentro la tinozza e con un piede si lavava l'altro.
Tutta la stanchezza spariva appena la massaia si presentava con il grosso pentolone di smalto rossastro pieno di minestra fatta con lo spicchio di petto, colli dei paperi e la grandinina bucata. Nessuno si peritava a "cavarsene" due o tre piatti, pronto ad affrontare le battute degli amici che non mancavano di sottolineare pettegolezzi o chiacchiere di paese tra le risate di grandi o piccini. Spesso erano le ragazze da marito che venivano prese di mira se magari erano un po' in là con gli anni, o le giovani spose alla terza gravidanza. Dio ci scampi o liberi se c'era qualche coppia che non aveva figli: tutti si proferivano a risolvere il problema, tutti sapevano come e cosa fare tra le grasse risate e qualche stornellata bonaria. L'allegria, aiutata dal rosso d'annata, era coinvolgente; complice il papero in umido, lo spicchio di petto inzuppato nel sale, gli affettati serbati sotto la cenere fino a battitura. Non di rado i pranzi di battitura erano l'occasione per concludere o iniziare affettuose amicizie. Bastava aspettare la messa della domenica.

Campi di grano fra Ontraino e Roffia
Foto di Francesco Fiumalbi

8 commenti:

  1. Bello.Ora provo a farlo leggere ai miei nipoti, ma non garantisco.

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    1. TI CONSIGLIO NON SOLO DI FARLO LEGGERE MA SE HAI L'OCCASIONE DI VENIRE A ISOLA IL 5 AGOSTO PROSSIMO ALLA FESTA DELLA TREBBIATURA RIVIVRAI ALCUNI MOMENTI DESCRITTI.

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  2. Dovresti togliere quella ripetizione quando si dice del grano portato con i carri dai campi all'aia.
    La lettura lascia molto, molto a desiderare. La ripulitura richiesta non l'hai voluta fare, solo piccolissimi interventi.

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    1. Beppe, non essere troppo duro con te stesso! Te l'ho già detto, il post è straordinario, genuino e si legge tutto d'un fiato!

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  3. bello...ho rivissuto alcune scene con un po' di nostalgia...

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  4. chi ha scritto quelle cose deve avere la natura nell'anima.

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  5. anonimo, ma non troppo2 luglio 2012 alle ore 04:47

    Non si tratta di essere o non essere duro con se stesso: si tratta che ci sono un sacco di ripetizioni,di periodi da mettere d'accordo con la sintassi, di sfoltiture da fare per non appesantire la lettura che,a mio giudizio, deve essere scorrevole, senza inciampi: la prosa, qui, per certi versi, assomiglia al "landini". I difetti della prosa si trovano, a freddo. Grazie, comunque, del tuo buon cuore.

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  6. Bravissimo!!! è veramente un bellissimo post...

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