giovedì 27 novembre 2014

LA DOMENICA MATTINA - Racconto di Giancarlo Pertici

di Giancarlo Pertici

↖ RACCONTI DALLO SCIOA

La domenica mattina, quasi un rito in San Miniato, sul finire degli anni 50 e oltre

È solo un'immagine sfuocata che mi riporta alla prima infanzia, alla mia prima camera, a quei grappoli d'uva appesi ai travicelli del soffitto che ogni mattina, al comparire del sole, mi appaiono ben prima del volto sorridente di mia madre mentre allunga le mani per alzarmi dalla culla, proprio accanto al lettone. È l'ora della prima pappa. Ricordi fissati a inizio primavera del '48. Ricordi vivi! Confermati anche dalla mamma.

Altra immagine, quella di un domenica mattina di qualche anno dopo e di mia mamma che mi alza dal lettino bastardo posto nella camerina buia. Tinozza al centro della cucina, acqua fumante per il bagnetto, saponetta profumata e borotalco, per finire avvolto in un asciugamano caldo. Pronto per andare a messa, poi anche a giro, con nonno che è li, tutto in ghingheri, che mi aspetta.

Prima panca il nostro posto, messa delle 9. In rassegna ogni volta tutti gli altari, una breve sosta ciascuno. Un segno di croce dopo esser passato oltre quella panca arabescata, all'ingresso, in cantonata, riservata alla casata Migliorati, signori e marchesi in San Miniato. E lì accanto, in piedi, cappello in mano, quei contadini che non hanno fatto in tempo alla “prima” delle messe. Le loro mogli, in ginocchio sulla panca innanzi, rosario in mano, le solite vecchiette, e la pezzuola in testa, a sgranare “marie” prima che suoni la campanella. Ed io, sguardo intimorito, di fronte a quello scheletro sotto l'altare maggiore, che a me pare disegnare ombre sinistre sul rivestimento porpora della bara, mi seggo su quella prima panca rassicurato da nonno, mani rinserrate nella mia. È la messa dei bambini, quelli a catechismo, i più grandi a fare i chierichetti, mentre io, istruito da nonno, ripeto a memoria strane formule in latino.

All'Ite Missa Est i bambini sciamano rumorosi in piazza. I contadini calzano il cappello dopo averlo lisciato, e non prima di aver rimodellato la tesa e la bombatura; è quello della domenica. Le donne ripiegano il velo, le mani a controllare permanente o “messa in piega”. Nonno, che saluta a destra e a manca, si aggiusta anche il cappello, si scuote i pantaloni e controlla l'ora dalla “cipolla” dentro il taschino; mentre si avvia per “di là” insieme a me, mano nella mano. Botteghe chiuse. Gente per strada, chi va e chi viene. Nel vestito della festa è anche il popolo dei contadini. Nonno sembra conoscere tutti; un rito il salutare e il riconoscersi. Aperta la bottega di barbiere di Rino, affollato il Caffè Micheletti. Chi a farsi la barba, chi a farsi un bicchiere prima di ripartire per il giro in centro, per andare “di là” dove c'è lo struscio, quello di ogni domenica mattina. Quasi nessuno che resta nello Scioa. Qualche mamma a lavare rigaglie per farne salsa e “Gallina” e figli, attivisti convinti, ognuno in braccio un mazzo di giornali, a distribuire l'Unità assieme all'idea comunista.

È un brusio in crescendo, che penetra fino al Seminario e che attira verso una piazza oramai stracolma di una folla composita; commercianti, artisti e artigiani, mezzadri e proprietari terrieri, industriali, perdigiorno e fannulloni, operai e braccianti. La Piazza, quella di San Domenico, dopo l'uscita della messa. Folla che fa da tappo allo scorrere del popolo dello struscio. Chi dal Caffè Cecconi verso Piazzetta del Fondo fino al Piazzale, o chi, nell'altro verso, dai Loggiati di San Domenico fino a Piazza Grifoni e alla Nunziatina. Popolo ciarliero e chiacchierone, intento a trattare l'ultimo affare, ma soprattutto ad attaccar bottone pur di far mezzogiorno, e che ingrossa le sue fila, iniziando dalle “dieci”, fino appena dopo mezzogiorno. In compagnia di nonno, ma non sempre, riesco a sfondare fino al Bar del Corri per il gelato, per poi ritornare al Piazzale, in tempo per la partita di Pallacanestro della “Etrusca” squadra cittadina, su quel campetto in cemento e asfalto.

È al suono della campana di mezzogiorno che inizia il viaggio a ritroso che va a sfoltire velocemente quel tappo che rendeva quasi invisibile la farmacia Cheli, la vetrina di “Viva Gesù”, l'edicola “Catarcioni”, i cartelloni del Cinema Italia. È quello l'ultimo nostro giro, giusto per salutare mio zio barbiere in piazza, per leggere le ultime notizie del “Telegrafo” e de “La Nazione” e per controllare che Film c'è oggi in programma “Sotto i Chiostri”.


Percorso quasi in apnea, quest'ultimo, davanti al Seminario, al Comune e alle Scuole, per respirare liberi, da lì in poi, a pieni polmoni, i profumi intensi del dì di festa. Profumi che sanno di crostini fegatini e capperi, di salsa di rigaglie, di coniglio e pollo arrosto con patate, che a tegliate escono dai forni di Nello e del Peroni ad incensare le vie. L'ora è la stessa per tutti, appena dopo mezzogiorno e prima del tocco. Poi silenzio improvviso, strade deserte, solo un tintinnare di posate e bicchieri a suggerire dove si sia rifugiato all'improvviso quel popolo ciarliero e chiacchierone di appena un'ora prima.

La chiesa di Santa Caterina
Foto di Francesco Fiumalbi

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