mercoledì 11 giugno 2014

GIUSEPPE RONDONI - MESSER BARONE DEI MANGIADORI

a cura di Francesco Fiumalbi

Giuseppe Rondoni (San Miniato, 17 novembre 1853 – 16 novembre 1919), già Direttore della Miscellanea Storica della Valdelsa e Presidente dell'Accademia degli Euteleti, è senza dubbio una figura molto importante per i suoi contributi sulla storia sanminiatese.
In questo post è proposto un suo articolo dedicato a Barone de' Mangiadori, personaggio di grande rilievo, non soltanto nel panorama sanminiatese dell'epoca (schierato nella fazione magnatizia durante la rivolta del 1308), ma anche in qualità di condottiero nella Battaglia di Campaldino, durante il suo mandato di “Capitano di Guerra” per la città di Siena, dove ebbe anche l'incarico di Podestà nel 1289.
Il Rondoni riporta numerose notizie relative al periodo senese del Mangiadori, ma stranamente tace sull'incarico di Capitano dell'esercito per la Lega Guelfa, durante il quale si trovò ad intervenire nelle lotte fra Guelfi “Bianchi” e Guelfi “Neri” che lacerarono la città di Pistoia nel 1301. Di queste notizie abbiamo testimonianza nelle “Istorie Pistolesi” d'Anonimo, date alle stampe per la prima volta nel 1733, con varie edizioni successive, e che evidentemente rimasero sconosciute al buon Rondoni. Non mancarono al Mangiadori anche altri incarichi prestigiosi per i centri di Colle Valdelsa, Prato, San Gimignano, e per le città di Volterra, Perugia e Firenze, di cui Rondoni non poteva essere a conoscenza.



Trascrizione di G. Rondoni, Il Franco ed esperto cavaliere Messer Barone dei Mangiadori, in Archivio Storico Italiano, Serie IV, n. 10, parte 1, anno 1882, pp. 350-361.

AVVERTENZA: In blu sono indicati i numeri di pagina corrispondenti. Le note, presenti a margine di ogni pagina, sono state portate in fondo all’articolo. Buona lettura.

IL FRANCO ED ESPERTO CAVALIERE
MESSER BARONE DEI MANGIADORI

[350] Poiché, nelle condizioni presenti degli studii storici, tanto importano i menomi fatti e le persone della Cronica di Dino Compagni, un piccolo corredo di notizie inedite intorno al franco ed esperto Cavaliere Messer Barone Mangiadori di Samminiato, che tutti hanno imparato a conoscere e a stimare nelle pagine dello scrittore fiorentino, non parrà, voglio credere, inopportuno. Se il provare con documenti sincroni, non solo la esistenza del Mangiadori, ma che il carattere e le opere sue corrispondono, nei particolari, a quanto ne lasciò scritto il Cronista; se il mostrare che, su questo proposito, gli atti pubblici sono quasi un commento della Cronica, potrà, riuscire di nuova conferma all'autenticità sua, ed aggiungere una ragione piccolissima alle molte e dottissime recate dal Del Lungo, giudicherà, chi legge, bastando a me di avvertire che un falsario, tacendo di Messer Barone i più accreditati storici e cronisti, difficilmente avrebbe potuto rintracciarne pure il nome, nonché parlarne con tanta fedeltà.
Per quanto sia andato investigando, dei molti che si occuparono del medioevo toscano, di Campaldino e della età di Dante, dei molti che minutamente dissertarono intorno alla celebre Cronica, quasi nessuno pensò al Mangiadori, e lo stesso Del Lungo fu pago di accennare ch'egli fu capitano di Siena (1), desumendola, credo, dalle istorie senesi di Giugurta Tommasi. Fra gli antichi, il Compagni solo lo ricorda; ma in guisa da far supporre che in Toscana quel nome non dovesse suonare oscuro; alcuni storici senesi vi spendono intorno maggiori parole, ma siamo ben lungi dal ricavarne quanto fa di mestieri per un'indagine precisa e compiuta.
Nella Cronica inedita che porta il nome del Bisdomini, all'anno 1289 è detto: “Messer Tommaso di Anciota entrò di Gennaio per un anno avvenire. Questo Potestà non finì el suo officio, [351] perché fe’ giustizia d'uno cherco, che li tagliò la testa, e piacque quella justitia a tutta gente et fu scomunicato dal papa. E andando a Roma al papa per farsi ricomunicare, el comune di Siena lo fe' accompagnare et fece le spese. Messer conte Barone da Sammininiato fu fatto capitano di guerra dei Senesi, in luogo del sopradetto Tommagio, et mutossi nome l'officiale di Siena; costui fu il primo capitano” (sic) (2). E il Dei allo stesso anno, ricordando Tommaso di Auciola Potestà aggiunge: “Misser Barone de' Mangiadori da Samminiato fu fatto capitano in questo anno” (3). I due cronisti attinsero probabilmente ad una fonte più antica, ed infatti, nota il Benvoglienti, nel catalogo dei consoli e Potestà che si trova nell'Archivio del Duomo, di Tommaso si legge : "Dominus Thoma de Lanciola de Parma, qui habuit brigam cum episcopo, fecit quarantenam Romae, et ab illa communitate recessit, et Dominus Barone de S. Miniato supplevit signoriam ipsius domini Thomae” (4). Dal Bisdomini poi sembra che attingesse il Tizio nella sua immane raccolta inedita, chiamando Messer Tommaso di Anciola seu Nicciola, e ripetendo il fatto del chierico suppliziato, e della scomunica, per la quale il Potestà sarebbe stato malvisto da ognuno (omnibus displiceret). Aggiunge poi: “belli praeterea ducem Baronem de Sancto Miniato comitem creavere et in locum Thomae praetoris sufficitur, et nomen praetoris in capitaneum mutatur, et iste primus fuit apud Senenses (sic)” (5).
I medesimi fatti narra il Tommasi (6), (laddove il Malavolti di Messer Barone non fa motto (7)); ma, com'egli suole, più diffusamente. Il sacerdote fu, secondo lui, decapitato per brutti omicidii, ed un suo satellite appiccato per la gola. La esecuzione cagionò lite e odio gravissimo fra il Vescovo Bernabò Malavolti e il Comune, e “volgendosi molti a favore della corte per pubblico honore, ed altri interessati commovendo il vescovo, [352] la cosa venne a scoperta parzialità, donde la città si ridusse in grave pericolo ed in pessimo stato”. I Senesi Ghibellini, colta l’occasione, si mossero di Arezzo con 500 cavalli, e 200 fanti, ed occuparono Montisi e Chiusura. Quindi, trascorrendo ed ardendo si condussero a Buonconvento (anche il Tizio accenna a tali disastri) e vi misero fuoco, ed Lucignano ed alla Isola. “I Sindachi dei Sanesi rifersero in Senato la risoluzione dei collegati fiorentini ed altri contro Arezzo, e ai 28 di Aprile si deliberò in esecuzione l'esercito, e si pubblicò gli ordini da osservare in quella spedizione, nella quale si mandò generale M. Barone dei Mangiadori da Samminiato, nuovamente eletto capitano del popolo Senese”.
Tali testimonianze fanno nascere non pochi dubbi. Quanto tempo durò il Mangiadori in ufficio? Fu Capitano e Potestà insieme, o Capitano soltanto? È veridico il Compagni, ponendolo capo delle milizie a Campaldino? E, dopo la guerra, che avvenne di lui?
In questo, come in altri casi, la incertezza degli scrittori è supplita dai documenti, colla scorta dei quali, procureremo di seguire il valente samminiatese nelle sale dei consigli, sul campo e nel Tribunale, rivivendo un istante con lui nei tempi che videro Dante giovinetto.
Non starò qui a ripetere ciò che sappiamo dei Mangiadori, insigne famiglia di Samminiato al Tedesco, i quali, sebbene non fossero Conti, come sembrano credere alcuni cronisti senesi, pure ebbero forse, come gli altri magnati di quella terra, origine germanica, o almeno dall' impero ottennero titoli e ricchezze. Non è quindi meraviglia che Siena, come già nel 1227 aveva eletto potestà Messer Malpiglio, un altro magnate samminiatese, creasse poi il Mangiadori Capitano per due volte e Potestà. Fatto è che a tale autorità, quasi dittatoriale, venne chiamato in circostanze difficili, quando un governo ha bisogno di uomini prudenti e risoluti.
Siena, obbligata ad un' alleanza con Firenze, indizio sempre per lei d' indebolimento e di regresso, danneggiata all'esterno dai ghibellini, era poi travagliata dentro da scissure fra clero e laicato. Fino dal 1251, erano nati malumori, ed i cittadini si trovarono interdetti, perché alcuni Statuti sembrava impedissero la ecclesiastica libertà. Ora poi il supplizio di un chierico rinnovava quelle brighe, e il Potestà Tommaso da Gusla, costretto a [353] partire fino dal 10 marzo 1289 alla volta di Roma, per essere ribenedetto, di propria e spontanea volontà rinunziava all'ufficio. Nei Registri delle Provvisioni del general Consiglio della Campana dal 17 gennaio 1285 fino al 10 marzo 1389, troviamo Tommaso del Guzola (non d'Anciola) potestà di Siena (8). Dal 10 marzo fino al 12 giugno, il giorno successivo alla battaglia di Campaldino, il Consiglio è convocato da Messer Rosso di Gazzano, vicario di Messer Tommaso, e talora dai Signori Nove insieme cogli altri Ordini della città, e col Camarlingo. Dunque il 10 marzo il Potestà era già partito alla volta di Roma; ma sembra che facesse la renunzia dopo qualche tempo. Infatti soltanto nel Consiglio del 12 giugno, convocato nel Palagio dal monaco Bartolommeo, camarlingo, (pare che il Vicario del Potestà si fosse dimesso) dai quattro di Biccherna e da Messer Ranieri, governatore e difensore del Comune e del Popolo, considerato come il Potestà fosse partito de Siena, ed avesse deposto 1'ufficio liberamente, e come d'altra parte fosse necessario che nella città, per il buono e pacifico Stato, si eleggesse di nuovo e senza dilazione quel magistrato, venne proposto che Barone da Samminiato, allora Capitano del Comune e del popolo Senese dovesse occupare anche l'altro ufficio, fino ai primi di Gennaio, ed esercitarlo a forma degli Statuti e senza che veruna rubrica del Costituto del Capitano potesse recare impedimento. I capitoli ricordati furono: “Item nullus possit nominari (in prima distinctione) etc. Item quod dictus dominus capitaneus et sua familia etc. (Idem). Ne venne quindi sospeso il vigore, cosi rispetto al Mangiadori, come ai suoi ufficiali e ministri. Si proponeva inoltre ch'egli avesse la potesteria, senza pregiudizio del suo capitanato, e di quello dei successori, e che adempisse il duplice incarico, fino ai primi di ottobre, mese nel quale scadeva dall'ufficio di capitano. Messer Bernardino giudice (nei consigli medioevali, come nelle odierne assemblee, non mancò mai di primeggiare la parlata dell' uomo di legge) sorgeva a propugnare la proposta per il bene e l'onore della città, aggiungendo che venisse registrata nel Costituto vecchio e nuovo del Comune, e come legge venisse ritenuta ed osservata dai magistrati. Girato il partito, la deliberazione fu conforme ai voleri di Ser Bernardino (9).
[354] Del resto un'autorità simile a quella conferita al Mangiadori, impossibile in Firenze, ove capitano e potestà erano come due forze distinte e contrapposte, in Siena non fu cosa nuova affatto ed inusitata. Per non dire che nel 1251, quando appunto fu necessario disputare coll'autorità ecclesiastica, ed occorreva far subito spedizioni, venne data facoltà piena al Potestà di poter fare molte cose, senza convocare il Consiglio, nel 1282 Guido Salvetti dei conti da Romena fu capitano e Potestà insieme, e mi piace notarlo, perché tale provvedimento torna utile a chiarire l'indole del nostro Comune, ove il Capitano non ebbe mai l'autorità del Capitano del Popolo fiorentino, mostrandosi, nel secolo decimoterzo, un semplice condottiero delle armi, essendo, notano gli storici senesi, il generalato delle armi nella persona del Potestà d'impedimento al governo civile della repubblica. Aggiungono poi il capitano aver seduto nel Collegio dei ventiquattro, e negli eserciti soprastare anche alle milizie dei collegati, e primo avere ottenuto quella carica Uggieri da Bagnuolo bolognese nell'anno 1251. Qui ancora è da notare quanto sia palese l'errore di alcuni cronisti, citati in principio, i quali sembrano credere, essere stato primo capitano il Mangiadori, coll'altra inqualificabile avvertenza “et nomen praetoris in capitaneum mutatur”. Basterebbe una semplice occhiata agli Spogli dei Consigli della Campana, per conoscere la verità.
Messer Barone, nuovamente eletto capitano fino dal 28 aprile, allorché si deliberò di mandar fuori l'esercito (10) era sempre a Campaldino, a capo dei 120 cavalieri e molti fanti senesi, che il Villani ed il Tizio narrano aver avuto parte all'impresa, quando venne chiamato al maggiore ufficio. Intanto dai fatti precitati apparisce quanto bene si apponesse il Tommasi scrivendo, ciò che pur è manifesto dalla Cronica, che il Mangiadori e i Senesi furono i principali in quella battaglia. Comunque, il 13 di giugno, nemmeno due giorni dopo la vittoria, lo troviamo in Siena a presiedere il general Consiglio, segno che fu chiamato colla maggior fretta, e che i bisogni dei Senesi non erano di piccol momento. In quel giorno egli propone che siano approvati gli ordinamenti fatti intorno all'esercito raccolto dal Comune contro gli Aretini, pessimi nemici, e, dovendo egli andare sopra quel territorio, a maggior lode del Comune, e per dar loro il colpo mortale (pro danda marte finali dietis inimicis) chiede facoltà dì lasciare un [355] vicario in Siena, il quale, esercitando l'ufficio di potestà, possa imporre e percipere bandi sino al felice suo ritorno. Similmente facendo mestieri che Arrigo, sindaco e giudice del Comune, vada in oste col Potestà, è richiesto il general Consiglio della opportuna licenza. Le quali cose vennero tutte e subito concesse (11).
Che poi un sì esperto generale restasse al campo ancora qualche tempo per utile dei Senesi può apparire anche da una deliberazione del 26 luglio, colla quale egli fu esonerato dall'osservanza di certi Statuti, cioè dal convocare i consigli, alcuni dopo otto giorni, poiché era entrato in carica, altri dopo quindici, e altri dopo un mese, facendo conto che già vi avesse provveduto il predecessore, dovendosi quei capitoli riferire alla venuta in Siena di Messer Tommaso. E cosi fu inteso rispetto al giuramento che ogni Potestà, era obbligato dì prestare in principio del suo governo (12).
Messer Barone non depose quasi mai le armi, fra le quali aveva incominciato il suo ufficio. Dopo gli Aretini ebbe a combattere in Maremma contro i Feudatari, causa incessante d'inquietudine e di turbamento. Ciò rilevasi dai Consigli degli ultimi di agosto, nei quali si trattò se doveva considerarsi la impresa che allora facevasi per oste generale o per cavalcata, dacché, primo caso, a norma di uno Statuto, cominciando da otto giorni innanzi la partenza dell'esercito fino a otto giorni dopo il ritorno non si poteva in Siena render ragione, laddove ciò poteva farsi nel secondo, eccetto contro quelli ch'erano andati in campo: l'ultimo partito prevalse (13). Del resto poco sappiamo intorno a queste imprese, e dobbiamo contentarci di accennare alcuni fatti, che assai probabilmente vi si riferiscono, come il rilascio, per amore del Comune di Firenze, di un certo capitano Anfone prigioniero, e al dì 8 settembre la indennità da pagare al Conte Cacciaconti di Fabrica per guasti ricevuti "in suis palatiis et castris et casamentis” insieme co'suoi consorti, convenendo che venisse tenuto conto dei dazj, prestazioni e fazioni ch'esso Conte doveva al Comune. Frattanto il Potestà si recava di bel nuovo in campo contro Prata, dopo aver fatto approvare la demolizione al più presto possibile, delle mura e cassero di Trequanda, Asinalunga, Montisi, Montifredi, Fabrica, Castelmozzi e Belsedere; [356] e lasciando per vicario un tal Cantabene (14); ma di li a poco, il 19 settembre, era già di ritorno, e presiedeva l'assemblea, ottenendo che venisse tolto di bando certo Ser Meo legista. Né in quelle imprese sembra mancasse il tradimento, poiché ne' libri di Biccherna stanno registrate due condanne contro cittadini, i quali mandarono lettere a Prata, e nei Consigli si legge che qualunque Comune del contado, obbligato a mandar fanti a piedi nell'oste, fosse punito, se trovato disobbediente, colla multa di L. 10 per ciascun soldato non venuto (15).
Finalmente gli ultimi di Settembre, affinché la città di Siena ricevesse aumento, e i nemici avessero la estrema rovina, (finalem mortem recipiant) sopratutto nelle parti di Maremma e di Monticiano, si propone e si ottiene che l'esercito stia colà fino ai primi di gennaio; ma o non furono necessari molti sforzi per domare la protervia del nemico, o la cittadinanza vi si adopera assai languidamente, tanto è vero che fu necessario condannare una grande quantità di persone, dei quali i nomi si leggono anche oggi nelle pagine di Biccherna, perché non erano andati a soldo
contro Monticiano
(16).
La guerra in Maremma, le vittorie riportate, il bisogno di guarentire e far rispettata l'autorità del Comune, eccitarono il Mangiadori a promulgare una serie di condanne contro i feudatari più baldanzosi di quei luoghi, i conti di Civitella, e l'avere con mano risoluta combattuto, in nome della legge e della industriosa borghesia del Comune, le odiose prepotenze di quei Signori, ci mostra al vivo quanto egli fosse davvero franco ed esperto uomo, in città, ed in campo.
Quantunque sia comune opinione che il feudalismo non attecchisse in Toscana, pure in Maremma esso aveva radici tanto profonde, che quella regione meriterebbe un luogo a parte nelle istorie medioevali toscane. Ai tempi stessi di Dante, quei luoghi fino allo Stato romano erano famosi per selvatichezza e crudeltà, teatro a Ghino di Tacco, ed a Messer Rinieri da Cornato, “grandissimo rubatore” (17). Per fermo quei baroni, fra i quali Siena [357] con rara costanza, usufruendo la fedeltà verso l'impero, estendeva palmo a palmo, e con sottili accorgimenti, la sua potenza e diritti, sulla fine del secolo decimoterzo avevano quasi perduta ogni grandezza cavalleresca, ed a chi attentamente li consideri ricordano più il masnadiere, e talora il ladro di cavalli americano, che l'imitatore o il seguace dei Paladini.
Di sicuro fra costoro gli Ardengheschi, conti di Civitella, furono in ogni tempo de' più crudeli. Abbiamo loro patti e giuramenti in favore del Comune di Siena presto violati ed infranti, alla pari delle ampollose donazioni ad una loro badia. Quando Siena al principio del secolo decimoterzo nelle guerre di Montalcino chiamò alle armi i signori alleati e soggetti, i conti rifiutarono di andare coll'oste, talché dai Senesi vincitori, furono nel 1213 costretti ad accettare patti gravissimi anche per i vassalli di 18 castelli, che in Val di Nievole e di Rosia formavano il contado ardenghesco. Vero è che molti di quei castelli erano delli Aldobrandeschi, e da essi quei di Civitella li avevano ottenuti in feudo, come apparisce da un privilegio di Federigo II del 1221; ad ogni modo troviamo nel 1271 risiedere in Civitella per conto della repubblica senese un potestà, che venne però
cacciato di li a poco dai prepotenti signori
(18).
Nel Caleffo Vecchio (quadro vivente dello svolgimento più intimo di una società medioevale) cominciando dal 16 Settembre 1273 fino al 1289 troviamo una lunga serie dì condanne emanate contro di loro dal Comune che non riusciva a domarli. Il primo Potestà, cui dettero briga, fu Guidone da Tripoli de Rambertis, per un furto violente. Cione ed altri della nobil famiglia, andati a casa di un tal Guido Orlandi da Civitella, vennero accolti ospitalmente, ma, dopo averci passata la notte, assalito e legato il padrone lo portarono via, né vollero rilasciarlo fìnché il prete con altri del borgo non ebbero fatta società, e sborsato dieci lire. Accusati al Potestà non comparvero, e furono
condannati in contumacia
(19). I delitti in quella casa passavano in retaggio da padre in figlio. Di fatti un bel giorno (20 Giugno 1275) il Conto Uguccione e Cione suo figliuolo vennero accusati di aver fatto una scorreria nel castello di Monte Agutolo, derubando i fedeli di un certo Pizzica, e predando bovi e grano [358] in larga copia (20). Più tardi nel Settembre, una povera Rosa vedova sporgeva querela perché essi coi loro consorti e masnade, armati cervelleriis, apuntonibus et verutis, erano andati contro i figliuoli di lei Bindo e Turchio, e a tradimento li avevano feriti a morte nel pubblico mercato di Forcole, tagliando loro la borsa (21). Colla stessa prepotenza trattavano anche i pubblici ufficiali, simili a quel feudatario francese che faceva appiccare i messi del Parlamento.
Nel 1286 uno de'Conti, presso il castello, e dinanzi ad una sua vigna, insultò e percosse a mano armata Cristoforo Camarlingo di Civitella, mandato a fare un sequestro, e nel 1288 tutti i Conti vennero condannati per avere, contro lo Statuto di Siena, dato ricetto ed alimenti a un tal Ranuccio colpevole di grave delitto
(22).
A tal punto erano le cose, quando il Mangiadori, dopo avere, com'è ragionevole ammettere, calmato con savia prudenza i mali umori del clero, sicché di questi non abbiamo più indizio, rivolse
l'animo ai fatti degli Ardengheschi, e durò a condannarli per tutto il tempo del suo ufficio.
Nel 30 luglio 1289 trovasi una condanna emanata da lui col consiglio e consenso di Ciardo da S. Gemignano giudice ed assessore del Comune, e dei suoi cinque giudici contro i tre figli del conte Guido, accusati da Neri di Civitella di aver ferito cum spuntone un suo fratello; ma gl' imputati non comparvero, e vennero, al solito, condannati in contumacia, ed alla ammenda di duecento lire (23). Non bastò, perché di lì a poco con lancio e pietre (miscuglio singolare di armi plebee e cavalleresche) furono aggrediti due famigli dello stesso cittadino, col quale sembra che i conti l'avessero a morte, forse per essere egli potente, tanto da tenere genti al proprio servizio. Fu rinnuovato il bando, e portata la multa a trecento lire (24), ma i Conti non erano tali da darla vinta; e difatti, dopo aver per dispregio buttato giù da cavallo un servo di Neri, e derubata la bestia, se ne vennero dinanzi alle case di lui, in branco minaccioso, con lancio, spiedi, coltelli, spade, e gittando sassi, e dando l'assalto, riuscirono solo [359] a ferirlo. Condannati ripetutamente si vendicavano col dare ospitalità agli sbanditi contro gli ordini del Costituto Senese, ed anzi, crudeli verso gli uomini, come irriverenti verso Iddio, dinanzi alla chiesa di Monte Codemo ferivano e derubavano Vegna Guastavacche (25). Né voglio omettere un particolare che gioverà alla psicologia di quelle schiatte feudali. Colle maggiori efferatezze del tiranno accoppiavano le vili tendenze del ladro. Rompevano
l'uscio di casa di una povera donna, portandole via due vaccherelle, alcune staia di grano, e masserizie, indi, penetrati nottetempo in una stalla, rubavano alcuni cavalli. S'immagini un paesetto infestato da una banda di masnadieri; si ricordino certi episodii del brigantaggio nella Maremma e in Calabria, ed avremo un'idea abbastanza precisa delle condizioni di Civitella. Si aggiunga che noi conosciamo i latrocinii denunciati alle autorità; ma in paese non vicino a Siena, un gran numero di malefizi, quelli specialmente commessi a danno della povera gente, dovevano restare ignoti o trascurati. Inutile dire che i baldanzosi signori, forti delle loro rocche e de' loro uomini di arme, non si degnarono mai di comparire dinanzi ai magistrati, trovando la impunità nei ben muniti castelli; ma è vero tuttavia che le condanne incessanti servirono a renderli più riguardosi e meno infesti.
Il Mangiadori infatti aggravò le pene, ed è bello il suo zelo crescente contro quei perturbatori della società. Non bastando le sentenze lette da Gregorio Tempi suo notaro, coll'ordine di pagare le multe e rifare i danni dati entro dieci giorni, sotto pena, mancando, del terzo più, Messer Barone faceva bandire che se alcuno dei Conti venisse nelle mani del Comune, né potesse pagare, si tenesse a catena per la maggior parte del giorno in piazza del Campo, e poi, scopato per la città, fosse sbandito dal contado (26). Né saprei dire se alcuno di quei Messeri sperimentasse le catene e la sferza del popolo di Siena. Solo io so che l'ultima condanna emanata dal Mangiadori in Civitella, fu contro due popolani, un sarto ed un calzolaro, perché essendo stato fatto loro precetto da un messo del Potestà, sotto bando di 20 lire, di comparire entro certo termine, già decorso, dinanzi a Lui ed al giudice dei malefizi per alcune testimonianze, non obbedirono, per la qual cosa vennero condannati a 25 lire di multa. Forse, [360] trattandosi dei Conti, erano stati comprati e si astenevano per paura (27). La serie delle condanne ha fine di lì a poco, talché parrebbe che la prepotente famiglia avesse dal Mangiadori ricevuto un colpo, se non mortale, certo assai terribile.
Anche in Siena egli volle mantenuto rigorosamente l'ordine e la quiete. I libri di Biccherna al tempo della sua amministrazione registrano una lunghissima serie di condanne per mancamenti che nel medioevo sfuggivano le più volte alla pubblica vigilanza, sebbene contemplati dagli Statuti (sì minuziosi in teoria, e cosi vuoti di pratica efficacia) cioè mischie, baruffe, ingiurie, ferite, porto di armi vietate e simili. S'incontra la spesa di 35 libre al carnefice per la condanna fatta di un Marchese Mannelli promotore di una zuffa (meschia); né ai berrovieri sfuggivano coloro che si aggiravano per la città dopo una certa ora della notte, chi teneva spada o coltello, chi per giuoco usciva coll'elmo in testa in piazza del Campo, ed infine gli uomini e il Comune dei Corpi Santi, e quelli di Montichiello, multati i primi per non aver punito un delinquente, ed i secondi per aver operato contro il Costituto di Siena (28).
Il Mangiadorì termina di esser capitano nell'ottobre del 1289, e potestà nel Gennajo, nel quale ultimo ufficio succedevagli Giovanni Accoramboni di Camerino. Le ultime cure del suo governo, sì energico e temuto, furono rivolte alla religione, decretando che si elargisse al Convento dei Minori la somma di L. 200 per edificare sulla sepoltura di Pietro Pettinagno o Pettinaio, del quale Dante ricorda le sante orazioni, un nobile sepolcro col ciborio e l'altare. Per ultimo, data il giorno di Natale, in onore della Vergine, che tante volte aveva concesso vittoria ai Senesi, la libertà ad alcuni carcerati, mediante la offerta (29), Messer Barone usciva degnamente dalle cariche, che i documenti mostrano aver egli davvero esercitate da franco ed esperto Cavaliere. Chi, meglio del Compagni, anche conoscendolo personalmente, poteva trovar lode più acconcia per lui, e mettergli in bocca parole che più al vivo ne ritraessero le qualità peculiari dell'animo?
Dalle fatiche onorate il Mangiadori ritrasse una buona somma di denaro, secondo che può argomentarsi dagli appunti di Biccherna.
[361] Duecento cinquantacinque lire come salario di Capitano pel solo mese di luglio; duecentocinque come salario per i 41 giorni, nei quali fu coll'esercito contro gli Aretini, come Potestà, a ragione di 5 lire per giorno. Si aggiunga che aveva ricevuto 4 lire il 12 agosto, come salario della potesteria pel mese di luglio, il che vorrebbe dire 24 lire per tutto il tempo della Potesteria durata circa sei mesi (30).
Messer Barone, il quale per esser generale a Campaldino aveva già dovuto levar nome di sé, faticando da prode in altre guerre di Toscana da lui ricordate, secondo il Compagni, coll'autorità dell'uomo che molto ha combattuto, e per esser Potestà in Siena avrà certo dovuto reggere altri Comuni nelle varie parti d'Italia, sembra che, stanco alfine della vita errante ed agitata, si riducesse nel luogo natio a respirare, a piè della rocca di Federigo, le aure salubri del Valdarno. Difatti, che io mi sappia, non troviamo più ricordato il suo nome fra i magistrati delle città nostre più insigni, e nei casi più solenni di Toscana. Tuttavia pare che gli spiriti antichi talora commovessero il cuore di lui. Ed invero, dopo aver operato su campo illustre, non sdegnò scena più ristretta, e lo vediamo, dopo varii anni, avviluppato nelle gare del suo Comune, ed a capo della fazione aristocratica che nel 1309 in S. Miniato disfece il buon popolo guelfo; ed anzi a lui ed a Teodulo Ciccioni dettero i magnati facoltà di riformare la terra, ed essi dal Palagio rinnuovarono la magistratura dei Dodici, il Consiglio grande e quello della Guardia (31).
Dopo, di Messer Barone null'altro sappiamo, nemmeno il sepolcro. Forse, vecchio e disilluso, avrà trovata la vera pace in un'arca di pietra, nel tempio che il suo Comune aveva eretto al glorioso poverello di Cristo, S. Francesco, e il pié scalzo del frate minore avrà calpestato il suo stemma di guerriero già sfolgorante sui pennoni e sugli scudi di Campaldino.

Giuseppe Rondoni



NOTE E RIFERIMENTI
(1) Dino Compagni e la sua Cronica. Vol. II, Lib. I, pag. 37. V. Commento.
(2) Biblioteca Comunale di Siena. Buondone e Bisdomini, Croniche, C. 126, Codice A. III. 23. (3) Croniche di A. Dei appresso Muratori, Rer. It. Scriptores, T. XV, pag. 49.
(4) Croniche di A. Dei. Nota del Benvoglienti nel luogo citato. Questo catalogo è l’Obituarium Ecclesiae Senensis, pubblicato dall’Ozanam nel libro: Monuments puor servire à l’histoire littéraire d’Italie.
(5) Tizio, Historia Senensis, Tomo. Il. c. 168, Biblioteca Com. di Siena, B. II.
(6) Tommasi, Istorie Senesi, Lib. VII, pag. 124.
(7) Malavolti, Storia di Siena, Parte II, Libro III, c. 51 e 54 t. e 55.
(8) R. Archivio di Stato in Siena. Deliberazioni del Consiglio della Campana. Volume XXXVI passim.
(9) Vedi per questi fatti, Archivio di Stato in Siena, Deliberazioni del Consiglio della Campana. Volume 37, c. 25 e seg.
(10) Deliberazioni dei Consigli della Campana, Vol. 38, c. 3 e seg.
(11) Ibidem.
(12) Ibidem.
(13) Deliberazioni dei Consigli della Campana, Vol. 38, c. 7 e seg.
(14) Ibidem, c. 18. Arch. di Stato in Siena. Libri della Biccherna. Entrata e Uscita. Anno 1289.
(15) Deliberaz. dei Consigli della Campana, Vol. 38, c. 22.
(16) Libri di Biccherna – Entrata e Uscita – ad annum.
(17) Commento alla Divina Commedia di Anonimo fiorentino del Sec. XIV a cura di P. Fanfani, Canto 12, pag. 309.
(18) Repetti, Dizionario Storico Geografico della Toscana, v. Civitella.
(19) Archivio di Stato in Siena. Caleffo Vecchio, a c. 748, 16 Dic. 1273.
(20) Caleffo Vecchio, a c. 748 t., 2 Agosto.
(21) Caleffo Vecchio, a c. 748-749 t., 9 Settembre.
(22) Caleffo Vecchio, a c. 750 e 751 seg., 14 Settembre 1286 e 11 Settembre 1288.
(23) Caleffo Vecchio, a c. 752-754.
(24) Caleffo Vecchio, a c. 755-756 t.
(25) Caleffo Vecchio, a c. 755-756 t. e c. 758. Sono le condanne del 27 agosto, 5 novembre e 31 dicembre.
(26) Ibidem.
(27) Caleffo Vecchio, a c. 756. Condanna del 31 dicembre.
(28) Archivio di Stato di Siena. Libri di Biccherna. Entrata e Uscita. Anno 1289. Passim.
(29) Deliberaz. del Consiglio della Campana. Vol. 38, c. 62 e 65, 18 e 28 dicembre.
(30) Biccherna. Entrata e Uscita. Ad annum.
(31) Diario di Messer Lemmo da Comugnori. Lami, Deliciae Eruditorum, Tomo VII.

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