venerdì 30 maggio 2014

BICCE BOCCE - Racconto di Alberto Vincenti


di Alberto Vincenti

Un caro ricordo per 
BICCE BOCCE

Mio nonno Andrea detto Bicce Bocce, nacque a Samminiato nel 1886 nella Contrada di Sant’Andrea da genitori, nonni e bisnonni tutti di origine samminiatese. Era un uomo alto e robusto e fin dalla giovinezza aveva cominciato a guadagnarsi il pane facendo svariati lavori e sopportare la fatica in un ambiente povero e umile tipico di quell’Italia appena nata.
Poco più che ventenne si recò a Fiesole dove trovò lavoro come guardiano del Convento di San Domenico e mi raccontava che i frati domenicani gli avevano dato in dotazione anche una grossa pistola a tamburo, cosa che rimase nel mio immaginario per gran parte della mia adolescenza.
A quell’epoca per salire a Fiesole facevano servizio delle vetture tirate da cavalli e fu su una di queste che incontrò la donna della sua vita. Rosa era fuggita da Bomarzo, un borgo del viterbese, per sottrarsi alla vita dei campi e con il suo carattere risoluto aveva trovato lavoro come domestica presso una famiglia benestante di Fiesole. Dalla loro unione erano nati tre figli, l’ultimo dei quali Paolino, mio padre.
A Samminiato era dura in quell’epoca avere un lavoro che ti permettesse di sostenere una famiglia relativamente numerosa, fu così mio nonno a cui non mancavano audacia e temerarietà, negli anni che precedettero di poco l’inizio della Grande Guerra, si trasferì a Livorno con la moglie e i figli ancora piccoli, dove trovò lavoro come barista in un Caffè del porto.
Mi raccontava che ogni giorno arrivavano navi inglesi e che volevano a bordo del buon vino italiano; i marinai gli dicevano “drink wine…drink wine…” cosa che mio nonno mi ripeteva “trinkesvain…trinkesvain…”, ma con le navi arrivò anche l’epidemia “Spagnola” che in quel periodo a Livorno fece molte vittime; la gente cadeva improvvisamente a terra morta, anche nel Caffè dove lavorava non passava giorno che ci fossero dei morti. La Madonna di Montenero fu esposta sul colle rivolta sulla città e il Vescovo chiedeva incessantemente preghiere ai fedeli per implorare la Vergine la fine dell’epidemia, mentre tutt’attorno la città fu formato un cordone con le guardie perché nessuno potesse lasciare la città per evitarne la diffusione.
Nonostante questo, Bicce Bocce una notte riuscì con tutta la famiglia a varcare la recinzione e tornare a Samminiato.
Fu in questo periodo che cominciò la sua attività di rigattiere fino alla fine dei sui giorni avvenuta nel 1963; andava per le campagne circostanti a raccogliere stracci, rame, ottone, pelli di coniglio e ogni tipo di oggetto antico quando la gente voleva sbarazzarsene svuotando cantine e soffitte.
Negli anni successivi alla Grande Guerra Bicce Bocce, per svolgere la sua attività, si attrezzò di un piccolo carro tirato da un ciuco al quale, ogni mattina prima di partire da casa, gli dava un bicchiere di vino che il ciuco gradiva molto, ma un giorno, forse per una dose un po’ più abbondante di vino, il ciuco cominciò a scalciare, si mise al galoppo e fece arrovesciare tutto il contenuto del carro. Fu così che Bicce Bocce decise di regalare il ciuco e di comprare un carretto con due grandi ruote ma che doveva essere spinto a mano. Quel carretto rosso, è stato per tutta la mia fanciullezza un mezzo di svago e di libertà. Infatti, nei giorni in cui, a causa dei miei problemi di salute non potevo camminare, mio nonno mi caricava sul carretto e mi faceva scorrazzare per il Pian delle Fornace, ai Cappuccini a S. Pietro e alla sorgente dell’acqua Generosa dove ci rinfrescavamo con dei bicchieri d’acqua fresca che ci veniva gentilmente offerta dagli operai della ditta addetti all’imbottigliamento.
A Bicce Bocce non mancava la forza e l’energia per spingere quel carretto, talvolta carico di oggetti da rivendere, per chilometri e chilometri su strade sterrate e polverose come quella volta che, pochi giorni dopo la battaglia di Calenzano del 44, riuscì a smontare e portare a casa due pesanti radiatori di rame di un mezzo cingolato tedesco. 
Durante il ventennio fascista ogni Domenica il Partito ordinava ai giovani samminiatesi di radunarsi al piazzale in camicia nera e sfilare cantando 
“E noi del fascio siamo i componenti…la causa sosterrem fino alla morte…” fu così che quando Bicce Bocce andava per le campagne a fare incetta di rottami, le casalinghe delle famiglie contadine gli dicevano “oh Dreino (così lo chiamavano bonariamente) ma che fame che s’ha… un c’è nulla da mangiare…” e lui gli rispondeva “un vi preoccupate… Domenica scorsa hanno detto che ci danno a tutti un piatto di componenti” e le donne rispondevano “o che sono i componenti ? un l’ho mai mangiati”. Alla fine Bicce Bocce fu richiamato alla Casa del Fascio e gli fu intimato di smetterla di diffondere idee sovversive. Il giorno dell’eccidio del Duomo in mattinata i tedeschi vennero a rastrellare uomini e donne per portarli all’interno della Cattedrale. Mia madre era agli ultimi giorni di gravidanza e io stavo per nascere e un tedesco un po’ meno cattivo, acconsentì ad accompagnare mia madre e mio padre all’Ospedale; mio nonno si accodò a loro ma con l’ordine tassativo che una volta ricoverata mia madre il tedesco avrebbe dovuto riportare i due uomini indietro. Fortuna volle che le suore dell’Ospedale e il dottor Lupi, allora primario, distraessero il tedesco offrendogli anche un bicchierino di Rosolio. Così mio padre si dileguò negli scantinati dell’Ospedale e Bicce Bocce si infilò in un letto con il lenzuolo fino al naso e una papalina in testa fingendosi un malato. Il tedesco un po’ li cercò, poi dovendo rientrare al reparto e temendo i partigiani in quanto era solo, se ne andò.
Quando gli americani arrivarono a Samminiato decisero di occupare una parte della nostra casa e in particolare la camera di mio nonno, così i militari lo sfrattarono e fecero della sua camera un punto di osservazione sull’Arno dove i tedeschi si erano ritirati. La cosa che più infastidì Bicce Bocce fu che i soldati americani gli mangiarono tutti i pomodori dell’orto, le nespole e le pesche, ma dopo pochi giorni arrivò una cannonata tedesca proprio nell’orto che fece saltare in aria un enorme fico. I tedeschi probabilmente si erano accorti dei soldati americani e così cominciarono a cannoneggiare sotto Pancole e anche l’orto di Baggiacco, tant’è che fu colpita la parete della casa dove abitava il Dainelli accanto alle Suore di S. Paolo. La sera stessa i soldati americani lasciarono casa nostra e lasciando pure a bocca asciutta alcune allegre comari dello Scioa che la sera venivano a tenere in allegria i 4 o 5 soldati americani, così mio nonno poté rimpossessarsi della sua camera.
Gran parte del tempo della mia adolescenza l’ho trascorsa con lui sempre presente, pronto all’allegria e sebbene rimasto vedovo a 46 anni il buon umore, la battuta pronta e l’ironia non lo avevano mai abbandonato. Tante le serate passate con lui, le storie, i racconti della sua gioventù i momenti difficili e i suoi insegnamenti di vita accompagnavano le mie giornate.
Indelebile è rimasto in me il suo ricordo e la nostalgia.


San Miniato, via P. Maioli - Sciòa
Foto di Francesco Fiumalbi


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