sabato 11 ottobre 2014

GIOVANNI BRACCI DA SANTA CROCE SULL'ARNO

di Alessio Guardini

Oltre due secoli fa, esattamente nel 1804, nasceva a Santa Croce sull’Arno, Giovanni Bracci, figlio di Luigi e Maria Lapi, famiglia appartenente al popolo di San Lorenzo come si evince dai registri dei battesimi, matrimoni e morti della Parrocchia di San Lorenzo in Santa Croce sull’Arno.
Nella piccola comunità del Valdarno inferiore (ancora lungi dal conoscere l’enorme sviluppo dell’attività conciaria iniziato nella seconda metà dell’ottocento) Giovanni Bracci apprese ed esercitò il mestiere di calzolaio, ma evidentemente la natura l’aveva dotato di un particolare estro letterario, tant’è che Giovanni si fece conoscere per un’apprezzabile produzione drammaturgica.
Nonostante questo, il suo nome non è certo passato alla storia, neppure nella sua città natale dove risulta, ad oggi, praticamente sconosciuto.

La Collegiata di San Lorenzo, Santa Croce sull’Arno
Foto di Francesco Fiumalbi

Chi si trovasse a leggere le memorie del Cav. Comm. Ferdinando Martini (1841-1928) intitolate “Confessioni e ricordi – Firenze Granducale” (R. Bemporad & Figlio Editori, Firenze, 1922, pagg.69-71) troverebbe questo brillante ritratto dell’artigiano santacrocese:

«[…] Giovanni, calzolaio di Castelfranco [si tratta con ogni probabilità di un refuso, n.d.r.] nel Valdarno inferiore, aveva scritto e fatto rappresentare alla Quarconia in Firenze un suo “Conte Ugolino”, tragedia in cinque atti ed in versi.
La Quarconia era, su per giù nella Firenze del 1840, […] un teatro popolare dove per due crazie (quattordici centesimi) si trattenevano gli spettatori dalle sette al tocco dopo la mezzanotte. In una medesima sera tragedia, farsa, ballo, esercizi acrobatici, pantomima, concerto di violino e giochi di bussolotti. L’intelletto usciva naturalmente ben nutrito da così diverso e lungo spettacolo, ma affinché lo stomaco non ne patisse altrettanto, si mangiava e beveva nei palchi e nella platea con varietà di utili effetti; tra l’altro, il pubblico che recitava clamoroso la parte del coro antico, poteva, provveduto com’era di vettovaglie, sostenere con l’elargizione di arance bell’e sbucciate le forze dell’innocenza in pericolo e colpire con le scorze il tiranno persecutore.
In quel teatro innanzi a quel pubblico il buon “lavoratore della scarpa” fece rappresentare il suo “Conte Ugolino”.
Nella parte del protagonista era un endecasillabo: «Ho fame, ho fame, ho fame, ho fame, ho fame» che l’attore doveva pronunziare, facendo pausa fra l’una e l’altra di quelle esclamazioni, dopo ogni pausa abbassando il tono della voce; sì che da ultimo il quasi estinguersi di quella annunziasse imminente l’estinguersi della vita. Gli uditori si sarebbero certamente commossi a quella ognor più fievole doglianza delle angosce digiune, se (com’io seppi già da chi fu presente alla recita) un bell’umore non avesse scagliato un “semel” ai piedi del Conte pisano, gridando: «Piglia, mangia e chetati...»
[…] Raccontano i cronisti che al pericoloso endecasillabo sostituita una parafrasi delle terzine dantesche, la tragedia rappresentata a Livorno vi ottenne successo felicissimo: fece versare lacrime copiose durante quattro atti e le mutò al quinto in singhiozzi; comunque sia di ciò, l’autore o pago di quella rivendicazione, o rinsavito, tornò dal coturno allo stivaletto»

Oltre alla drammaturgia, Giovanni Bracci si dilettò anche nella poesia scrivendo numerose odi e sonetti. Curiosando tra le poche opere da lui pubblicate, ci siamo imbattuti in una raccolta di poesie intitolata, per l’appunto, “Poesie di Giovanni Bracci da Santa Croce” pubblicata dal tipografo Eugenio Pozzolini di Livorno nel 1837. È qui che, piacevolmente sorpresi, abbiamo trovato a pagina 29 una pregevole ode datata 1835 ed intitolata “La Rocca di S. Miniato”.
Costituita da quattordici strofe ciascuna di sette versi settenari gradevolmente cadenzati, la poesia ha uno schema metrico che parrebbe ispirato dalla famosa ode “Il cinque maggio” (1821) di Alessandro Manzoni. Il primo e il terzo verso sono sdruccioli e non rimati, il secondo e il quarto verso sono piani e rimano tra loro, così come il quinto e il sesto verso, mentre il settimo verso è tronco.
L’ode ci permette inoltre di fare delle interessanti considerazioni su come doveva apparire la torre federiciana agli occhi di un osservatore della prima metà del XIX secolo. Il poeta esordisce elogiando la sua maestosità che da lontano si impone alla vista di uno sbalordito pellegrino, ma poi, una volta giunto sul faticoso colle, denota il suo stato di forte degrado e rievoca magistralmente con un pathos teatrale di notevole effetto, la triste vicenda, nella versione “dantesca”, di Pier delle Vigne.
Una descrizione dello stato dell’antica fortezza militare che richiama immediatamente alla “sfasciata Rocca”, così definita da Averardo Genovesi nella sua poesia satirica del 1841, che fece da apripista ad una vera e propria “guerra poetica”.

Poesie di Giovanni Bracci da Santa Croce, Pozzolini, Livorno, 1837
Frontespizio

LA ROCCA DI S. MINIATO
Ode (1835)

O ancor fra le macerie
Superba, e maestosa
Mole, su cui l'attonito
Sguardo talor si posa
Dell'ansio pellegrino,
Che per lungo cammino
Tua vista lo colpì:

Oh! quante alla memoria
Svegli idee di dolore;
E di mestizia al palpito
Come richiami il core!
Quando l'uom del pensiero,
Ricerca in sen del vero
L'uopo a cui fosti un dì.

Tributo ampio di lacrime
Egli a ragion ti rende,
Quando tua vera origine
Appien tutta comprende;
E nel silenzio ei dice,
«Oh! d'etade infelice
Monumento crudel!»

Per l'erto giogo*, ed aspero
Quindi ti sale appresso. -
Attentamente esamina
Lo tuo squallor d'adesso;
E sul tuo fasto antico,
Al comun ben nemico,
Vorria tirare un vel.

Poscia d'intorno aggirasi
D'alto terror compreso. -
Là vede esser dal fulmine
Un merlo al suol prosteso;
E l'erba, che il ricuopre,
Par che in celar s'adopre
Le tue ruine ancor.

Il musco solitario,
Che ti serpeggia intorno,
Par che brami nasconderti
A' tanti rai del giorno;
Ma in van; che la tua istoria
Vive nel memoria
Del forte, e ne ha rossor.

Delle discordie al vortice,
Per Te, la rimembranza
Volge, e pensa, che ai liberi
Itali cor fu stanza
L'interno di tue mura
Converso in carcer dura
Dallo spietato Sir.

Del grande, a un tempo, e misero
Piero **, il destin rammenta.
Ed oh! qual truce immagine
Lo affanna, e lo tormenta;
Immagin di quel forte
La cui spietata morte
Tu sol potresti dir.

Tu che il vedesti agli ultimi
Istanti di sua vita
Brancolar cieco, e fremere
Con alma indispettita;
Non per il duol ch'ei senta,
Non perchè si rammenta
L'antico suo splendor,

Ma perché muta vittima
Cadrà d'altrui furore,
E un tristo avrà ne' secoli
Eco di traditore;
Senza una tomba in cui
Fissi gli sguardi sui
Pietoso il viator.

A idea così terribile
Quasi non regge. - Il seno
Gli strazian mille furie,
E come quei ch'è pieno
D'altissimo sentire,
L'ora del suo morire
Ad affrettar pensò.

Onde torsi all'infamia,
Poiché gli manca un brando ***,
Va con la fronte (ahi misero)
Nella parete urtando. -
S'infrange, e la sdegnosa
Alma in fuggir, pietosa
La spoglia sogguardò.

Cadde; e per lungo spazio
Fu il suo cader mistero;
Finché sul labbro armonico
Del Trovator sincero,
Che questo còlle ascese,
Voce suonar s'intese
Di lutto e di dolor.

Sull'imbrunir dell'aere,
Al sibilar del vento,
Quel solitario passere,
Che sfoga il suo lamento,
Il fatto memorando,
Più volte andò narrando
Sull'Arpa, il pio cantor.

* Il termine “giogo” è qui utilizzato col significato di sommità del colle.
** Questa nota è inserita nel testo dall’autore stesso è riporta in calce questa precisazione:
È fama che il famoso Piero delle Vigne, dopo d'essere stato fatto abbacinare da Federico II, fu posto nella Rocca di S. Miniato, dove morì infrangendosi la testa nella parete. Abbiamo seguitato l'esempio di Dante, figurandolo innocente, e vittima dell'invidia.
*** Il brando è un’antica spada (da cui il verbo brandire). Il termine è qui usato nel senso esteso di arma, per significare che il prigioniero non aveva altro modo per suicidarsi che fracassarsi il cranio contro il muro della torre.

Il 17 giugno 1828 Giovanni Bracci sposò Elena Tempesti, di famiglia benestante, dalla quale il 9 novembre 1830 ebbe come figlio secondogenito Braccio Teodoro.
Avviato agli studi di giurisprudenza dal padre, Braccio Bracci fece poi carriera a Livorno come avvocato e giornalista e si fece apprezzare anch’egli come poeta e drammaturgo. Ma ciò che rende interessante la vita di Braccio Bracci è come il destino volle incrociarla con quella del giovane Giosué Carducci, suo quasi coetaneo, nel tempo in cui quest’ultimo visse a San Miniato (1856-57).
Ma questa è tutta un’altra storia che vi racconteremo prossimamente…

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