sabato 30 novembre 2013

GIUSEPPE RONDONI: LA ROCCA DI SAN MINIATO AL TEDESCO E LA MORTE DI PIER DELLA VIGNA

a cura di Francesco Fiumalbi

Giuseppe Rondoni (San Miniato, 17 novembre 1853 – 16 novembre 1919), già Direttore della Miscellanea Storica della Valdelsa e Presidente dell'Accademia degli Euteleti, è senza dubbio una figura molto importante per i suoi contributi di storia sanminiatese. Fu autore, appena ventiquattrenne del testo Memorie Storiche di San Miniato al Tedesco, Tip. Ristori, San Miniato, 1876, e di innumerevoli saggi e articoli.
In questo post è proposta la trascrizione del suo breve saggio dal titolo La Rocca di S. Miniato al Tedesco e la Morte di Pier della Vigna, pubblicato nella Rivista Storica Italiana, n. 5, Torino, 1888, pp. 38-46. Questa sua opera è molto significativa perché, oltre a fare un notevole passo avanti rispetto alle Memorie Storiche del 1876, raccoglie in citazione una serie di documenti, molto interessanti, i quali poi saranno largamente utilizzati nella storiografia sanminiatese di tutto il '900. Solo per citarne un paio, il Can. Francesco Maria Galli Angelini e Maria Laura Cristiani Testi ne trassero notevoli indicazioni per stendere i propri lavori. Purtroppo, essendo una rivista a tiratura nazionale edita ormai da molto tempo, non era facile riuscire a consultarla, e quindi il testo del Rondoni è caduto un po' nell'oblio. Quindi, pensando di fare cosa gradita, il testo del saggio è qui riproposto nella sua interezza.
Oltre ai documenti d'archivio dell'epoca di Federico II, pubblicati da J. L. A. Huillard-Bréholles (Historia Diplomatica Frederici Secundi, 6 voll., Parigi, 1852-1861), e da Giovanni Lami (Sanctae Florentinae Ecclesiae Monumenta, 3 voll., Firenze, 1758, e in Charitonis et Hippophili Hodoeporici, 3 voll., Firenze, 1741-1743), Giuseppe Rondoni utilizza anche le fonti cronachistiche offerte da Giovanni Villani e Ricordano Malispini, e trae una serie di informazioni raccolte da Antonio Vensi (San Miniato 1830-1904) e del Proposto Giuseppe Conti (San Miniato, 1807-1865). Inoltre dimostra di essere in contatto con alcuni professori universitari dell'epoca. La bontà del lavoro di ricerca che effettua Giuseppe Rondoni non è da mettere in discussione, anche se alcuni dei risultati che egli propone su Pier delle Vigne non sono propriamente soddisfacenti. Per questo motivo negli anni la storiografia ne ha preso un po' le distanze. 

Rivista Storica Italiana, n. 5, Torino, 1888. Frontespizio.

Di seguito è proposta la trascrizione. Per motivi esclusivamente di impostazione grafica e per una migliore facilità di lettura, le note che Giuseppe Rondoni inserisce a piè di ogni pagina, sono tutte riportate in fondo al testo, secondo una numerazione progressiva.

Estratto da La Rocca di S. Miniato al Tedesco e la Morte di Pier della Vigna, Rivista Storica Italiana, n. 5, Torino, 1888, pp. 38-46.

[038]
La Rôcca di S. Miniato al Tedesco
e la Morte di Pier della Vigna.

I.
A chi fa viaggio da Pisa a Firenze appare, a metà strada, una rôcca medioevale semplice ed austera dominante da un'elevata collina quell'orizzonte armonioso di ondulati declivi, di villaggi e di case biancheggianti tra il verde, la luce e la pace operosa della Toscana gentile. Ora non tutti sanno che da quella rôcca di S. Miniato al Tedesco si gode una delle più splendide viste, dai selvosi Appennini al ceruleo Tirreno, dalla Valdinievole cosi ricca di castelli e di borgate alla pianura del Val d'Arno disotto, che pare tutto una città, ed alla rupe ove il sole morente tinge d'oro e di porpora le torri lontane della etrusca Volterra. Né tutti forse hanno presente che questo monumento isolato, quasi il fantasma del sacro romano impero alemanno, è vivo ricordo di uno degli episodi più solenni e più tragici della nostra storia, di una delle questioni più ardue e delicate di critica storica medioevale: la morte di Pier della Vigna. Ma la povera rôcca, come il suo sacro romano impero, abbandonata da un pezzo e scoronata dai fulmini, fu scossa di recente da un terremoto in guisa da farne temere imminente la ruina, seppure da chi ne ha il dovere e il diritto non si provvede, e con prontezza, a salvarla insieme colle grandi memorie ch'essa evoca e rappresenta.

II.
Non è possibile, per la mancanza di documenti certi, determinare con precisione l'anno della costruzione di questa rôcca che suol chiamarsi di Federigo, perchè veramente fatta innalzare da Federigo II. Del rimanente sappiamo che S. Miniato era già un luogo fortificato sin da molto tempo innanzi, e per tacere della tradizione che [039] attribuisce le sue prime mura ad Ottone I, e di quella che lassù risiedessero i vicari tedeschi colle loro masnade fino dai primordi del sec. XII (01), abbiamo un diploma di Federigo I (a. 1178, Ind. XI, 13 Kal. Febr.) all'Abbadia di S. Salvatore all'Isola dato «in palatio apud castrum S. Miniatis», e una conferma di privilegi concessa da Enrico VI a Ildebrando vescovo di Volterra (a. 1186, Ind. IV), pure ratificata: apud castrum S. Miniatis. Risulta poi che i Senesi dovevano pagare nello stesso anno 70 marche di puro e buono argento alla Camera imperiale, presso il castello medesimo, ricordato pure in una sentenza del 14 gennaio 1211 (in ecclesia S. Marie castelli S. Miniatis) (02).
La rôcca sembra ricordata, credo la prima volta, in un pregevole documento del marzo 1221, col quale Everardo di Lutri definisce una lite fra il comune di Pistoia e il vescovo di quella città «actum prope portam S. Miniatis seu casseri», mentre alla stessa porta coll'annesso fortilizio può alludere la espressione prope portam casseri S. Miniatis, che ricorre in altro diploma della Cancelleria imperiale del 1222 (03). E nel 1223 (15 gennaio): in casseri S. Miniatis et habito Consilio bonorum ac sapientum virorum S. Miniatis, Alessandro, castellano del luogo, esercitando le veci del vicario di Toscana, e col consenso di Loderio «militis ejusdem soci in cassaro S. Miniatis», permette ai consoli dei mercanti di S. Miniato di frequentare sicuramente il castello e la curia samminiatese fino all'Arno, e dall'Amo a Porcari, coll'obbligo di certi pedaggi. Notevole tra le firme quella di Ermanno: «canevario ejusdem casseri» (04). D'altra parte si narra che Corrado di Spira, innanzi di passare nell'Umbria, avesse munita a guisa di fortezza la chiesa di S. Michele posta sulla cima del poggio di S. Miniato, e già mi parve che si trattasse proprio dell'innalzamento della rôcca, ma forse è da credere che il ministro imperiale si limitasse al compimento dell'edifizio. Fatto sta che Corrado, vescovo di Spira e di Metz e cancelliere dell'impero, fu nominato legato d'Italia il 17 aprile del 1220, esercitando tale ufficio dall'agosto al marzo del 1221, quando ritornò in Alemagna (05).
[040] Che poi il Cassero dei ricordati diplomi imperiali sia veramente la Rôcca, appare dal senso speciale del vocabolo («cassarium, castrum, arx; nome che davasi alla parte più forte e più elevata di un castello, di forma quadra o tonda, a foggia di torrione, maschio», così la Crusca), e dagli esempi analoghi citati dal Ducange: «in cassero seu turri principali»; «possessionem et quasi cassarti et turris ac totius castri» (06). E si noti che anche da disegni alquanto antichi si rileva ch'era la nostra rôcca parte principale di un ben inteso sistema di fortificazioni che incoronavano la cima del poggio, e ch'essa sorgeva presso una porta della cittadella imperiale, potendosi scorgere anche oggi qualche vestigio di altre costruzioni, e il principio di una galleria sotterranea che doveva mettere in comunicazione la torre col palazzo pubblico, ed altri punti della città munita in antico di un triplice recinto di forti mura (07). Anche il Villani attribuisce la fondazione della Rôcca di S. Miniato a Federigo II (08), e poiché, fino dal 1222, i documenti, in sostanza, confermano la sua asserzione, ricordandosi prima di quell'anno solo il palazzo o il castello di S. Miniato, mentre, subito dopo, viene ad un tratto citato spesso il cassero, cosi la sua costruzione risale indubitatamente ai primi anni del regno del grande svevo.
Risulta quindi l'antichità ragguardevole del nostro monumento, e il suo carattere e la importanza. È infatti un avanzo di quegli edifizi e di quell'architettura, onde tanto si compiacque il secondo Federigo, e de' quali pur troppo restano in Italia assai scarse mine. È una testimonianza viva della politica del grande imperatore che aveva scelto S. Miniato, cui fu largo di molti privilegi (09), come sua cittadella per tenere in fede gli amici e fronteggiare i nemici, e come residenza quasi abituale del Vicario e della Camera imperiale in Toscana (10). Unico e cadente monumento superstite per la storia dei Vicari imperiali in questa regione, storia di particolare interesse, oltreché per gl'Italiani, per gli Alemanni, non va la nostra rôcca confusa colle tante torri signorili e feudali più o meno ben [041] conservate in tante parti d'Italia, essa, fortezza del sacro romano impero, e dei magistrati che rappresentarono quel sistema di governo, col quale Federigo, mantenendo unita l'Italia coll'Alemagna, tentò pure di raccoglierne le sparse forze, concentrando il potere. Fu inoltre prigione di Stato, e si collega con essa una memoria storica e poetica fieramente immortale.

III.
È noto quanto siano incerte le notizie intorno alla sventurata fine di Pier della Vigna, fatto che l'Huillard-Bréholles chiamava «un mistero storico» (11). Ora, escludendo subito come puramente leggendari i racconti del Tritemio, e la voce riferita, ma non accettata da Benvenuto da Imola, ch'egli si gittasse dall'alto del suo palazzo di Capua, mentre Federigo passava per la via, se può restar dubbio (e non lo ammetto per le ragioni che dirò) che il gran cancelliere morisse nel cassero di S. Miniato ovvero in Pisa, e certo però ad ogni modo e consentito da tutti, cronisti antichi e storici moderni, ch'ei fu condotto in S. Miniato dall'imperatore, ed ivi fatto accecare nel marzo del 1249 (12). L'Huìllard-Bréholles non risolve il dubbio circa il luogo della morte, ma sembra propendere (come lo Chérrier ed altri) per la opinione che il Della Vigna si uccidesse mentre da S. Miniato si trasportava a Pisa per esporlo al furore di quei cittadini, suoi particolari nemici (13). Ora, tutto considerato, la critica storica, o m'inganno, dovrebbe inclinare piuttosto verso la opinione contraria, ed anzi di recente il prof. Pagano di Diamante riteneva non essere più incerto il luogo ove il grande sventurato finiva i suoi giorni, e cioè la rôcca o prigione di Stato di S. Miniato. Ma poiché egli non si trattiene come di ragione e con esattezza sull'argomento, né mi pare che adduca le prove che valgono a sostenere quell'opinione, ch'ei dà per certa; ma che, com'egli l'accenna, sembrerebbe invece forse più incerta che mai (14), e poiché d'altro lato il De Blasiis crede ancora accertata la morte a Pisa (15), [042] cosi torna opportuna qualche considerazione in proposito per risolvere forse l'intricata questione.
Il «Chrónicon de rebus in Italia gestis» edito dall'Huillard-Bréholles, opera di un ardente ghibellino di Piacenza, vissuto nella seconda metà del secolo XIII, vera cronica schietta e ordinata dei ghibellini d'ltalia e di Lombardia sino alla fine del secolo XIII (cessa coll'anno 1284), attingendo, come l'autore stesso dichiara, le notizie sulle gesta di Federigo II da antiche memorie (e la redazione propriamente originale incomincia coi tempi di quel sovrano), narra che a Pier della Vigna furono strappati gli occhi in S. Miniato, ov'egli finì la sua vita «oculos de capite erui fecit in S. Miniato, ubi suam vitam finivit» (16). L'Huillard-Bréholles ritiene il cronista non cosi bene informato circa il luogo della morte, come su tutto il resto. Ma perchè? Ecco: noi abbiamo (cosi egli dice) contro questa opinione tre testimonianze troppo precise, troppo concordi (si noti) perché possano essere messe dapparte. Le testimonianze sarebbero: Matteo Paris, e due croniche pisane che riferiscono una tradizione locale in termini presso a poco identici (17). Ma è proprio vero che M. Paris, il quale scriveva essendo lontano dai luoghi, né proponevasi di trattare ex-professo delle imprese di Federigo, dica in modo preciso esser morto il Logoteta in Pisa? Ponendo a riscontro il testo del Paris colla traduzione francese che ne dava l'Huillard-Bréholles stesso, mi fu dato di leggervi soltanto che Pietro abbacinato venne condotto a ludibrio per varie città d'Italia e di Apulia, e che l'imperatore finalmente ordinava che venisse esposto ai Pisani perché ne facessero strazio. Conosciuta la crudele sentenza, Pietro, per non cadere in mano a cosi formidabili nemici, ricordevole di un detto di Seneca, percuotendo fortemente il capo alla colonna alla quale era legato, si ruppe il cranio (18). Parrebbe proprio dal contesto e da quell'allusione alla colonna che si suicidasse in prigione, e che perciò dovesse ricever conferma il racconto del cronista piacentino che fa giungere quell'infelice, carico di catene, in S. Miniato, dalla parte di Pontremoli dopo essere stato catturato in Verona, e dopo una fermata a Borgo S. Donnino, forse anche indirizzato a Pisa, e già spettacolo miserando della volubilità della fortuna a [043] molte terre d'Italia. Ed anche Francesco Pipino e Guido Bonatti la sostanza convengono ch'ei troncò la sua esistenza nello squallore del carcere (19).
Né si trova poi troppa precisione e concordia nelle tradizioni pisane, perpetuatesi in termini tutt'altro che identici e sicuri. Secondo un passo di un codice dell'ospedale di Pisa, che il Dal Borgo giudica antichissimo, ma che appartiene per la scrittura al sec. XIV, ed è un registro di privilegi concessi al pio luogo, Federigo II, trattenendosi in S. Miniato, e leggendo l'epistole del papa a lui proponente la pace, fece accecare Pier della Vigna come perturbatore di essa, e, in breve, lo mandò a Pisa perché fosse ucciso «a pueris». Egli allora in terram de mulo corruens se ipsum excerebravit, et quidem desperatus in ecclesia S. Andrae decessit. E poco innanzi vi si legge che il ministro era caduto in disgrazia perché «abutebatur imperatrice, et erat in gaudio cum ea dum erat impertor in bello»: fola evidente. Secondo un'altra cronica pisana, si fece menare in una chiesa, e domandò al guardiano se vi era ostacolo fra il muro e lui. Dietro risposta negativa, si gittò con tanta violenza contro il muro che si uccise (20). Alcuni degli antichi commentatori della Divina Commedia accreditarono la tradizione, o alterandola, o forse riferendone ora l'uno ora l'altro degli aspetti vari e mutevoli. Per Jacopo di Dante mori il Della Vigna battendo il capo presso il Fosso Arnonico, fuori di Pisa, versione accettata dallo Scartazzini (21). Altri scrive che portato a Pisa da S. Miniato «fu per li somieri (asinai) tolto giuso, e messo ad un ospedale perché reposasse, e quivi batto tanto lo capo al muro che morì» (22). Che se alcuni, a dir vero, riferiscono che si sfracellò il capo ad una muraglia, senza specificare il luogo, l'Anonimo intesse un racconto che offre il colorito e le inverosimiglianze di certe leggende, e cioè che Pier della Vigna, già abbacinato, ma libero, erasi ritirato a Pisa, affine di provare la sua innocenza, e non riuscendovi, e udendo dirsi villania mentre andava attorno per la città, si uccise presso S. Paolo (23).
Insomma la tradizione che diremo pisana è concorde soltanto [044] nel far morire Piero a Pisa o nei dintorni, variando non poco i particolari della morte; ma, per tacere della narrazione affatto leggendaria dell'Anonimo, chi può negare la inverosimiglianza che Piero si facesse condurre qua e là da un guardiano, e la probabilità che il fondo del racconto del codice dell'ospedale pisano sia desunto dalla cronica di M. Paris, come ne apparirebbe un indizio, per quanto remoto, in quell'excerebravit, ch'è il verbo stesso usato dal celebre cronista? E qui come non sospettare che la tradizione pisana possa ritenersi per una di quelle onde si compiacquero tanto i Comuni, nata e accreditata appunto dall'esser Pier della Vigna morto in un fondo di torre a S. Miniato, mentre doveva essere trasferito a Pisa, talché dai Pisani, i quali consideravano il castello come propugnacolo di confine della propria città, si volle morto senz'altro in essa? Ma v'è di più. Fra gli stessi commentatori di Dante, Benvenuto da Imola riferisce proprio di aver letto che trasportandosi Piero su di una mula a Pisa, «depositus apud castellum S. Miniatis percussit caput ad murum, et mortuus est ibi» (24). Vero è ch'ei ritiene improbabile che l'imperatore conducesse seco l'infelice (e il Tiraboschi dà in questo ragione all'acuto commentatore) (25); ma, in sostanza, conclude ch'ei dovè morire in carcere: «sed quid quid dicatur credo, ut jam dixi, quod se interfecerit in carcere». E, a rigore, il carcere non poteva essere che quello della nostra rócca. Infine che il maestro «per grande dolore si lasciò morire in prigione», scrive il Villani, copiato a lettera dalla cronica malespiniana (26). Che dire per ultimo della versione del Collenuccio, che il De-Blasiis non sa qual fede meriti, confessando che quello scrittore è di età posteriore, né sempre bene informato? Federigo (cosi il Collenuccio) (27) entrò in Toscana, conducendosi appresso il prigioniero, e volendo assicurarsi dei cittadini di S. Miniato, che sospettava tramassero contro di lui, incatenati molti suoi militi, e messo in mezzo Pietro, li mandò in quel castello, dando a credere che volesse lasciarveli in custodia. Ma i militi quando furono dentro, spezzate le catene, occuparono le porte, e nell'aprirle introdussero Federico che fece crudelmente punire i sediziosi. Ma nella storia di S. Miniato, e nei documenti che si riferiscono agli Svevi non è indizio alcuno che [045] possa confermare un simile tradimento; ché anzi i Samminiatesi si dimostrarono sempre ligi agli Svevi, e ne ottennero, come ho detto, privilegi insigni. I cronisti del tempo, le fonti vere e proprie nulla sanno del singolare stratagemma, che ricorda altri stratagemmi simili certamente leggendari, e poiché il Collenuccio è solo a narrarlo, egli vissuto nel secolo XV, cosi è da riconoscervi un frammento di quelle voci vaghe, contradditorie, infondate intorno alla misteriosa caduta del Della Vigna, e forse un frammento della leggenda formatasi intorno a lui, leggenda della quale il racconto dell'Anonimo e di altri commentatori, nonché le tradizioni pisane col particolare della tresca coll'imperatrice, stanno a rappresentare le versioni principali. La morte nel carcere di S. Miniato era troppo semplice e naturale, perché non si volesse alterarla ed aggiungervi; i Pisani troppo alteri e potenti amici dell'imperatore perché non volessero avere avuta gran parte nella fine del ministro che aveva provocato tutto il suo sdegno. Le cadenti mura della Rôcca samminiatese furono adunque l'ultima dimora del dotto e gentile spirito capuano.

IV.
Molti uomini oscuri languirono in quella prigione subito dopo il grande uomo di stato. Fra i prigionieri fatti nella resa del castello di Capraia alcuni Fiorentini vi morirono d'inedia o in altro crudel modo, Rinieri Buondelmonte affogato nell'acqua, e Rodolfo vicario abbacinato lui pure e decapitato (28). Nel 1255 Manfredi liberava i carcerati della Rôcca, ch'è ricordata di frequente, da questi tempi in poi, sia negli atti dei vicari della seconda metà del secolo XIII, sia nei cronisti fiorentini. Nel 1369 fu espugnata dai Fiorentini, dopo tre giorni che si erano insignoriti di S. Miniato, spengendo la sua libertà; non fu potuta espugnare da Benedetto Mangiadori, fuoruscito samminiatese, quando coll'aiuto del Visconti e dell'Appiano tentò far ribellare a Firenze il comune natio. I Fiorentini continuarono ad apprezzare la importanza di quel fortilizio, e in un Registro del Comune dell'Archivio di S. Miniato, dall'anno 1392 al 1397, si trova che per lettera di Noferi di Andrea Neri vicario di S. Miniato nel 1397 è ordinato alle terre del Val d'Arno di stare in arme e vigilare, come pure di fare attenzione al segno dei fuochi della [046] Rôcca, aecadendo qualche attentato in tempo di notte. Inoltre, cominciate in Italia, sulla fine del secolo XV, le guerre che partorirono la nostra servitù, i Priori di S. Miniato, per ordine di Firenze, «ne minimo hostium impetu expugnari possimus», approvisionarono la Rócca (che pochi anni prima, nel 1486, era stata abbandonata e affittata a Giuliano da S. Quintino «coll'entrata come sta ora e coll'orto») e la guernirono di armi e di munizioni, 24 spingarde, 80 archibusi, 200 corazze, 100 balestre e 100 lance (29). Oppose resistenaa agli Spagnaoli, eppoi al Ferruccio (30), sinché, caduta la repubblica, quel forte arnese di guerra, già cittadella imperiale e ghibellina, eppoi propugnacolo di una potente repubblica guelfa, fu venduto, declinando il secolo XVI, insieme colle sue pertinenze dal «Serenissimo Granduca, e per esso dai Magnifici Signori Capitani delle Arti della città di Firenze» a Michele Mercati nobiluomo samminiatese, che si trova fare istanza nel 1583 perché il titolo della chiesa di S. Michele di Ròcca venisse trasferito nella vicina chiesa di S. Stefano (31). Ma già la fortezza aveva sentito i danni del tempo e degli uomini. Delia cappella rimanevano appena alcune vestigia, né avea più servito al culto da tempo immemorabile «almeno dopo le guerre e la devastazione della Rôcca». Questa poi non serviva più ad uso pubblico, ed anzi «era luogo abbandonato in balìa delle bestie e degli spini, e pieno d'immondezze» (32). Cosi termina la storia di quella RÔcca che dalla cima del suo monte vide nascere le grandezze di Pisa e Firenze, e passare le loro rivoluzioni, e che vide sotto le cupe sue vôlte, ora asilo di animali notturni, «colui che volse ambo le chiavi del cor di Federigo», e il tragico avvenimento onde poi rifulse uno degli episodi, una delle figure più grandiose del poema dantesco. Ed ogni ricordo dantesco è parte sacra del patrimonio della Nazione.

G. Rondoni.


NOTE BIBLIOGRAFICHE
(01) G. Villani, Cronica, lib. IV, cap. 26
(02) Lami, Mon. Eccl. Flor., tomo 1, pag. 375 e pag. 471. Muratori, Ant. It. M. Aevi, tomo IV, p. 469. Ficker, Forschungen etc., n. 250. Cfr. Repetti, Dizionario storico geografico della Toscana, all'articolo S. Miniato.
(03) Ficker, Forschungen zur Reichs und Rechtsgeschichte italiens, n. 291.
(04) Idem, n. 300 e 304.
(05) G. Rondoni, Memorie storiche di S. Miniato, pag. 47, e G. Conti, Storia della ven. Immagine dell'Oratorio del SS. Crocifisso di S. Miniato, pag. 86. In una raccolta di documenti inediti dello stesso Proposto G. Conti il passaggio di Corrado è riferito, non so con quale autorità, al 1237. Cfr. Huillard-Bréholles, Hist. Diplimatica Frid II, Introduction, pag. CDLXXII.
(06) Dizionario della Crusca, v. Impressions. Ducange, Glossarium.
(07) La riproduzione di questi disegni si vede nei Doc. inediti per la storia di S. Miniato mss. dal sig. A. Vensi, p. 628. La porta presso il Cassero era detta alle Cornacchie.
(08) Lib. VI, c. I.
(09) G. Rondoni, Memorie storiche di S. Miniato, loc. cit.
(10) G. Villani, IV, XXIX
(11) Huillard-Bréholles, Vie et correspondance de Pierre de la Vigne. Paris. Plon. 1864.
(12) Id., pag. 84-85.
(13) Chérrier, Hist. De la lutte des Papes etc., tomo II, pag. 375.
(14) Propugnatore, anno XIX, disp. 2A, pag. 229.
(15) Così l'illustre professore, dietro mia richiesta, si compiaceva di scriveremi in una sua lettera del 25 ottobre 1887, confermando ciò ch'ei dice nel suo dotto libro: Della vita e delle opere di Pietro della Vigna.
(16) Cronicon Placentinum et Chronicon de rebus etc. Parisiis, 1856, Pref. pag. XXII e segg. e pag. 218.
(17) Huillard-Bréholles, loc. cit.
(18) M. Paris, Opera. Parisiis, 1644, pag. 511, e Grande Cronique, tomo VI, p. 477. Traduz dello Huillard-Bréholles.
(19) Pipino, Chronico, II, XXXIX. Rer. It. Script., tomo IX, e G. Bonatti, Astronom., pag. 220, ediz. di Basilea, 1550. Cfr. Tirabocchi, Storia della Lelt. Ital., tomo IV, pag. 17 e segg.
(20) Dal Borgo, Dissert., IV, pag. 208 e 257. Cfr. De Raumer, tomo IV, pag. 595.
(21) Scartazzini, Commento alla Div. Commedia, vol. I, c. XIII.
(22) Commento d'Jacopo Lana, ediz. dello Scarabelli.
(23) Comm. di Anonimo a cura di P. Fanfani, tomo I.
(24) Presso Muratori, Ant. It. M. Aevi, tomo I, col. 1051-1052.
(25) Tiraboschi, loc. cit.
(26) G. Villani, lib. VI, c. XXII, e R. Malespini, c. CXXVI
(27) Storia del regno di Napoli, lib. IV. Nella sua cortese lettera il prof. De Blasiis confessava: « ... io non saprei dirle quanta fede meriti questo racconto ... ».
(28) G. Villani, lib. VII, c. XXXIII. Lami, Hodeporicon, parte I, e la Raccolta ms. del Prop. G. Conti.
(29) Rondoni, Memorie storiche di S. Miniato, pag. 153, 166-167 e 179. Quanto poi all'affitto della Rocca a Giuliano mi venne dal sig. A. Vensi di S. Miniato comunicata copia di una lettera degli Octoviri Praticae Reip. Flor. al Vic. di S. Miniato circa quell'affare.
(30) Varchi, Storia Flor., lib. X. Rondoni, Memorie storiche cit., pag. 185-188.
(31) Doc. Vensi. Editto per la Traslazione del titolo di S. Michele di Rocca nella chiesa di S. Stefano, p. 116.
(32) Parole del doc. sopra citato.

mercoledì 27 novembre 2013

IN PILLOLE [019] - L'UOMO ULTRACENTENARIO A SAN MINIATO NEL '300

di Francesco Fiumalbi
Il Diario di Giovanni di Lemmo da Comugnori è senza dubbio una piccola miniera di informazioni e di curiosità relativamente ai primi anni del '300 a San Miniato. Infatti, il notaio e cronista sanminiatese, originario di Comugnori (località al confine con il Comune di Montopoli), riporta una serie di notizie che non è possibile trovare nei documenti pubblici o notarili.
La presenza di un uomo ultracentenario nel territorio sanminiatese nei primi anni del '300, di cui Giovanni di Lemmo registra la sopraggiunta morte, è senza dubbio un fatto curioso e degno di nota. Oggigiorno sono pochissime le persone che riescono a spegnere le 100 candeline, nonostante il benessere economico, l'alimentazione sicuramente più ricca e completa, la medicina straordinariamente evoluta. Pensiamo a cosa poteva voler significare campare per un secolo o più, in un'epoca in cui era facile morire anche per una banale influenza. I contemporanei dovevano considerare una persona così longeva come una sorta di Matusalemme vivente.

Ritratto di Matusalemme, particolare
Incisione, Amidei, Roma, 1751

L'uomo si chiamava Forciore, era figlio del fu Diotifeci ed era originario di Montalto, località nei pressi di Comugnori, al confine con Montopoli. In realtà non sappiamo esattamente quanti anni avesse. Era sicuramente anziano, e lui stesso affermava di avere più di cento anni. Morì il 18 ottobre del 1307, un mercoledì.
Se effettivamente era ultracentenario, significa che nacque nei primissimi anni del '200. E quindi durante la sua vita poté essere testimone oculare di tantissimi eventi, legati alle alterne vicende del nostro territorio. Quando era ancora bambino, nel 1208, l'Imperatore Ottone IV ripristinò l'amministrazione imperiale nel castello di San Miniato che fu rafforzato negli anni di Federico II.  E' infatti intorno al 1220 che venne costruita la Rocca, l'alta torre che da otto secoli domina sul centro della Toscana. Forciore avrebbe saputo dirci come era l'organizzazione all'interno del castello e se Pier delle Vigne si suicidò veramente durante la prigionia sanminiatese. Di sicuro assistette, quarantenne, alla distruzione del Borgo di San Genesio nel 1248 e vide la costruzione della Pieve di S. Maria Assunta e Genesio Martire, ovvero l'attuale Cattedrale. Avrebbe saputo dirci, con certezza, se il campanile era preesistente alla chiesa oppure no, se la facciata era intonacata oppure concepita in laterizio facciavista come la conosciamo oggi. Ormai anziano, avrebbe potuto raccontarci come furono cacciati i Vicari Imperiali nel 1288 e di come San Miniato aderì alla Lega Guelfa. Questo e molto altro avrebbe saputo dirci il vecchio Forciore.
Di seguito sono proposte le parole utilizzate da Giovanni di Lemmo da Comugnori per registrarne la morte:

«Forciore quondam Diotifeci de Montalto, qui habeat annos centos et ultra, ut dicebat, obbivit sub anno Domini MCCCVIII, indictione sexta, die mercurii XVIII octobris»*.

Giovanni di Lemmo da Comugnori, Diario (1299-1319), edizione a cura di Vieri Mazzoni, Leo S. Olschki Editore, Firenze, 2008, p. 16, c. 13v.

*La data è da leggere secondo lo “stile pisano”. Quindi il 18 ottobre 1308, secondo lo stile fiorentino ed anche secondo l'uso moderno, deve essere considerato il 18 ottobre 1307. Per approfondire la questione si veda Wikipedia alla voce “Calendario Pisano”.

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sabato 23 novembre 2013

MARIA CATERINA DEL MAZZA - SUPERIORA DEL MONASTERO DELLA SS. ANNUNZIATA A SAN MINIATO

a cura di Francesco Fiumalbi

Maria Caterina Del Mazza nacque a Livorno il 26 marzo del 1672. Dopo un infanzia difficile, trascorsa per lo più nella casa degli zii a Firenze, vestì l'abito domenicano nel Monastero della SS. Annunziata di San Miniato (oggi Hotel San Miniato). Vi fece ingresso il 24 giugno 1696 all'età di 24 anni, prendendo il nome di Teresa Caterina Maria. Nel 1703 fu eletta Superiora, carica che le fu rinnovata per ben due volte fino alla sua morte, avvenuta il 12 gennaio 1710, quando aveva 38 anni.


Monaca con abito dell'Ordine Domenicano

Le sue spoglie furono sepolte all'interno del perimetro del monastero, almeno fino alla prima metà dell'800. Dopo la soppressione del 1810 e il definitivo abbandono monache del 1850, nel 1853 la salma assieme ad alcuni "strumenti di penitenza" fu quindi traslata e tumulata all'interno della chiesa dei SS. Jacopo e Lucia (San Domenico), presso la Cappella Rimbotti o dell'Annunziata, collocata alla destra dell'altare e chiamata anche di San Vincenzo Ferreri. I resti furono accertati nel 1976 (D. Lotti, San Miniato Vita di un'antica Città, SAGEP, Genova, 1980, p. 479).
Durante la sua guida, per interessamento del Vescovo di San Miniato mons. Francesco Maria Poggi, il monastero ottenne dal Papa Clemente XI il riconoscimento ufficiale della regola di San Domenico, a cui era stato sottoposto a partire dal 1672 grazie al decreto del Vescovo mons. Carlo Corsi. La sua condotta proba, le valse una sorta di venerazione popolare, tanto che nei testi in cui viene rammentata o citata, spesso le viene attribuito impropriamente il titolo di “Beata”, e le spoglie sono indicate come “reliquie”. Nei 14 anni in cui fu Superiora il convento fu ampliato e ornato.
Un'unica testimonianza iconografica relativa a Maria Caterina Del Mazza, sembra essere un quadro in cui è raffigurata nell'atto di ricevere dal Papa Clemente XI il breve col quale viene confermata, ufficialmente, la regola domenicana per il monastero della SS. Annunziata. Sembra che il dipinto fosse visibile all'interno del Convento di San Domenico, almeno fino agli anni '60 del XIX secolo.

Ex-Monastero della SS. Annunziata
erroneamente detto di San Martino
Foto di Francesco Fiumalbi

BIBLIOGRAFIA:
Giuseppe Piombanti, Guida della Città di San Miniato al Tedesco con notizie storiche antiche e moderne, Tip. Ristori, San Miniato, 1894, pp. 60-61
Francesco Pera, Ricordi e biografie livornesi, Francesco Vigo Editore, Livorno, 1867, pp. 157-162.

Di seguito sono proposti gli estratti dalle pubblicazioni:

Estratto da Giuseppe Piombanti, Guida della Città di San Miniato al Tedesco con notizie storiche antiche e moderne, Tip. Ristori, San Miniato, 1894, pp. 60-61, 65-66.

[060] « […] Mauro Corsi, ai 7 marzo 1672, deliberò di appagare i loro voti, dando loro l'abito di S. Domenico e la sua regola, e dichiarandole domenicane del prim'ordine. Ma poiché tutto questo senza l'approvazione della santa [061] sede erasi fatto, le religiose, temendone l'irregolarità, al pontefice Clemente XI, per mezzo del vescovo Poggi, si rivolsero, il quale, nel 1706, l'operato di mons. Corsi confermava. Allora il Poggi, con molta solennità, di tutte quelle suore riceveva la professione sulla regola di S. Domenico, e alla pubblica festa prese parte con gioia la popolazione. Il 24 giugno 1696 v'indossava l'abito religioso la giovane livornese Maria Caterina del Mazza, cui fu posto nome Teresa, Caterina, Maria; ai 29 giugno dell'anno seguente faceva la professione, e il 12 gennaio 1710 di questa vita passava a soli 38 anni. Ebbe sempre fierissime infermità (dico le cronache del monastero) e pazienza invitta. Di anni 31 fu eletta priora e confermata due volte. Monastero e chiesa restaurò e ornò; fecevi rifiorire l'osservanza e la vita comune. Efficacemente concorse ad ottenere il breve di Clemente XI; fu benedizione del suo monastero, dove non visse che 14 anni; vi morì in odore di santità, e le sue reliquie si conservano nella chiesa di S. Domenico. Il prof. Francesco Pera ha scritto la sua tra le Biografie Livornesi. [...]» 
[065] «[...] Quella [la cappella, n.d.r.] che segue, dedicata a S. Vincenzo Ferreri, era della famiglia Armaleoni. Nella nicchia, che vi si trova, fu [066] collocato, l'anno 1853, un crocifisso, che nel monastero della SS. Annunziata ebbe grande venerazione; sotto il quale si riposero, in tre distinte cassette, le reliquie della domenicana venerabile suor Maria Teresa del Mazza livornese, cioè: teschio, ossa, strumenti di penitenza. [...]».

Ex-chiesa della SS. Annunziata
erroneamente detta di San Martino
Oggi Auditorium e sala congressi
Foto di Francesco Fiumalbi

Estratto da Francesco Pera, Ricordi e biografie livornesi, Francesco Vigo Editore, Livorno, 1867, pp. 157-162.

[157] MARIA DEL MAZZA. «Nelle vite degli antichi talora si legge, che il nascere di creature destinate a nobili fatti suole accompagnarsi a qualche circostanza notevole, quasiché la natura voglia dar segno di opera elaborata con magistero più fino. Se ciò potesse mai esser vero, troverebbesi qualcosa di osservabile pur nella nascita di Maria del Mazza: che la madre Alessandra essendo incinta di lei un giorno le venne fatto rigettare, senza rendersi ragione del rifiuto, una pietanza che molto le piaceva, offertale con insistenza dal suo consorte Benedetto; e questi allorché n'ebbe gustata corse rischio della vita, mentre un animale domestico per averne mangiata, poco stante morì. Superato dunque il pericolo della morte nel seno materno, Marietta venne [158] alla luce in Livorno a' dì 26 Marzo 1672. In età di cinque anni appena mostravasi schiva di quelle carezze che si usano ai bambini, educando fin d'allora l'anima tenerella a mirabile austerezza di vita per l'imitazione del Redentore , dinanzi alla cui immagine pregava tanto e piangeva. Prima testimone del suo fervore si fu la città di Firenze, dove trienne fu condotta dal genitore presso gli zii, ed ebbe educazione religiosa dai Padri Filippini, per la cui opera non è a dire quanto andasse innanzi nelle vie del Signore. Fanciullina di sette anni sapeva sottrarre qualche ora al sonno per occuparla nella preghiera; e nel giorno quando trovavasi con le sue piccole compagne, era bello vederla ripetere in sua maniera semplice e divota qualche utile avvertimento imparato a scuola o in famiglia, e insegnar l'abbiccì alle più ignorantelle, e mettere in mano con sorriso di gentil carità alle più poverine qualche quattrinello con puerile industria raccolto in famiglia; e tutte intrattenerle in certi giorni con prieghi e buone letture. Le quali cose faceva con tanto garbo, che innamorava solo a vederla; imperocché oltre alle rare doti dell'animo, aveva sortito da natura avvenenza di aspetto e grazia della persona. Di che non mai s'invanì: anzi come prima si accorse di tendere per nativa inclinazione ad ornarsi con qualche eleganza, scelse vesti grosse e dispette a velamento del suo corpicciuolo. Onde non è meraviglia se l'esempio ebbe grande efficacia sull'animo pur degli adulti, cominciando dalla sua zia, che cessò le troppo ricche vestimenta, e certi fronzoli men convenienti a donna cristiana, per indossare umili e semplici abiti, foggiati su quelli della buona nipote. Il padre medesimo, assai viziato nel giuoco, derivò in questo modo il suo emendamento dalla figliuoletta assennata. Una volta essendo rimasto al tutto sfornito di mezzi per nutrire la passione insaziabile, addimandò pecunia ai fratelli. Ma questi, per non aggiugnere esca a quel fuoco, [159] negarono. Non vi volle altro perché lo sciagurato venisse in discordia con loro, e prendesse ferma risoluzione di abbandonare la casa per non mai più vederli. Allora tra gli uni e l'altro s'interpose, angiolo di pace, Maria, che aveva undici anni soltanto; ma per questo primo atto d'intercessione amorosa n'ebbe in mercede una pesante guanciata. Non per tanto s'inasprisce o sgomenta il suo cuore ben fatto; anzi quel fiero trattamento la dispone ad opera di più raffinata pazienza: si getta ginocchione per terra dinanzi al padre adirato e gli addimanda perdono. Questi a tanta prova di mitezza è commosso, piange egli pure alle lacrime della innocente fanciulla, cede alle preghiere di lei con risoluta deliberazione di fare il contrario di quello che era usato, in modo da non riconoscerlo per quello di prima. Da quel dì abbandonò al postutto i tavolieri, e le bische, per darsi agli affari e alle cure della famiglia, in seno della quale, non passarono molti anni, rese l'anima a Dio dopo aver bene acconciate le cose dell'anima sua.
Con gli anni cresceva in Marietta il desiderio, il bisogno di beneficare: perciò dove facea mestieri un conforto, dove abbisognava tergere una lacrima, colà volentieri correva: e poiché negli spedali trova pascolo copioso la carità, a quegli usava di frequente, per offrire consolazione all' anima e salutari medicamenti al corpo degl'infelici ammalati. Tra' quali si avvenne una volta in cotal donna affetta di morbo sì stomachevole, che gl'infermieri le apprestavano con ribrezzo assistenza. Non così la Marietta: che anzi la stessa lordura del male valse ad avvicinarla all'inferma, e a prodigarle tutte le cure di cui la sola carità è ispiratrice operosa. Ma coli' andar del tempo la malata, o per fastidio del male o per cattività di natura, abusando di tal mansuetudine, levò sulla caritativa assistente siffatta arroganza, che il suo trattamento sarebbe paruto villano anche a prezzolata [160] infermiera. Eppure di quella bocca forbita dall'alito di Dio non uscì parola meno che umile e santa, finché pel contatto pressoché giornaliero dell'inferma la Marietta soggiacque a grave malore, da cui mirabilmente uscì libera.
Ristorato a salute il corpo , continuò a governarsi con ogni maniera di mortificazioni: tra le quali primeggiava il contrasto alla propria volontà, parendole questa l'abnegazione più accetta. Per tale abitudine faceva sì che il volere di Dio fosse pur suo volere; e studiavasi in tutto di soddisfare gli altrui onesti desiderj, quantunque non fossero i suoi. Perciò riusciva carissima alla terra e al paradiso, del quale era innamorata: e ben appariva in lei quest'amore nel tempo della preghiera e del Sacrifizio: che allora quasi rapita in soavissima estasi l'avresti somigliata ad un angiolo assorto nelle visioni belle del Cielo.
Non pertanto, vedi scelleraggine umana! a tanta purezza di vita non mancarono persecuzioni ed accuse di magiche arti, come a colei che sotto ipocrito manto di penitenza e pietà covasse mene turpi e nefandi commerci. Allorché l'innocente verginella per queste scellerate imputazioni fu citata dinanzi al S. Uffizio, vi comparve rassegnata e umile come Cristo davanti al Pretorio: e ne uscì in pieno concetto di esemplarissima vita, lasciando gli esaminatori commossi di tanta moderazione e virtù; sì che tornò a sua gloria la nota d'infamia onde i maligni tentaron macchiarla.
Già di ventiquattro anni sentendosi chiamata alle solitudini del chiostro, aveva indossato l'abito Domenicano nel convento dell'Annunziata di San Miniato; ove sin da quando era soltanto educanda osservava le regole dell'Ordine più che non facessero le religiose medesime, le quali, per vero, tenevano poco all'austerità de' primitivi statuti.
Il suo bell'esempio, vivo rimprovero alla rilassatezza di quegli abusi monastici, non ebbe sulle prime fortunata [161] accoglienza; ma poi a grado a grado ricondusse l'istituzione a' suoi principj, ripristinando l'osservanza delle regole cadute in disuso. A queste le suore furono allettate dalle dolci maniere e dalle soavi esortazioni della loro compagna, che ancora quando parlava od operava solea tener sempre rivolta la mente a Dio, recando gli atti più comuni della vita ad argomento di contemplazione divota. Nel vestirsi levava il pensiero a quell'abito di gloria immortale che indosseranno gli eletti; il versare delle acque la richiamava alle vivaci sorgenti della grazia divina, che si spande sull'anima e la feconda a virtù; la quiete della notte le rammentava il silenzio del sepolcro; e da un breve sollievo preso a ristoro dell'animo, quel pio intelletto facilmente saliva alla gioconda immortalità dei beati.
Il legno (usava ripetere) finché tiene dell'umido non è atto a bruciare; né il cuore dell'uomo finché sente di mondo può ardere dell'amore di Dio.
Simili ammonimenti sulle sue labbra riuscivano di molta edificazione, perché ne mandava innanzi la pratica: e le furono presto affidate alcune fanciulle, che sotto la guida di siffatta maestra crebbero studiose delle più elette virtù. Continuava ad esercitare con ardente zelo il ministero dell'educazione, allorché avendo per ben tre anni dato prova di molta prudenza, fu eletta a superiora del monastero. Al quale ufficio avrebbe voluto sottrarsi, adducendo l' età di trent'anni sempre minore al difficile incarico. Ma fu tolto l'ostacolo da un Breve pontificio, che le dava gli opportuni permessi: allora mise innanzi altre cause suggerite dalla sua rara umiltà. Invano, bisognò che accettasse il malagevole ufficio. Seppe quindi sostenerlo con tanta saggezza, che ogni qual volta cessava il termine assegnato , veniva rieletta: e questo si rinnuovò finché non cadde inferma di quel male, sopportato per varj mesi con vero coraggio di cristiana eroina fino alla morte, che la colpì nell'età di soli trentott'anni. Le sue [162] spoglie vennero sotterrate in un luogo del monastero, poi ridotto a sepolcreto comune delle monache: ma quando fu soppresso il convento, le reliquie di lei passarono ai Domenicani di S. Miniato , che le riposero nella cappella di S. Vincenzo Ferreri. I medesimi custodivano un quadro ov'essa è dipinta in atto di ricevere un Breve pontificio dalle mani del suo Pastore; e possedevano ancora il copioso manoscritto della sua vita, da cui furono estratte queste notizie, assai brevi rispetto alle molte che in quello si narrano.
Ragguardevoli personaggi del sacerdozio e del laicato la tennero in altissima stima. Le sue consorelle affermavano aver ella un modo suo proprio di farsi amare; fu sempre da esse rispettata e obbedita; i suoi consigli erano tanto cari quanto quelli della loro madre medesima. Per queste e altre doti merita essere proposta ad esempio di quelle femmine, a cui per doveri di sangue o di ufficio viene affidato il governo di una famiglia, il reggimento di un sodalizio».

mercoledì 20 novembre 2013

IL CIGOLI TRA PITTURA E TEATRO - 22 NOVEMBRE 2013 - ORE 17.30

Venerdì 22 novembre 2013 alle ore 17.30, presso Palazzo Grifoni, si terrà la conferenza dal titolo:


"OMAGGIO AL CIGOLI"
LODOVICO CARDI TRA PITTURA E TEATRO

nell'ambito della rassegna "I Venerdì del Dramma", organizzata dalla Fondazione Istituto Dramma Popolare di San Miniato.

Dopo i saluti di Antonio Guicciardini Salini (Pres. Fond. CRSM) e Marzio Gabbanini (Pres. Fond. Ist. Dramma Popolare), interverranno:

Prof. Alessandro Cecchi (Direttore Galleria Palatina e Appartamenti Reali, Direttore del Giardino di Boboli)
Fortuna del Cigoli nelle collezioni medicee

Dott.ssa Rosita Querci (storica dell'arte)
Cigoli e gli apparati

Al termine si svolgerà il dibattito moderato da Don Piero Ciardella (Dir. Artistico Ist. Dramma Popolare)

Di seguito l'invito:


sabato 16 novembre 2013

IN PILLOLE [018] – PIAZZA MUSSOLINI A SAN MINIATO

di Francesco Fiumalbi
[il post è stato modificato in data 24 aprile 2017 - 1° Aggiornamento]

Ebbene sì, anche San Miniato ha avuto la sua Piazza Mussolini. Ovviamente non fu intitolata a Benito, bensì a suo fratello Arnaldo, minore di un paio d'anni.
Le strategie di cui si avvalse la propaganda fascista sono ben note. Era una vera e propria organizzazione che si muoveva su canali e livelli diversi. Un aspetto, non certo secondario, era costituito proprio dal mettere mano alla toponomastica, ai nomi delle strade e delle piazze. Una pratica, questa, che fu introdotta molti anni prima del fascismo, e che a San Miniato ebbe inizio con l'intitolazione di “Piazza Leopolda”, l'odierna Piazza Buonaparte, consacrata al Granduca Leopoldo II nel 1843 (come abbiamo visto nel post BASETTONE (Seconda Parte) – CANAPONE PER SAN MINIATO). Operazioni di questo tipo troveranno una vasta applicazione in tutta Italia soprattutto dopo l'Unità Nazionale e nel periodo del primo dopoguerra, per poi proseguire durante il ventennio. Ed anche la politica di oggi si avvale in qualche modo della toponomastica come strumento per veicolare ideali e commemorare personaggi carichi di valori simbolici. A San Miniato non mancarono anche altre reintitolazioni volute dalla propaganda filo-fascista, ma di questi episodi ne parleremo in altri post.

Arnaldo Mussolini
L'immagine è tratta da Wikipedia
Utilizzo ai sensi della Legge del 21 aprile 1941 n. 633, art. 70

Tornando ad Arnaldo Mussolini, egli si occupò di moltissime cose. Uomo di fiducia del fratello, collaborò alacremente alla sua attività politica. Fu giornalista e direttore del Popolo d'Italia; molto attivo nella propaganda, contribuì ai Patti Lateranensi fra Italia e Vaticano, e si occupò anche di agraria. Fu il primo presidente del Comitato Nazionale Forestale, carica che gli valse nel 1928 la laurea honoris causa in scienze agrarie. Morì per un improvviso attacco cardiaco, il 21 dicembre del 1931 all'età di 46 anni.
Per Benito Mussolini la morte del fratello Arnaldo fu senza dubbio un duro colpo. Oltre al fratello, perse un uomo in cui aveva sempre riposto una grande fiducia e non mancò di celebrarlo e di commemorarlo anche attraverso alcune opere letterarie. Un po' in tutta Italia, le amministrazioni comunali si prodigarono per commemorare il compianto fratello, che era un po' come manifestare la vicinanza e il sostegno al “Duce” stesso. E così, su proposta del Podestà Guarnieri Ricciotti, il 19 dicembre del 1933 (a quasi due anni esatti dall'avvenuta morte), il Consiglio Comunale di San Miniato deliberò di intitolare proprio ad Arnaldo Mussolini la piazzetta di fianco al Municipio, che era stata da poco realizzata.

San Miniato, Piazza Giuseppe Mazzini
già Piazza Arnaldo Mussolini
Foto di Francesco Fiumalbi

Di questa nuova sistemazione abbiamo a disposizione anche un'immagine, conservata nell'Archivio Gallerini, che ritrae la piazza nel 1934 e corredata dalla seguente didascalia “Città di S. Miniato. Palazzo Comunale e Piazza Arnaldo Mussolini”. L'immagine è pubblicata nel libro E. Vigneri e M. Giglioli (a cura di), Il Palazzo comunale di San Miniato. 700 anni di storia, restauri e progetti, Comune di San Miniato, Pacini Editore, San Miniato, 1998, p. 53.
La storia poi sappiamo tutti come è andata a finire. Caduto il fascismo e passate le atrocità della guerra, la targa che indicava la denominazione della piazza fu abbattuta, lasciando quello spazio privo di intitolazione. Con delibera del Consiglio Comunale del 22 giugno del 1946 la piazza fu reintitolata a Giuseppe Mazzini. Quindi da una figura emblematica del fascismo, si passò ad un padre nobile del Risorgimento, che tanto si era battuto per l'affermazione dello Stato di tipo repubblicano, e i cui ideali avevano finalmente trovato concretezza nella nascente Repubblica Italiana. E quindi anche questo episodio può essere ascritto al più complessivo e generale processo di damnatio memoriae, volto a condannare l'esperienza negativa del ventennio fascista e a proclamare l'avvento di nuovi o rinnovati valori.
In realtà, almeno inizialmente, la piazzetta sembrava che dovesse essere intitolata a Cesare Beccaria, almeno così si evince dalla comunicazione del Sindaco Concilio Salvadori il 2 agosto 1945 all'Ufficio di Stato Civile. Il Documento è conservato presso l'Archivio Storico Comunale e pubblicato nel volume San Miniato durante la Seconda Guerra Mondiale (1939-1945). Documenti e cronache, Amministrazione Comunale San Miniato, Biblioteca Comunale San Miniato, Giardini Editori, Pisa, 1986, p. 259.

L'epigrafe che segnala il nome di Piazza Mazzini
Foto di Francesco Fiumalbi

Di seguito è proposto i testi delle delibere.

Archivio Storico del Comune di San Miniato
F200S010UF18, Deliberazioni del Consiglio Comunale.
Delibera del Consiglio n. 242, del 19 dicembre 1933 [XII]*
Denominazione della Piazza annessa al Palazzo Comunale
19 – La consulta acclama la decisione del Podestà colla quale in segno di riverente orgoglio e di perenne ricordo di “Arnaldo Mussolini”, fedele assertore dei migliori destini della nostra agricoltura, stabilisce di dedicare all'Illustre scomparso la piazza di recente costruzione a lato del Palazzo Comunale.
* Il numero romano stava ad indicare gli anni trascorsi dall'avvento della “rivoluzione” fascista.


Archivio Storico del Comune di San Miniato
F200S010UF19, Deliberazioni del Consiglio Comunale.
Delibera del Consiglio Comunale n. 21 del 22 giugno 1946
Toponomastica
Il Sindaco informa che per la mutata situazione politica, si rende necessario procedere alla variazione di denominazione a varie vie del Capoluogo... [omissis]. Siccome la Giunta ha incaricato l'Assessore Conforti a riferire, dà la parola allo stesso Assessore.
L'Assessore Conforti spiega che la Piazza Vittorio Emanuele, la piazzetta adiacente al Municipio, e la via che va dall'Arco del Seminario alla via Mangiadori sono attualmente prive di targa e di nome, per avvenuto abbattimento delle targhe indicative.
Propone al Consiglio
1 - (omissis)
2 - Che la piazza adiacente al Municipio venga denominata Piazza Giuseppe Mazzini
3 - (omissis)
...omissis...

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giovedì 14 novembre 2013

LASTRA A SIGNA (FI) - PIEVE DEI SS. IPPOLITO E CASSIANO IN VAL DI PESA

di Francesco Fiumalbi
«Sant’Ippolito è posta lungo la via che guida in Val di Pesa, una vallata fertile ed ubertosa, sparsa di castelli e di località importantissime per ricordi storici, ricca di palagi campestri e di chiese che accolgono larga dovizia di opere d’arte.»
Guido Carocci, 1906 (1)

La valle del Torrente Pesa, fin da epoche antiche, ha rappresentato un corridoio stradale di collegamento fra il Valdarno Inferiore e la zona del Chianti, e quindi con le direttrici tra l'area fiorentina e quella senese. Nella bassa valle, in prossimità della confluenza della Pesa con il fiume Arno, sulla sponda destra, a poca distanza dall'abitato di Montelupo ma nel Comune di Lastra a Signa, si trova la Pieve dei SS. Ippolito e Cassiano.

La Pieve dei SS. Ippolito e Cassiano in Val di Pesa
Foto di Francesco Fiumalbi

La chiesa è documentata fin dall'XI secolo, ed è caratterizzata da un impianto planimetrico che si rifà a diffusi modelli romanici. La pianta, quasi perfettamente versus solem orientem (cioè orientata in asse est-ovest), conserva la tipica forma a “tau”, ad unica navata con transetto, e con terminazione monoabsidale. Sul braccio destro del transetto si eleva la torre campanaria. Sul lato sinistro della facciata, è accostata la fabbrica di un oratorio settecentesco, sede di una compagnia laicale, che è stato addossato e unito nel paramento attraverso la tecnica del cuci-scuci. L'edificio è caratterizzato da una muratura in pietra squadrata, disposta a filaretto. La copertura segue il profilo del volume interno, ed è a capanna. L'abside, invece, presenta un coronamento voltato.

La Pieve dei SS. Ippolito e Cassiano in Val di Pesa
Foto di Francesco Fiumalbi

Da un punto di vista planimentrico, il rapporto fra la larghezza della facciata (18 braccia, 10,5 m circa) e la lunghezza della navata (36 braccia, 21m circa), rispetta la proporzione di 1:2. I due quadrilateri delle cappelle del transetto, rientrano anch'essi in un modulo più piccolo (circa 9x9 braccia). Anche l'abside, semicircolare, presenta un diametro interno di circa 9 braccia. Gli spessori delle murature invece si attestano intorno a 1,5 braccia (85-90 cm). Interessante notare che le misure delle varie lunghezze sono tutti multipli di 3, evidentemente con riferimento al “numero perfetto”, che nella religione cristiana simboleggia la Trinità: Padre, Figlio e Spirito Santo. Ed anche da un punto di vista altimetrico è rispettata la proporzione: la facciata è inscrivibile quasi perfettamente in un quadrato 18x18 braccia, mentre la torre campanaria presenta un'altezza circa doppia, ovvero 36 braccia, pari alla lunghezza della navata.

La Pieve dei SS. Ippolito e Cassiano in Val di Pesa
Schema compositivo della configurazione originaria
Disegno di Francesco Fiumalbi

Sulla facciata si apre il portale con architrave monolitico, sormontato da un arco cieco. Al di sopra, invece, si trova un'ampia apertura sei-settecentesca, che occupa la posizione centrale del prospetto. E' sormontata da un piccolo stemma in marmo coi i tipici tre gigli della famiglia Frescobaldi, che un tempo deteneva il patronato sulla chiesa. Alla base dello stemma, si notano alcuni elementi in pietra, verde e bianca, che costituiscono quello che rimane di uno dei due archetti della bifora originaria, che richiama per forme e materiali l'analogo modello presente, ad esempio, nellachiesa abbaziale di San Giusto al Pinone sul Monte Albano.

Particolare stemma Frescobaldi e resti di bifora
La Pieve dei SS. Ippolito e Cassiano in Val di Pesa
Foto di Francesco Fiumalbi

Il prospetto laterale destro, libero da costruzioni, è anch'esso in muratura in pietra disposta a fileretto, su cui si aprono tre monofore strombate, con archivolto monolitico.
La torre campanaria, fortemente rimaneggiata nella sua configurazione originaria, si eleva per circa venti metri d'altezza. La muratura di questa struttura non è omogenea, e presenta copiosi rifacimenti in laterizio, specie sulla spigolo sud-occidentale. La cella, dove un tempo erano collocate le campane, presentava originariamente due aperture per ciascun lato.

Torre campanaria
La Pieve dei SS. Ippolito e Cassiano in Val di Pesa
Foto di Francesco Fiumalbi

L'interno della chiesa attualmente risulta spoglio, con le pareti che denunciano la muratura in pietra. Nei secoli si sono susseguiti molti interventi di rifacimento e di adeguamento, come la tamponatura della cappella laterale destra, sotto la torre campanaria, per ricavare la sacrestia. Al centro dell'abside si apre un piccola monofora, al di sotto della quale è incassato un bel ciborio in marmo di epoca rinascimentale, dove è raffigurato l'episodio dell'Annunciazione. Nella cornice in basso sono riportate le parole tratte dal Vangelo di Giovanni “HIC EST PANIS DE CAELO DESCENDENS”, ovvero Questo è il pane che discende da cielo (Gv 6,50), con evidente riferimento all'Eucarestia. L'opera in bassorilievo è stata accostata allo scalpello di Mino da Fiesole (2), scultore fiorentino del XV secolo, di cui rimangono varie opere fra cui i tabernacoli in Sant'Ambrogio a Firenze, e nelle chiese romane di Santa Francesca Romana e Santa Maria in Trastevere. Tuttavia il ciborio presenta anche notevoli affinità con altri della bottega di Bernardo e Antonio Rossellino, come il tabernacolo in Sant'Egidio a Firenze e quello della ex-chiesa della SS. Annunziata di San Miniato (Pi), dove in entrambi i casi ricorre il tema dell'Annunciazione.
Sopra l'arco della cappella laterale sinistra campeggia, come sulla facciata, un piccolo stemma della famiglia Frescobaldi. Unica traccia di pittura superstite si trova all'interno della lunetta che sovrasta il portale nella controfacciata.

Ciborio
Immagine tratta da G. Carocci, Il Valdarno da Firenze al Mare, Istituto Italiano d'Arti Grafiche, Bergamo, 1906, p. 55. Utilizzo ai sensi della Legge del 21 aprile 1941 n. 633, art. 70

La prima attestazione documentaria della chiesa risale al 1005, quando Lotario dei Conti Cadolingi (figlio di Cadolo, morto probabilmente nel 996) donò alcuni terreni situati nel pievere di Sant'Ippolito alla costituenda Abbazia di San Salvatore di Sesto, nei pressi di Scandicci, dove venne immessa una comunità di Benedettini Cluniacensi (3).
Durante i concitati episodi armati che nel '200 videro contrapposte la parte Guelfa a quella Ghibellina, la pieve di Sant'Ippolito risultò danneggiata, così come diversi edifici nel vicino castello di Montelupo. La stima dei danni arrecati all'edificio, negli anni '60 del XIII secolo, fu quantificata in 25 lire (4).

La Pieve dei SS. Ippolito e Cassiano in Val di Pesa
Immagine tratta da G. Carocci, Il Valdarno da Firenze al Mare, Istituto Italiano d'Arti Grafiche, Bergamo, 1906, p. 52. Utilizzo ai sensi della Legge del 21 aprile 1941 n. 633, art. 70

Pochi anni dopo, negli anni 1276-1277, alla Pieve di Sant'Ippolito fu attribuita una decima pari a 30 lire. Si tratta di una cifra abbastanza consistente, paragonabile a quella delle maggiori chiese di area pisana o lucchese. Evidentemente la area su cui insisteva il territorio giurisdizionale del pievere godeva di una buona situazione economica, certamente facilitata dalla presenza di importanti arterie stradali. A questo documento risale anche il primo elenco delle suffraganee dipendenti giurisdizionalmente dalla chiesa: Ecclesia S. Gaudentii de Pesa, Eccl. S. Quirici, Eccl. S. Andree de Castrantole, Eccl. S. Donati de Misciano, Eccl. S. Martini de Carcheri, Eccl. S. Micchaeli de Bracciatica, Eccl. S. Marie de Marliano, Eccl. S. Marie de Purica, Eccl. S. Petri de Nebiaula, Eccl. S. Iusti de Petrognano, Canonica S. Marie de Semontana, Eccl. S. Miniatis, Hospitale S. Petri de Capraria (5). Negli anni 1302-1303 alla Pieve di Sant'Ippolito venne attribuita una decima pari a 15 lire. L'elenco delle suffraganee si compone delle chiese già elencate nel 1276-77, con l'aggiunta di Ecclesia S. Iohannis de Montelupo, Eccl. S. Laurentii de Marliano, Eccl. S. Iacobi de Começçano (6). Dunque, il numero delle chiese suffraganee agli inizi '300 ammontava a 16 unità.

Particolare portale di ingresso
La Pieve dei SS. Ippolito e Cassiano in Val di Pesa
Foto di Francesco Fiumalbi

Con il Concilio di Trento (1545-1563) tutti gli edifici di culto cattolici furono interessati da consistenti lavori di sistemazione e adeguamento liturgico, in ottemperanza alle nuove disposizioni. Anche la Pieve di Sant'Ippolito, trovata non in perfette condizioni durante la visita pastorale del 1590, subì interventi di sistemazione e dotata di un nuovo altare, fatto erigere entro il 1608 dal pievano Lorenzo Galeazzo Guerrini (7).

Particolare monofora strombata laterale
La Pieve dei SS. Ippolito e Cassiano in Val di Pesa
Foto di Francesco Fiumalbi

Con decreto dell'Arcivescovo Mons. Antonio Martini del 25 aprile 1789, durante il periodo delle significative riforme promosse da Pietro Leopoldo (che interessarono, fra le altre cose, tanto le giurisdizioni comunali, quanto quelle ecclesiastiche), la Pieve di Sant'Ippolito fu unita ad perpetum con la chiesa di San Giovanni Evangelista di Montelupo. Quest'ultima, originariamente situata all'interno del castello, nel 1784 era stata annessa alla chiesa di S. Niccolò retta dai PP. Domenicani di Santa Maria Novella ed ingrandita nel 1786 (8). L'antica pieve venne quindi declassata a semplice oratorio.

Dopo un periodo di abbandono, il complesso canonicale adiacente alla pieve ospita attualmente una struttura alberghiera.





NOTE BIBLIOGRAFICHE
(1) G. Carocci, Il Valdarno da Firenze al Mare, Istituto Italiano d'Arti Grafiche, Bergamo, 1906, p. 52.(2) G. Carocci, Op. Cit., p. 52.
(3) M. Frati, Chiese romaniche della campagna fiorentina. Pievi, abbazie e chiese rurali tra l'Arno e il Chianti, Editori dell'Acero, Empoli, 1997, p. 96.
(4) I. da San Luigi, Delizie degli eruditi toscani, Firenze, 1776, tomo VII, p. 240.
(5) P. Guidi, Rationes Decimarum Italiae nei secoli XIII e XIV, Tuscia, Vol. 1, La decima degli anni 1274-1280, Roma, 1932, p. 20.
(6) M. Giusti, P. Guidi, Rationes Decimarum Italiae nei secoli XIII e XIV, Tuscia, Vol. 2, La decima degli anni 1274-1280, Roma, 1942, pp. 24-25.
(7) M. Frati, Op. Cit., p. 96.
(8) L. Santoni, Raccolta di notizie riguardanti le chiese dell'Arci-Diogesi di Firenze tratte da vari autori, Firenze, 1847, pp. 235-236.