venerdì 27 luglio 2012

PIAZZA DEL SEMINARIO, DI GIORNO E DI NOTTE

di Francesco Fiumalbi

Piazza della Repubblica, comunemente detta del Seminario, è l’interno urbano sanminiatese più scenografico e per questo è uno dei luoghi più apprezzati dai turisti e anche dagli stessi sanminiatesi.
E’ un luogo totalizzante, avvolgente, che non si fa mai cogliere nella sua interezza, ma sempre di scorcio, che cattura magneticamente lo sguardo attraverso il ritmo vibrante che caratterizza la trama compositiva della facciata del Seminario. Un microcosmo conchiuso, dalla straordinaria capacità di accogliere, quasi come un ideale abbraccio materno. E’ il centro, l’ombelico, che separa, ed al tempo stesso unisce, la parte di qua con la parte di là di San Miniato, da qualsiasi punto la si guardi.

Piazza del Seminario
Foto di Francesco Fiumalbi

Il ritmo vibrante delle fasce, bianche e rosate, asseconda un’orchestrazione scandita da pieni e vuoti che, partendo da un basamento orizzontale compatto, raggiungono verticalmente il coronamento, alleggerendone la struttura, ed evitando spiacevoli effetti claustrofobici. Durante il giorno è, quindi, un luogo chiuso che non ammette divagazioni e dove soltanto il cielo riesce a penetrarvi. Ma è forse questa chiusura spaziale, in forte contrasto con l’infinità celeste, che suggerisce quel sentimento di pittoresco, dal carattere onirico, scenografico, quasi teatrale: guardando la struttura compositiva del palazzo del Seminario, come non pensare ai palchi di un teatro? Tuttavia è un teatro senza proscenio, dove la scenografia è rappresentata dalla stessa architettura, dalla sua trama, dalle Massime e dai medaglioni che le descrivono. Un luogo dove ciascuno di noi può essere attore e spettatore al tempo stesso.
A questa immagine si affianca quella notturna caratterizzata da una maggiore fluidità spaziale, con il profilo degli edifici che, dolcemente, sfumano verso l’oscurità del cielo. I contorni divengono indeterminati, diminuisce il contrasto fra le tonalità cromatiche, così accese durante il giorno; le ombre non sono più così nette, grazie anche all’illuminazione giallo ocra che smorza i colori e le forme, una sorta di effetto meguilp, quella vernice ambrata composta da mastice e olio, molto usata nei restauri pittorici otto-novecenteschi. Tale colorazione era utilizzata per creare sull’immagine quella patina, quel segno dell’inesorabile scorrere del tempo e della storia, così ricercato da certi aspetti del gusto, a tratti nostalgico, tipico del Romanticismo ottocentesco e, perché no, anche del Neoromanticismo in chiave contemporanea.

Piazza del Seminario
Foto di Francesco Fiumalbi

Nei giorni scorsi, grazie al ciclo di eventi organizzati dalla Fondazione Istituto Dramma Popolare di San Miniato, Piazza del Seminario ha goduto di una rinnovata illuminazione. Si tratta di una operazione che ha suscitato apprezzamento, gratificando i sanminiatesi e non solo.
Particolare attenzione è stata rivolta alla valorizzazione della facciata del Seminario, accentuandone la geometria compositiva, sottolineando il contrasto cromatico e la verticalità delle fasce bianche e rosate. All’edificio è stato conferito un deciso risalto, in contrapposizione al grigio del ciottolato della pavimentazione e all’azzurro del cielo.

Piazza del Seminario
Foto di Francesco Fiumalbi

E che dire poi, quando la sera si è fatta notte, e la luce del crepuscolo è diventata piena oscurità, quando la facciata del Seminario è apparsa come un elegante abito da sera. Si tratta di un momento in cui alcune caratteristiche propriamente diurne, si fondono con quelle notturne, creando una combinazione nuova, inaspettata. Siamo avidi di queste immagini, e molti vorrebbero vedere la piazza sempre così, vestita a festa; ma se rendiamo quotidiano ciò che è straordinario, non si corre forse il rischio di banalizzarlo, di renderlo ovvio, di farne evaporare la magia? Forse è più incisivo riverberarne il ricordo, attendere il prossimo evento, per tornare a godere e ad apprezzare questo spettacolare paesaggio urbano sanminiatese. E voi che ne pensate? Dite la vostra!

Piazza del Seminario
Foto di Francesco Fiumalbi

sabato 21 luglio 2012

PIEVE DI SANTA GIULIA - CAPRONA

di Francesco Fiumalbi

La Pieve di Santa Giulia si trova a Caprona, frazione del Comune di Vicopisano (Pi) e fa capo alla Diocesi di Pisa. E’ una chiesa molto antica, la cui prima notizia documentaria risale al 1096, ma è ragionevole ipotizzarne la fondazione, o almeno la dedicazione, all’VIII secolo. Infatti, nel 763, per volere del monarca longobardo Desiderio,  le spoglie di Santa Giulia furono traslate dall’eremo dell’Isola Gorgona fino a Brescia e, secondo la tradizione, fecero tappa proprio a Caprona. Da questa pieve dipendevano le chiese suffraganee di San Biagio nel Castello di Caprona, San Vittoriano di Campo, San Pantaleone, San Martino a Crespignano, San Michele a Ghezzano, San Giovanni Battista, Santa Maria a Ghezzana, San Cristoforo a Colignola, San Giusto in Campo (dal XVI secolo anch’essa pieve), San Bartolomeo in Campo e San Lorenzo di Campo. Tuttavia il raggio di pertinenza della pieve di Santa Giulia doveva essere molto più ampio, se pensiamo che la giurisdizione della Pieve di Calci fu costituita come distaccamento da quella di Caprona, agli inizi dell’XI secolo.
Da un punto di vista architettonico, la pieve presenta una composizione assai interessante. La chiesa originaria, altomedievale, era costituita da un un’unica navata, come rilevato dagli scavi archeologici del 1969. Durante i secoli XI e XII la chiesa fu notevolmente ampliata verso oriente, fu costruito l’attuale presbiterio con l’abside e fu innalzata la navata sinistra che arrivò a contenere il bellissimo battistero ottagonale. La navata destra non fu realizzata.
L’edificio risultò gravemente danneggiato durante la guerra fra Pisani e Fiorentini del 1436, in particolar modo il presbiterio e il campanile che furono ripristinati nel ‘600 utilizzando i materiali originari. L’Arno non fu meno clemente, e le varie esondazioni provocarono gravi danni alla chiesa, il cui pavimento oggi è di circa 40-50 cm al di sotto del livello del terreno circostante.
La facciata della pieve, realizzata in pietra verrucana disposta a filaretto, presenta una composizione a capanna, inquadrata da due pilastri laterali sormontati da una pseudotrabeazione ad archetti sorretti da mensole, particolare che contraddistingue anche il coronamento della stessa facciata e dell’abside. I fianchi, spogli, risentono della perdita della navata sinistra e della non realizzazione di quella destra. In particolare sul prospetto sinistro si aprivano cinque archi, oggi tamponati, che mettevano in comunicazione la navata centrale con quella laterale.
Di notevole interesse, l’apparato scultoreo altomedievale. Molte delle mensole che sostengono il motivo ad archetti, tipicamente romanico, presentano decorazioni geometriche, floreali o antropomorfe, quest’ultime riconducibili a volti umani, dai tratti fisiognomici “longobardi”, cioè rappresentati dalla caratteristica forma oblunga. Particolare attenzione merita quella lastra, che in origine doveva costituire parte di una cornice più ampia, utilizzata come capitello e che si presenta su due registri: in quello inferiore un bellissimo leone, nell’atto di balzare, che sputa fuoco dalle fauci spalancate; in quello superiore un drago strisciante, caratterizzato da un corpo squamoso e dalla testa crestata. Non manca nemmeno un capitello con due serpenti incrociati fra loro, e una lastra caratterizzata da cerchi legati con intrecci viminei.

BIBLIOGRAFIA DI RIFERIMENO
Repetti Emanuele, Dizionario Geografico Fisico Storico della Toscana, Tofani, Firenze, 1833, Vol. 1, v. Caprona, pp. 366-367.
Cristiani Testi Maria Laura, Corpus della scultura altomedievale. La Diocesi di Pisa, Fondazione Centro Studi sull’Alto Medioevo, Spoleto, 2011, pp. 161-181.

Pieve di Santa Giulia, Caprona
Foto di Francesco Fiumalbi

Pieve di Santa Giulia, Caprona
Foto di Francesco Fiumalbi

Pieve di Santa Giulia, Caprona
Foto di Francesco Fiumalbi

Prospetto laterale sinistro, Pieve di Santa Giulia, Caprona
Foto di Francesco Fiumalbi

Abside e torre campanaria, Pieve di Santa Giulia, Caprona
Foto di Francesco Fiumalbi

Torre campanaria, Pieve di Santa Giulia, Caprona
Foto di Francesco Fiumalbi

Lastra con leone e drago, Pieve di Santa Giulia, Caprona
Foto di Francesco Fiumalbi

Mensola con decorazione antropomorfa, Pieve di Santa Giulia, Caprona
Foto di Francesco Fiumalbi

Capitello con decorazioni antropomorfe, Pieve di Santa Giulia, Caprona
Foto di Francesco Fiumalbi


Mensola con decorazione geometrica, Pieve di Santa Giulia, Caprona
Foto di Francesco Fiumalbi

Mensola con decorazione antropomorfa, Pieve di Santa Giulia, Caprona
Foto di Francesco Fiumalbi

Mensola con decorazione zoomorfa, Pieve di Santa Giulia, Caprona
Foto di Francesco Fiumalbi

Lastra decorata, Pieve di Santa Giulia, Caprona
Foto di Francesco Fiumalbi

Mensola con decorazione antropomorfa, Pieve di Santa Giulia, Caprona
Foto di Francesco Fiumalbi

Finestra absidale, Pieve di Santa Giulia, Caprona
Foto di Francesco Fiumalbi

LA MEDAGLIETTA DELLA MADONNA DI CIGOLI

di Francesco Fiumalbi

Luglio è il mese in cui da tutte le parrocchie della Diocesi di San Miniato, si svolgono i pellegrinaggi al Santuario della Madonna Madre dei Bimbi di Cigoli. I festeggiamenti culminano il 21 luglio, nel giorno in cui, nel 1451, la Madonna riportò in vita il bambino di una madre di Treggiaia.
Una volta raggiunto il Santuario, rigorosamente a piedi, e aver partecipato alle celebrazioni, i pellegrini potevano lasciare un’offerta, ricevendo una piccola medaglia benedetta a ricordo della visita devozionale, chiamata "Benedizione".
Sul fronte era riportata la Madonna Madre dei Bimbi e sul retro l’immagine del Santuario. Di anno in anno, la medaglietta cambiava: veniva aggiornato l’anno, variava leggermente l’incisione. Una volta a casa, le donne cucivano o spillavano le medagliette ad un indumento, generalmente la camiciola o la canottiera, in modo che la benedizione accompagnasse le persone nella vita di tutti i giorni.

Quella che potete vedere in questa pagina è del 1928, realizzata nel 4° anno dall’Incoronazione, e l’abbiamo rintracciata nei "ricordi" di Concetta Scali, passati poi al figlio Giuseppe Boldrini, cioè mio nonno!



giovedì 19 luglio 2012

GIUSEPPE CHELLI, UNA VITTIMA DELLA MEMORIA

L’appassionato e competente intervento di Claudio Biscarini, a pochi giorni dalle celebrazioni per il 68° anniversario della Strage del Duomo di San Miniato, ha suscitato la commossa reazione di Giuseppe Chelli, uno degli ultimi superstiti ancora in vita. Proponiamo di seguito le sue parole.

UNA VITTIMA DELLA MEMORIA

di Giuseppe Chelli

Il "riassunto" di Claudio che riporta, dopo 68 anni, a parlare dei "fatti del duomo" nella sua complessa dinamica, lo fa con un occhio di particolare riguardo, più che al fatto delittuoso ormai definitivamente attribuito, ai troppi "delitti" collaterali che l'episodio si porta ancora dietro. E fa benissimo Claudio a ricordare e puntualizzare ipotesi su ipotesi le ragioni della Verità, infranta dalle logiche di partito di una fronda massimalista tutt'ora florida. Te francamente, te ne freghi alquanto, caro Claudio, del lato politico e fai bene: il tuo mestiere è far lo storico e lo sai fare benissimo, ma io (e poi ti dirò, almeno un’altra persona), di questa "verità infranta" sono una vittima, "una vittima della memoria" come mi ha definito Costanza Orlandi, con quella raffinata sensibilità che oggi è merce rara.
Ricordo una tua intervista a La Nazione (doveva essere il 2003) quando dicesti che il "mistero" dell'imbroglio ruota tutto su Baglioni. Capire lui vuol dire capire le trame che hanno permesso di insabbiare la verità sulla strage del duomo. Anzi dicesti che lì sta il perché di quel colpo americano che divenne per sempre eccidio tedesco, calunnia per il Giubbi, giustizia mancata per le famiglie e per la memoria storica di San Miniato. Tu, svelando a noi quello che "loro" (i partigiani, poi sindaci a ripetizione) sapevano 68 anni prima, hai compiuto un "delitto", quello di cui parla Costanza. Vedi, Claudio, credevo che l'aver trovato tra te, Paolo e l'Avvocato, l'autore dell'eccidio potesse fare giustizia della memoria delle vittime e dare una certa serenità annoverando la strage del duomo in un caso fortuito di guerra. Ma scoprire che sulla memoria dei 55 si è volutamente speculato per ragioni di partito, che ogni manifestazione di "cordoglio" era una falsa, una vigliacca, sporca, ipocrita, messa in scena, questo non lo sopporto e ormai non lo sopporterò fino alla mia fine.

Le due lapidi sulla facciata del Municipio di San Miniato

C'è un altro superstite come me vittima della memoria, sia pur per ragioni opposte. L'anno scorso alla fine della messa del 22 costui mi avvicinò, e con un dolore nell'anima intravisto nei suoi occhi, mi disse: "Pagherei a sapé dov'hanno trovato i quattrini per far diventare americana una mina tedesca". All'epoca aveva 19 anni, perse mamma e padre, il fratello prete era segretario di Giubbi, ma per lui i genitori sono morti per una mina dei tedeschi, e il Giubbi lo sapeva!
Grazie Claudio di questo contributo che più di ogni altra cerimonia ricorda il 68° anniversario! Aggiungo che se le "vittime della memoria" sono poche, è perché oggi siamo in pochi sopravvissuti.

Giuseppe Chelli

Per tornare all'intervento di Claudio Biscarini clicca qui.


Epigrafe commemorativa posizionata nella Cattedrale nel 50° Anniversario
Foto di Giuseppe Chelli

mercoledì 18 luglio 2012

CLAUDIO BISCARINI: SAN MINIATO 22 LUGLIO 1944

La mattina del 22 luglio 1944 una cannonata d'artiglieria americana penetrò all'interno della Cattedrale, provocando la morte 55 persone e centinaia di feriti. Dopo la conversazione con il Prof. Paolo Paoletti, autore del libro 1944 San Miniato – Tutta la verità sulla strage (Mursia, Milano, 2000), proponiamo questo intervento del giornalista Claudio Biscarini, autore assieme a Giuliano Lastraioli de La Prova (FM Edizioni, San Miniato, 2001). Ringraziamo Claudio Biscarini e Carlo Pagliai, curatore del sito: http://www.dellastoriadempoli.it/.

[AVVERTENZA: il testo è stato redatto in occasione del 68° Anniversario della Strage]

Per leggere la risposta di Giuseppe Chelli clicca qui.

SAN MINIATO 22 LUGLIO 1944

di Claudio Biscarini

Domenica prossima ricorderemo il 68° anniversario della strage nella Cattedrale di Santa Maria Assunta e di San Genesio  di San Miniato. Certamente, nonostante la pubblicazione di un documento che riteniamo risolutivo nel volumetto La Prova, non mancano ancora i “nostalgici” di spiegazioni diverse da quella della granata da 105 mm americana, entrata per puro caso attraverso il semirosone del braccio meridionale del transetto ed esplosa nella navata destra della chiesa. Cerchiamo, quindi, per l'ennesima volta di prevenire questi “nostalgici” e analizziamo i fatti partendo dal documento americano. Perché diciamo che è risolutivo? Due sono le cose che si leggono in quelle scarne righe che ne fanno un testo importantissimo che si accodano ad altre. Primo: il documento è coevo e non ha subito manipolazioni successive in quanto serviva solo per annotare fasi tecniche dell'impiego degli obici del 337th US Field Artillery. Per questo siamo stati in grado non solo di stabilire con assoluta esattezza l'ora dell'inizio dei due cannoneggiamenti su San Miniato, ricordati anche dai testimoni, le coordinate di tiro e il numero dei proiettili sparati. Secondo: leggendo l'annotazione del 23 luglio si può comprendere come essa sia chiara nella sua esposizione seppure sintetica. Si legge,infatti, che i partigiani samminiatesi dicono agli americani che “qualcuno, ieri, ha sparato nella zona di San Miniato e ha colpito una chiesa”. Ora, anche se non fossimo a conoscenza che a sparare furono gli obici statunitensi, salta agli occhi che, se i partigiani avessero saputo che a colpire erano stati i mortai o gli obici tedeschi, la cosa sarebbe stata riportata in maniera chiara agli americani i quali non si sarebbero certo perduta l'occasione di annotare un altro crimine tedesco nei loro documenti. L'annotazione prosegue con “I feriti sono stati trasportati all’ospedale non ci sparate sopra”. Altra palese ammissione che gli americani furono da subito consci di aver preso la chiesa. Infatti, in questo passo è come se avessero scritto “abbiamo fatto una fesseria ieri, badiamo di non ripeterla con l'ospedale”.
Cattedrale di San Miniato

Ma, anche senza il documento americano che pubblicammo con Lastraioli ne La Prova, da anni ci battevamo per avere un confronto pubblico con i detrattori della granata americana, tra cui anche insigni storici, confronto mai avvenuto. I detrattori, i quali ammettevano le due assurde possibilità della mina posta in duomo dai tedeschi “per rappresaglia” o della granata sparata “da un mortaio” tedesco piazzato oltre l'Arno, dovevano rispondere alle nostre poche ma semplici domande ma senza fare voli pindarici sulle massime frequenze, 'ché siamo tutti d'accordo che in Toscana i tedeschi fecero una “guerra di stragi” per i motivi più diversi ma solo per capire che San Miniato non fa parte di quella stagione di assassini fatta dagli uomini di Kesselring.
(1) Ipotesi della mina. Nessuno ci ha mai spiegato come e perché, dalle foto del famoso Barzacchi, non risulti il “fornello”, cioè quella buca che un'esplosione provoca nel terreno se un oggetto esplosivo è posato a terra. Perché, dentro una cassapanca o altrove, a terra doveva trovarsi la arcinota mina visto che non è plausibile (l'avrebbero vista in centinaia) che fosse legata a  una colonna.
(2) Ipotesi della rappresaglia. Nessuno ci ha spiegato, nemmeno gli "esperti di stragi" perché i tedeschi avrebbero scelto questo unico modo di fare rappresaglia, visto che IN NESSUN ALTRO CASO in Italia, essi hanno rinchiuso le persone in un edificio sacro uccidendone solo una minima parte con una mina e/o proietto. Le zone sacre sono state spesso oggetto di stragi. Ad Oradour-sur-Glane, gli uomini della 2° SS Panzer-Granadier-Division Das Reich riunirono donne e bambini nella chiesa, ammazzandoli in massa dandogli fuoco. Su Monte Sole di Marzabotto, a San Martino, i civili, donne vecchi e bambini, furono ammassati nel cimitero e uccisi a colpi di mitragliatrice, mentre nell'Oratorio di Cerpiano furono ammazzati con i mitra e con bombe a mano. A Stazzema le SS della 16° Panzer-Granadier-Division Reichsfuhrer  ammassarono donne, vecchi e bambini sul sagrato della chiesa assassinandoli con una MG 42 e bruciandone i corpi. I superstiti si contarono sulle dita di una sola mano. Perché a San Miniato si sarebbe pensato a “punire” solo i civili che si trovavano in un determinato punto della chiesa visto che non sono mai state trovate mine in altra zona dell'edificio? Perché, alla fuga in massa dopo lo scoppio, i tedeschi non aprirono il fuoco con i mitra uccidendo chi usciva dalla chiesa, come è avvenuto su chi tentava di scappare dagli edifici in fiamme di Monte Sole, Sant'Anna di Stazzema e altre località sedi di stragi? Perché i tedeschi avrebbero dovuto fare una rappresaglia di quelle proporzioni?

"Il Braciere", monumento alla memoria delle vittime
Silvano Bini 1994, piazza del Duomo 

(3) Perché, allora, i tedeschi rinchiusero i civili in due chiese? Come ho ribadito in altri casi, purtroppo in Italia la storia militare diventa storia politica e poco importa ai diversi interlocutori che ne professano anche l’insegnamento ad alti livelli, di conoscere veramente le tecniche e le modalità di un esercito in campagna. A San Miniato, il 16 e lo stesso 22 luglio, erano stati emessi ben due ordini di sfollamento che, o che non fossero stati adeguatamente conosciuti o per negligenza, non vennero obbediti dalla gran parte della popolazione che preferì, non avendo nessuna cognizione dei fatti che sarebbero potuti accadere, rimanere in città nascondendosi. Sappiamo che la “forza” del reparto tedesco che presidiava San Miniato era di circa 40 soldati comandati da un tenente. Con questi uomini, egli doveva fronteggiare parti di  due reggimenti di fanteria americani della 88th Infantry Division, minare le case della città ritenute indispensabili a bloccare la marcia avversaria e tenere a bada la popolazione che poteva anche provocare guai se si fosse accorta del piano di distruzioni. Se non poteva influire che in parte sulle due prime cose, poteva farlo sulla terza concentrando i civili in pochi edifici dove potevano essere più facilmente controllati da pochi uomini.
(4) Ipotesi del mortaio tedesco. La Commissione Giannattasio già escluse la mina in duomo, ipotesi invece cara soprattutto ad alcuni studiosi odierni ma che non hanno mai saputo portare prove valide a suffragarla. La Commissione ripiegò sulla granata da mortaio sparata da oltre Arno dai granatieri germanici. Ma non spiegò alcune cose basilari. Che tipo di mortaio (si disse genericamente “ di medio calibro”), come avrebbe effettuato il tiro e, soprattutto, perché mai l’artiglieria o i mortai tedeschi avrebbero dovuto sparare sulla città a casaccio con la forte probabilità, visto che ancora era in loro mani, di uccidere magari accidentalmente qualcuno dei loro uomini. Diciamo a casaccio, perché centrare da rilevante distanza un obiettivo piccolo come l’apertura del rosone della cappella della SS. Annunziata con un mortaio, avrebbe richiesto almeno dei tiri di aggiustamento, la classica “forcella”, prima di eventualmente fare centro.Tra l’altro, i tedeschi usavano mortai di vario calibro come il 5 cm leichter Granatwerfer 36 con gittata massima a 600 metri, il Granatwerfer 42 da 120 mm con gittata massima di 6000 metri oppure armi già italiane come il 120 mm con gittata massima di 7000 metri  e l’80-81 mm con gittata di 6000 metri. Tiro arcuato, la gittata con un colpo sparato di oltre Arno, appare ai limiti massimi (con proietto che va dove gli pare e con scarsa forza) per avere la precisione al primo colpo di centrare il rosone e quindi, a nostro parere, è inevitabile dire che nessun mortaio tedesco sparò mai sul duomo di San Miniato quella mattina del 22 luglio 1944.

La targa ai piedi de "Il Braciere"
Silvano Bini 1994, piazza del Duomo

Ecco, solo queste poche e semplici considerazioni ci hanno portato da sempre, a parte il documento americano, a trovare nella granata americana penetrata per caso in chiesa la spiegazione più logica. Una spiegazione che a San Miniato in molti già sapevano da quel 22 luglio di 68 anni fa. Allora, perché in tutti questi anni le Amministrazioni comunali per prime non l’hanno accettata, trincerandosi dietro la credenza popolare ( di parte della popolazione semmai)? Possiamo capire che negli anni passati, in mancanza di prove documentali certe, anche in tempi, per la sinistra italiana di forte antiamericanismo, si sia continuato a credere alla versione di (parte) della popolazione. Ma che al momento dell’arrivo di documenti si sia continuato su questa strada, senza onestamente ammettere che, anche se per anni si era data una versione che  errata, con l’apertura degli archivi si era pronti a fare un’analisi seria, ci appare sconcertante. Si è creduto, invece, che l’analisi dei nuovi documenti e il ribadire l’attenzione sulla granata statunitense, e non sulla “fredda strage tedesca”, fosse un attacco politico all’Amministrazione comunale, complici anche alcuni samminiatesi che hanno voluto scientemente fare di questa ricerca solamente storica una battaglia politica. Ma noi da questo ci siamo prontamente ritratti indietro. Noi facciamo storia e non politica e sul piano storico amiamo essere contraddetti, sul merito e non sulla valenza politica di cui francamente ce ne freghiamo alquanto. Si è arrivati a dire che be’ tutto sommato la granata poteva essere anche americana ma, visto che la guerra l’avevano scatenata i tedeschi, la colpa andava sicuramente a loro. Come dire che se uno nasce in Sicilia è sicuramente mafioso! Chi rilasciò a suo tempo tale dichiarazione opinabilissima dimenticava che a fianco di quella Germania c’eravamo stati anche noi per tre anni. Anzi, a onor del vero, se Mussolini si fosse tenuto fuori da quella tragedia, nessuna granata americana o bomba avrebbe mai colpito la nostra terra. Quindi, “chi causa è del suo mal, pianga se stesso” semmai. Ma, probabilmente, il nostro avrà pensato, in linea con una certa sorpassata storiografia degli anni ’60-’70 dello scorso secolo, che solo i fascisti e Mussolini erano responsabili e non il popolo italiano. Certo, gli italiani non furono, nella stragrande maggioranza, contenti di quella guerra. Ma la combatterono e per almeno due anni sperarono che, o la solita fortuna e abilità del “capoccione” o i Panzer dell’alleato germanico, risolvessero le cose a favore dello Stellone nazionale. Solo alla fine del 1942 e, soprattutto, nel 1943 le cose cambiarono vistosamente. Ma, attenzione, la Resistenza fu ancora opera di una minoranza, non esigua, ma sempre minoranza era( 80.000-100.000 alle fine, secondo altre stime con i partigiani dell’ultima ora, 200.000 nel 1945 rispetto alla totalità della popolazione, non sono il “blocco granitico”). Nessuno ormai è pronto ad ammettere il monolite del “popolo alla macchia” caro a Longo. Ci fu un’ampia zona grigia fino al 1945, dove navigavano la gran parte degli italiani che non vedevano l’ora che tutto finisse, la cui massima aspirazione era di non morire e di arrivare a sera con qualche cosa nello stomaco. In questa zona grigia, agivano anche i borsaneristi, le segnorine, i delatori, che non furon pochi, anche anonimi e per una volta, magari facevano la spia non per odio politico ma per interesse personale: non lo ha mai saputo nessuno in quanti denunciarono il vicino e, poi, rientrarono silenti nella normalità magari alla fine con un bel fazzoletto colorato al collo e un’arma in mano a conquistarsi il loro singolo, personale “posto al sole” per il futuro. Certo, gli italiani nella gran parte non amavano né fascisti né tedeschi ma in tanti non amavano nemmeno i partigiani a cui obtorto collo dovevano dare il vitello, la farina, le galline e che con le loro azioni mettevano in pericolo la loro vita, disagiata quanto si vuole, ma sempre preziosa. Basta parlarci coi contadini per saperlo. Altrimenti Contini Bonaccossi come avrebbe fatto a coniare, riguardo alla strage di Civitella della Chiana ma applicabile anche a molte altre stragi compreso Fucecchio, quelle due parole che si rifanno a una “memoria divisa”? Ma a San Miniato le cose si son visto in altro modo e si è voluto ribadire la strage tedesca nonostante tutto e tutti. Addirittura, unica sede comunale che porta una errata corrige sulla facciata, con l’inaugurazione di una seconda lapide quasi che questa tragedia fosse un romanzo d’appendice con due capitoli. Non ci rimane, quindi, che innalzare, in questo 68° anniversario, un pensiero agli unici che pagarono con la vita, quei poveri innocenti che rimasero stritolati nel più grande e terribile conflitto che la storia umana, fino ad ora e speriamo in eterno, ricordi. Per loro, granata americana o tedesca o mina, fece poca differenza.

Claudio Biscarini

Per leggere la risposta di Giuseppe Chelli clicca qui.


domenica 15 luglio 2012

GIUSEPPE LANDI A SAN MINIATO

di Francesco Fiumalbi

A San Miniato capita di fare incontri inaspettati. Merito anche di Luciano Marrucci, che attira a sé eccezionali personalità di ogni tipo.
Giunto in Piazza del Seminario, vedo due figure che stanno dietro ad un cavalletto. Sembrano confabulare; assieme a Luciano Marrucci c’è Giuseppe Landi, livornese graffiante, straordinario pittore in stile macchiaiolo.
Don Luciano lo conosciamo tutti, è un tipo formidabile, ma Landi non è certo da meno! Cappellino da pescatore mimetico a coprire una folta chioma brizzolata; un bel “baffo robusto”, che fa il paio con gli occhiali quasi in punta di naso, come a dire: gli occhiali sono necessari, ma meglio vedere direttamente con gli occhi!

Giuseppe Landi con la sua opera
Foto di Francesco Fiumalbi

Mosso dalla curiosità, ancor prima di porgere un saluto, mi dirigo anch’io dietro al cavalletto e vedo il disegno di uno fra gli scorci più belli di San Miniato. Non è un’immagine qualunque: ha una luce magica, vi assicuro che la fotografia non rende assolutamente giustizia.
Ci presentiamo.
Ancora imbambolato da ciò che stavo vedendo, con un pizzico di timore chiedo: “Quanto tempo ci vuole per fare un quadro come questo?”. Sono stato un po’ avventato e anche un po’ ingenuo, me ne rendo conto un attimo dopo. “Trent’anni” – risponde Landi – “E’ trent’anni che dipingo!”.
1-0 palla al centro.

Giuseppe Landi all’opera
Foto di Francesco Fiumalbi

Decido quindi di mandare avanti Luciano Marrucci. E fra una riflessione su chi abbia scoperto la ruota ed una su chi abbia capito che il fuoco era una cosa importante (non sto scherzando, gli argomenti erano questi!!), parliamo un po’ di Giuseppe Landi e della sua pittura. Egli è l’autore di quei panorami che sono stati pubblicati nella raccolta “Magica Valdegola” (FM Edizioni, 2005) e, ve lo assicuro, col pennello di Landi è magica davvero!
La sua non è propriamente una pittura dal vero. Riesce a cogliere alcuni aspetti (un dettaglio, un’ombra, un colore) che esalta in una maniera straordinaria. Le “macchie” sfumano, si sovrappongono, talvolta fanno anche a cazzotti fra loro. E quello che in dettaglio può sembrare un caos inestricabile, ecco che ad una visione complessiva acquista un senso: quelle che sembravano macchie alla rinfusa ora sono linee, superfici, volumi. Non come una fotografia, molto meglio.
Come dice Landi, Polifemo aveva un occhio solo (riferendosi alla macchina fotografica), mentre noi uomini abbiamo due occhi e possiamo fare molto di più, almeno il doppio! La fotografia fissa un attimo, mentre un quadro ha bisogno di tempo e può raccogliere tutti quegli spunti che si susseguono fra l’inizio e la fine della pittura.

Giuseppe Landi all’opera
Foto di Francesco Fiumalbi

E’ uno spettacolo vedere la velocità e l’abilità con cui Landi mischia i colori sulla tavolozza, ricavandone altri più adatti a quello che vuole rappresentare.
Mi faccio coraggio, ormai il ghiaccio è  rotto. “I colori come fanno a brillare in quel modo?”
Aspetto la risposta dal pittore, invece arriva da Luciano Marrucci: “E’ la “Regola del Pavone”! Le penne colorate del pavone sono bellissime, coloratissime. Se ti avvicini e provi a smuoverle, scopri che le penne che stanno sotto sono nere. E’ il nero di base che le rende così brillanti”. Rimango in silenzio; Landi dà un’ultima pennellata ed esclama: “E’ proprio così!”. In effetti, ci faccio caso solo in quel momento (lo si può vedere nella foto qui sopra), la tavola, nella parte ancora da dipingere, è ricoperta da uno strato di tempera nero.

Giuseppe Landi all’opera
Foto di Francesco Fiumalbi

La conversazione prosegue davanti ad un caffè. Landi lascia tutto apparecchiato in Piazza del Seminario, come se il dipinto dovesse assorbire l’anima del luogo. Quando torniamo, la tavola mi pare ancora più bella. Magica.
Il pittore finisce di dare le ultime pennellate; per ora ha finito, riprenderà il giorno successivo.

Concludo, citando una sua frase riportata nella raccolta “Magica Valdegola” (FM Edizioni, 2005)
Quando dipingo un albero devo proprio pensare che dentro ci può essere un uccellino. Ecco perché i verdi degli alberi sono animati: sono animati perché abitati”.
E allora chissà, se Landi, nella nostra Piazza del Seminario, non si sarà immaginato tutte quelle persone, che nelle varie epoche sono passate di lì: imperatori, papi, vescovi, ma anche i contadini che venivano a San Miniato a vendere i prodotti della terra, i signorotti col panciotto, i seminaristi, le pie donne che salivano verso il Duomo per le funzioni. In effetti ognuno di loro sembra rivivere nelle pietre, nei mattoni, nei colori, così brillanti e pieni di vita, disegnati nella tavola di Giuseppe Landi.

La tavola di Giuseppe Landi
Foto di Francesco Fiumalbi

Landi ha completato il quadro nei giorni seguenti. Il pittore se n’è andato, verso quei lidi a lui molto cari, ma qui a San Miniato ha lasciato qualcosa. La tavola adesso è in vendita da “Pietrone” in Piazza del Seminario. Tutti possono vederla avvicinandosi alla vetrina, ma occhio! Se passa qualcuno e se la compra, non c’è più!

La tavola di Giuseppe Landi in vendita

giovedì 12 luglio 2012

TONDA

di Francesco Fiumalbi e Marco Mancini

Tonda è un piccolo borgo situato alla sommità di una piccola collina immersa fra oliveti e vigneti, nel Comune di Montaione (Fi), fra la Valdegola e la Valdera.
Fu un importante castello, di cui oggi rimangono la torre e parte del circuito difensivo, fondato attorno all’anno 1000. Nel 1212 l’Imperatore Ottone IV lo assegnò in feudo a Ventilio e Guido, del ramo pisano degli Aldobrandeschi. Pochi anni dopo, il castello entrò nell’orbita dei Della Gherardesca di Volterra, i quali dal 1231 al 1267, lo cedettero progressivamente al Comune di San Miniato. Divenne quindi un presidio sanminiatese, e sotto il controllo economico della famiglia dei Mangiadori.
Il castello era situato in una posizione strategica, lungo la via volterrana e, nei pressi dell’odierna Villa Scotti, fu edificato un piccolo ospedale a servizio dei viandanti, con la cappella dedicata alla Santa Croce. Tonda si trovava anche vicino alla Selva di Camporena, una grande riserva di legname contesa anche da Volterra, San Gimignano e Castelfiorentino.
La situazione rimase inalterata fino al 1370 quando, dopo la caduta di San Miniato nelle mani di Firenze, Tonda fu dichiarato Comune autonomo, con propri Statuti, e il cui governo fu affidato al temibile Ceo di Neruccio, detto “Il Malvagio di Tonda”. Il Comune, dotato di un palazzo civico e di una grande cisterna a servizio della popolazione, fu unito a quello di  Montaione nel 1774.
La chiesa d’età romanica, è dedicata a San Nicola da Bari, e al suo interno vi erano le statue in terracotta della Madonna e dell’Arcangelo Gabriele, oggi al Museo Diocesano d’Arte Sacra di Volterra. Il bellissimo ciborio in alabastro, datato 1576 è stato invece ricollocato all’interno della nuova chiesa, costruita negli anni ’50 del ‘900. Nel 1861 Tonda contava 75 abitanti all’interno del borgo e oltre 200 nelle zone limitrofe.
Dopo la Seconda Guerra Mondiale il borgo, che viveva dei prodotti della terra, si spopolò a vantaggio dei centri industriali di pianura. L’antico castello si trovò completamente disabitato e in abbandono. Da alcuni anni, è tornato a nuova vita grazie al considerevole investimento di Hapimag, azienda specializzata nel settore turistico, che lo ha trasformato in un resort dotato di tutti i comforts.

Ringraziamo l’azienda Hapimag, in particolare la Sig.ra Brigitte Egli, Resort Manager Tonda, per la disponibilità e la gentilezza che abbiamo avuto modo di apprezzare durante la nostra visita.

“TONDA”
Foto di Francesco Fiumalbi

Panorama collinare da Tonda
Foto di Francesco Fiumalbi

Ingresso al borgo di Tonda
Foto di Francesco Fiumalbi

Ingresso al borgo di Tonda
Foto di Francesco Fiumalbi

La torre medievale di Tonda
Foto di Francesco Fiumalbi

La chiesa di San Niccolò da Bari
Foto di Francesco Fiumalbi

Tonda, scorcio caratteristico
Foto di Francesco Fiumalbi

Tonda, torre campanaria
Foto di Francesco Fiumalbi
Tonda, scorcio caratteristico
Foto di Marco Mancini

Tonda, cuspide della facciata di San Niccolò
Foto di Marco Mancini

Vista panoramica da Tonda
Foto di Francesco Fiumalbi
Tonda, edicola, particolare
Foto di Francesco Fiumalbi

Tonda, scorcio caratteristico
Foto di Francesco Fiumalbi

Tonda, crocifisso, facciata di San Niccolò da Bari
Foto di Francesco Fiumalbi


Tonda, edicola votiva
Foto di Marco Mancini