martedì 7 ottobre 2014

ADDSM – COMMENTO – 1022, 1 NOVEMBRE – AAPi – VENTRIGNANO E CUMULO


ARCHIVIO DOCUMENTARIO DIGITALE DI SAN MINIATO [ADDSM]
ADDSM – 1022, 1 novembre – AAPi – Ventrignano Cumulo

In questo post è proposto il commento al documento ADDSM – 1022, 1 novembre – AAP – Ventrignano, che risulta interessante per il territorio sanminiatese per alcune informazioni collaterali, rispetto all'oggetto specifico dell'atto, e riguardanti due località: Ventrignano e Cumulo.

L'ATTO E I PROTAGONISTI Quello proposto è una cosiddetta Cartula fondationis, ovvero il documento attraverso il quale diversi membri della casata dei Della Gherardesca fondarono pro remedio anime l'abbazia di San Giustiniano di Falesia, nei pressi dell'antico porto di Piombino, che al tempo, ancora non esisteva. I protagonisti sono il Conte Ugo (Ugo I, i cui discendenti furono i “Conti di Castagneto”), assieme ai suoi fratelli Gherardo, Guido, Tedice, Rodolfo ed Enrico, figli del fu Conte Tedice, e quindi nipoti di Gherardo, capostipite della casata (morto nel 967).
Come rilevato da Maria Laura Ceccarelli Lemut, questo atto risulta essere significativo perché contribuì ad accrescere il prestigio familiare, attraverso l'instaurazione di nuovi o rinnovati rapporti con la Santa Sede e, di fatto, consolidando la presenza dei Gherardeschi sulla costa maremmana [per approfondire si veda M. L. Ceccarelli Lemut, I Conti Gherardeschi, in I ceti dirigenti in Toscana nell'età precomunale, Comitato di Studi sulla storia dei ceti dirigenti in Toscana, Atti del 1° Convegno, Firenze, 2 dicembre 1978, Pacini Editore, Pisa, 1981, p. 174].

L'ABBAZIA L'abbazia era un cenobio maschile che seguiva la regola di San Benedetto, fondato nei pressi di una precedente chiesa dedicata a San Pietro, e posta sotto la Protezione Apostoloca. I Della Gherardesca si riservarono tuttavia il diritto di giuspatronato. All'Abbazia si legarono le vicende del castello di Piombino che sorse nel corso dell'XI secolo [per approfondire: M. L. Ceccarelli Lemut, Il monastero di S. Giustiniano di Falesia e il castello di Piombino (secoli XI-XIII), Biblioteca del Bollettino Storico Pisano, Pacini Editore, Pisa, 1984].
A partire dal X secolo, le pergamene pervenuteci registrano innumerevoli atti di questo tipo, attraverso i quali, personaggi privati, prevalentemente laici, effettuarono fondazioni o copiose donazioni di beni. Beneficiari di questi, chiese e oratori privati, ma anche istituzioni monastiche o curie episcopali. Negli ultimi anni, gli studiosi si sono molto soffermati a cercare di comprendere questo fenomeno, così ampio ed esteso. Senza entrare troppo nei dettagli della questione, l'interpretazione più diffusa riconosce tali donazioni, apparentemente dettate solo da esigenze di tipo spirituale, anche come l'espediente giuridico per gestire sotto altra forma i grandi patrimoni delle maggiori casate comitali e marchionali della Toscana. Non ci dobbiamo scordare, infatti, che i monasteri e le strutture ricettive come gli ospedali, erano quasi sempre esenti dai pagamenti tributari. Di contro, i membri delle famiglie esercitavano una grande influenza su quelle stesse istituzioni religiose destinatarie delle donazioni, anche riguardo la gestione degli stessi patrimoni, divenendone quindi i “patroni”, cioè esercitando i diritti di “patronato”. Significativo, da un punto di vista linguistico, il fatto che fra le parole “patroni” e “padroni” ci sia una sola consonante di differenza, lasciando intuire una sfumatura che nei fatti non fu sempre così netta e precisa. Per descrivere il fenomeno, gli storici, ed in particolare Wilhelm Kurze, hanno creato la definizione di “monasteri privati”, associandola a quelle comunità religiose che avevano beneficiato di ingenti donazioni da parte di ricche famiglie; da un punto di vista storiografico forse non è propriamente corretta, come definizione, ma senz'altro indicativa [in proposito W. Kurze, Monasteri e nobilità nella Tuscia Altomedievale, in W. Kurze, Monasteri e nobiltà nel Senese e nella Toscana Medievale, Accademia Senese degli Intronati, Siena, 1989, pp. 295-316].

I GHERARDESCHI E CUMULO. Fra i beni che i sei fratelli dichiarano di privarsi per la fondazione dell'Abbazia, figura anche la Curtem nostra de Cumulo. Questa località si trovava nei pressi di Agliati, e fino al 1928 faceva parte del Comune di San Miniato, prima di passare a quello di Palaia.
Non si tratta, tuttavia, della prima attestazione, che risale ad una ventina di anni prima. Nell'anno 1004, il Conte Gherardo II (figlio di Gherardo I, capostipite dei Gherardeschi), fondò l'Abbazia di Santa Maria di Serena in Val di Merse, presso Chiusdino, dotandola, fra i vari beni, con medietate de Castello de Cumulo cum Corte [in proposito ADDSM – 1004 – ASFi – Abbazia di Serena]. Quindi già nei primi anni dell'XI secolo in loc. Cumulo era presente un castello, fondato su una corte, e controllato dai Della Gherardesca. A tal proposito, è significativo il fatto che a distanza di pochi anni i possedimenti di Cumulo siano indicati nelle disponibilità di Gherardo II, per una metà, e dei figli di Tedice I, suo fratello, verosimilmente per la restante metà. Dunque si può ragionevolmente pensare che la più antica curtis di Cumulo, incastellata precocemente già nel X secolo, facesse parte delle proprietà che perverranno a Gherardo I, il capostipite.

LA CURTIS. In estrema sintesi, la curtis era una sorta di “azienda agricola”, caratterizzata sia da elementi romani che da elementi germanici, e rappresentava l'anello di congiunzione fra la struttura latifondistica delle grandi proprietà comitali, marchionali e signorili (laiche ed ecclesiastiche) e le singole realtà territoriali, caratterizzate da particolari situazioni socio-economiche e da specifiche risorse peculiari. La curtis di solito era strutturata in due parti, una direttamente controllata dal proprietario (pars dominica),  generalmente raccolta ad un nucleo centrale dove era presente anche una sorta di edificio padronale, la casa dominicata, e una parte data in gestione ad altri soggetti, prevalentemente coltivatori diretti, detti “massari” (pars massaricia). Questa seconda pars massaricia era suddivisa in unità singole, i mansi o le case massaricie, detenute dai coltivatori che annualmente corrispondevano un censo, in denaro o in prodotti agricoli. E' nell'evoluzione della curtis medievale che possiamo intravedere la formazione del ben noto sistema mezzadrile [per chi desidera approfondire si rimanda a R. Boutruche, Signoria e feudalesimo, vol. 1, Ordinamento curtense e clientele vassallatiche, Il Mulino, Bologna, 1971, pp. 77-125].

LA CURTIS DI CUMULO. Nell'atto in questione la curtis di Cumulo viene descritta cum donicatis, ovvero con quei terreni che costituivano la porzione spettante al diretto controllo del proprietario, il dominus. Oltre a ciò viene registratata anche la presenza degli angariis, ovvero di quei “tributi”, o “obblighi”, che i braccianti, i coloni o i massari dovevano garantire al dominus, come parte integrante del contratto di lavoro o di affitto (generalmente del tipo a “livello”). Spesso non si trattava di un vero e proprio tributo in moneta, quanto piuttosto di un obbligo prestazionale, che poteva riguardare particolari lavorazioni o la manutenzione degli edifici e delle infrastrutture, al fine di garantire il mantenimento del livello di produttività della curtis. Da questo termine deriva anche la moderna parola “angherìa”, a sottolineare l'aspetto massivo dell'obbligazione, che spesso sfociava in vere e proprie forme di abuso.
Inoltre, dalla descrizione relativa alla curtis di Cumulo, sappiamo che era costituita anche da oliveti, boschi, campi coltivati e incolti. La circostanza secondo cui gli olivetis sono menzionati per primi, potrebbe suggerire l'idea che quella fosse la destinazione prevalente dei terreni donicati. D'altra parte la zona geografica su cui sorgeva l'insediamento di Cumulo è caratterizzata, oggi come allora, da rilievi collinari, intervallati da strette e modeste vallate interne, come quella del torrente Chiecina. Per cui è un'ipotesi abbastanza plausibile. La presenza di boschi, o selve, doveva essere marginale rispetto allo stato odierno. I boschi erano delle vere e proprie coltivazioni di legname (d'altra parte il legno era l'unico combustibile e l'unica fonte di calore del tempo) e relegati nelle aree marginali, dunque sui fronti particolarmente ripidi ed esposti a nord, dove il soleggiamento è minore e quindi dove la coltivazione di altri prodotti diventava più difficoltosa e poco conveniente. Ovviamente non mancavano terreni coltivati a seminativo e a prodotti ortofrutticoli, anche se tali produzioni richiedevano una manovalanza maggiore, che non sempre era disponibile, vista anche la bassa densità insediativa della zona. E, forse, è proprio per questo motivo che non se ne fa specifica menzione nel documento, se non parlando genericamente di cultis, trattandosi di attività meno praticate. Considerando, poi, che la parte della curtis oggetto di donazione era quella dominica, è probabile che essa non concorresse al diretto sostentamento del dominus, che probabilmente abitava lontano, ma si limitasse alla produzione di olio, un prodotto facilmente conservabile e commerciabile.
Infine, la parte dominica doveva comprendere anche apposite strutture finalizzate all'immagazzinamento e alla trasformazione dei prodotti agricoli. Tuttavia nell'atto non sono menzionati magazzini, granai, cantine, stalle, frantoi o mulini, che pure dovevano, in qualche modo, essere presenti. E' probabile che la curtis fosse particolarmente modesta, anche per i canoni dell'epoca, e che tutte queste strutture, o edifici specializzati, fossero da inquadrare genericamente nelle pertinentes ad donicato vestro.

IL CASTRUM DI CUMULO. In un momento finora sconosciuto, comunque in epoca anteriore all'XI secolo, la curtis di Cumulo fu interessata da quel processo chiamato “incastellamento”. Un intervento, certamente gestito dal dominus, che portò alla definizione del Castello di Cumulo, cioè al passaggio da un nucleo abitato “aperto” ad  un centro “fortificato” (cioè chiuso, claustrum, quindi volgarmente castrum o castro). Si ha notizia della presenza del “castello” fin dalla prima attestazione dell'insediamento di Cumulo, ovvero l'atto di fondazione, ancora una volta da parte dei Della Gherardesca, dell'Abbazia di Santa Maria di Serena [in proposito si veda ADDSM – 1004 – ASFi – Abbazia di Serena].
Al termine castro, in estrema sintesi, il dibattito storiografico ha assegnato il significato di nucleo abitato, di varia dimensione, contraddistinto da opere di fortificazione di tipo difensivo, spesso da identificare come un vero e proprio insediamento militare, ma anche come borgata o villaggio fortificato [per approfondire: R. Francovich, I castelli del contado fiorentino nei secoli XII e XIII, Edizioni Cluesf, Firenze, 1976, pp. 7-12]. Probabilmente il castello di Cumulo si inserisce in quest'ultima categoria, cioè come un insediamento dotato di un circuito, molto probabilmente, allo scopo di difendere le strutture della curtis e i prodotti agricoli lì immagazzinati, nonché, in caso di necessità belliche, come luogo di riparo sicuro per i massari e per i contadini in generale.
Il castello di Cumulo risulterà documentato per tutto il '300, costituendo uno dei tanti comunelli agricoli del più ampio districtu sanminiatese [F. Salvestrini (a cura di), Statuti del Comune di San Miniato al Tedesco (1337), ETS, Pisa, 1994, Libro V, rubb. 15<16> e 16<17>; G. Ciampoltrini, Insediamenti medievali abbandonati nel territorio di Palaia. Cerretello e Agliati fra ricerca archeologica di superficie e fonti documentarie, in P. Morelli (a cura di), Palaia e il suo territorio fra antichità e medioevo, Atti del Convegno di Studi (9 gennaio 1999), Comune di Palaia, Bandecchi & Vivaldi, Pontedera, 2000, p. 95].
La rapida espansione fiorentina verso il territorio Volterrano e Pisano, farà decadere l'importanza militare della zona. I castelli, dopo la forte contrazione demografica causata anche dalla peste del 1348, conosceranno la definitiva decadenza nel corso del '400 quando nell'organizzazione economica delle campagne verrà introdotto capillarmente il sistema mezzadrile.

IL CASTELLO DI VENTRIGNANO Oltre al castello de Cumulo cum Corte, questo documento è interessante per il territorio sanminiatese, in quanto registrato in loco inter Castello, qui dicitur Ventrugnano. Si tratta del castello di Ventrignano, anch'esso facente parte del dominio dei Della Gherardesca. Viene documentato per la prima volta un paio di anni prima, il 28 giugno 1020, anche in quel caso come luogo di registrazione di un atto.  Il protagonista dell'atto del 1020 è un certo Ugo del fu Ugo, che al momento non è possibile legare con certezza ad Ugo di Tedice [G. Ghilarducci, Carte del secolo XI, vol. 2, dal 1018 al 1031, Archivio Arcivescovile di Lucca, Maria Pacini Fazzi Editore, Lucca, 1990, n. 34, pp. 96-98].
Il castello di Ventrignano si trovava nei pressi di Montebicchieri (castello anch'esso dei Della Gherardesca) e, secondo Paolo Morelli, da localizzare sulla collina dove nel Catasto del 1834 compare il toponimo Sant'Andrea [Catasto Generale della Toscana, Comunità di San Miniato, Sezione S, Montebicchieri, foglio n. 1], cioè il rilievo situato fra Loc. Il Palagio e il castello di Montebicchieri [P. Morelli, Pievi, castelli e comunità fra Medioevo ed età moderna nei dintorni di San Miniato, in AA.VV., Le Colline di San Miniato (Pisa). La natura e la storia, Supplemento n. 1 al vol. 14 (1995) dei Quaderni del Museo di Storia Naturale di Livorno, Consiglio Nazionale delle Ricerche, Provincia di Pisa, Tip. Bongi, San Miniato, 1997, pp. 103-104].
La precoce distruzione del castello di Ventrignano è da inquadrare nell'ambito degli scontri bellici del 1172 e che videro come protagonista Cristiano di Buch, Arcivescovo di Magonza, Legato Imperiale per la Tuscia. Il 17 agosto di quell'anno, come narrato da Bernardo Maragone, il castello di Ventrignano fu attaccato dal contingente armato guidato dallo stesso Cristiano di Magonza, e una volta preso fu distrutto e dato alle fiamme [NOTIZIE DI SAN MINIATO NEGLI “ANNALI” DI BERNARDO MARAGONE 06/07]. Lo stesso Maragone precisa che il castello apparteneva a Comiti Gerardi, ovvero il Conte Gherardo, con ogni probabilità figlio di Ranieri, e discendente da quel Guido che risulta tra i firmatari dell'atto di fondazione dell'Abbazia di San Giustiniano di Falesia [P. Morelli, Pievi, castelli e... Cit., pp. 103-104; M. L. Ceccarelli Lemut, I Conti Gherardeschi... Cit., p. 189]. L'episodio viene narrato da diversi cronisti, fra cui dall'autore dell'Antica Cronichetta Volgare Lucchese [SAN MINIATO NELL'ANTICA CRONICHETTA LUCCHESE 01/09] e da Giovanni Sercambi [SAN MINIATO NE “LE CRONICHE” DI GIOVANNI SERCABI 01/41]

Estratto dal Catasto Generale della Toscana
Comune di San Miniato, Comunità di San Miniato,
Sezione F, Monte Bicchieri, sintesi dei fogli nn. 1, 3 e 4, anno 1834 circa
Archivio di Stato di Pisa, Catasto terreni – Mappe – San Miniato – 76, 78 e 79
Immagine tratta dal sito web del “Progetto CASTORE”
Regione Toscana e Archivi di Stato Toscani
Per gentile disponibilità. Info Crediti e Copyright

I DELLA GHERARDESCA IN VALDEGOLA In conclusione, i castelli di Ventrignano e di Cumulo, devono essere inquadrati nella politica a controllo dei rilievi occidentali della Valdegola da parte dei Della Gherardesca. Tuttavia, allo stato attuale degli studi, si ignorano le circostanze attraverso le quali pervennero questi beni a tale casata.  Va detto che la Valdegola, a fronte di una modesta estensione, ha rappresentato per secoli una realtà abbastanza complessa. Infatti, qui insistevano anche interessi lucchesi, come quelli di varie abbazie o quelli del Vescovado, concentrati nel territorio giurisdizionale della Pieve Corazzano da una parte e sparsi fra Montopoli, Palaia e Usigliano dall'altra. La stessa area in cui i Della Gherardesca controllavano anche altri castelli, fra cui Montebicchieri, Barbialla, Collegalli, Scopeto (nei pressi di Balconevisi) e Pratiglione, e che poi farà da confine fra il distretto sanminiatese e i territori su cui incombeva l'influenza pisana, prima della definitiva sottomissione a Firenze nel corso del '300.

Montebicchieri, Il Palagio e Ventrignano
Foto di Francesco Fiumalbi

Il Castello di Montebicchieri
Foto di Francesco Fiumalbi

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