mercoledì 24 dicembre 2014

G. PIOMBANTI – GUIDA DI SAN MINIATO – SUNTO STORICO DELLA CITTA' DI SAN MINIATO



Estratto da G. Piombanti, Guida della Città di San Miniato al Tedesco. Con notizie storiche antiche e moderne, Tipografia M. Ristori, San Miniato, 1894, pp. 13-56.

SUNTO STORICO
DELLA CITTA' DI SAN MINIATO


[013] Sta S. Miniato fra l'Elsa e l'Evola in ameno e assai elevato colle, a ugual distanza da Pisa e Firenze. Tra levante e ponente le s'apre dinanzi, ricco di bella vegetazione, in Val di Nievole e dell'Arno inferiore, un orizzonte incantevole, sparso di paesi, castelli e ville «che il mostro dagli occhi di fuoco, personificazione dei moderni progressi, impetuoso, fischiante, continuamente percorre». Tu vedi di lassù Montelupo e Capraia, Vinci ove nacque il gran Leonardo, il paese del Giusti, Montecatini, Borgo a Buggiano e Pescia. A te più vicino: Empoli distintamente, Cerreto Guidi, in cui per crudel modo perì Isabella Orsini, Fucecchio, S. Croce, Castelfranco, S. Maria a Monte, S. Romano e il castello dove vide la luce l'insigne pittore Lodovico Cardi. A mezzogiorno poi, tra altri villaggi e castelli non pochi, vedi sorger lontana l'etrusca Volterra. [014] Semenzaio d'uomini illustri, chiamò il Repetti S. Miniato; e Augusto Conti: Luogo destinato a germogliare ingegni, singolarmente adatto ad istituti d'istruzione. Fu cuna della famiglia del più gran capitano dei tempi nostri, di cui fin dal secolo XIII si ha memoria, e di quella onde nacque quel miracolo di santità operosa, che ebbe nome Carlo Borromeo.
Intorno alla sua origine nulla si può asserir con certezza. Havvi una tradizione che dice esserci stato, nell'età romana, un villaggio, chiamato Quarto, con tempio dedicato al dio Pane, dipoi convertito in chiesa cristiana, in luogo detto Pancole, cioè dove Pane ebbe adorazione. Raccolse questa tradizione il vescovo di S. Miniato Francesco Poggi e, restaurando quella Chiesa, posevi, come vedremo, un'iscrizione. Il fatto meno controverso, al dire del Repetti, si è che, nel secolo VIII, dove ora sorge il tempio di S. Francesco, i vinti e dispersi longobardi, uniti per avventura ai lucchesi, erigessero una chiesa in onore del martire S. Miniato, assai venerato in quei tempi, cui il vescovo di Lucca Balsari prepose un tal prete Naudolfo. Presto aumentò intorno ad essa il numero delle abitazioni; e pare che il villaggio fosse di giurisdizione ecclesiastica, poiché doveva pagare un annuo tributo alla mensa vescovile di Lucca. Sebbene alcuni cronisti lo dicano munita assai prima, e il Repetti parli del castello di [015] S. Miniato del secolo IX, di cui era signore il nobile lucchese Odalberto; sembra ad altri più probabile che l'imperatore Ottone I, venuto in Italia, si fermasse poi su questo colle, di non facile accesso, d'aria eccellente, di posizione opportuna, e di mura ne cingesse le abitazioni, molto utile stimando possedere nel bel mezzo della Toscana un luogo fortificato, a sede di un so rappresentante, che del continuo alta ne tenesse l'autorità, e gl'interessi ne difendesse. Posevi egli in fatti nel 962 un tale Arnolfo, capo delle milizie, giudice ed esattore imperiale, con giurisdizione in Toscana, lasciando a S. Miniato una certa libertà per affezionarsene gli abitanti; onde il luogo fu detto Al tedesco, cioè castello del vicario o del giudice tedesco. Di qui nasce, dice il Rondoni, che i toscani d'allora riguardassero questo paese, già mezzo longobardo d'origine, come fantasma minaccioso dell'impero, che dall'alto di quei colli li vigili, e di qui ancora il sorgere in esso delle tendenze ghibelline, quando si resse a libero comune.
Alla distanza di curca due chilometri da S. Miniato, nella direzione d'Empoli, esisteva, forse nel secolo VI, una chiesa, dedicata al martire S. Genesio, che ha le reliquie a Lucca, le cui circostanti abitazioni, assai cresciute di numero, trovansi indicate col nome longobardo di Vico Wallari. Essa fu la prima pievania e poi [016] propositura; molti pontefici di privilegi l'arricchirono, e più di tutti Alessandro II, già vescovo di Lucca. Nella chiesa di questo borgo, che pur venne fortificato, e dalla quale altre trentadue dipendevano, comprese quelle di S. Miniato, si tennero diete, congressi, concili. Là fu il trattato, dice il prof. Augusto Conti, della prima lega guelfa, e s'adunò il Concilio in difesa di S. Anselmo vescovo di Lucca, sostenitore di Gregorio VII contro Enrico nella contesa delle investiture, e perseguitato dai suoi canonici, fierissimi ghibellini. Il che rilevasi eziandio da una iscrizione latina, dettata dall'illustre sanminiatese mons. Pietro Bagnoli, che or si legge in una cappella, dal vescovo Pierazzi riedificata, dove fu la celebre propositura di S. Genesio. (1) [VAI ALLE NOTE ↗] Celestino III, nel dodicesimo secolo, dirigeva al suo proposto, suddiacono apostolico, una bolla in cui lo encomia della vita comune, che co' suoi preti menava, secondo i canoni, e conferma le donazioni fatte loro dai longobardi di S. Miniato.
L'anno 996 i samminiatesi furono rallegrati dalla presenza del pontefice Gregorio V; poiché essendo egli in viaggio per la Germania, volle fermarsi nel loro castello, dove ricevé gli omaggi sinceri di quei buoni abitanti. Ma non sembra che essi si possano pur gloriare di aver visto nascere la celebre contessa Matilde, sebbene essa, per le discordie dei tempi, spiegasse poi [017] anche su di loro la sua autorità, mentre quella dei vicari era talvolta avversata a cagione delle loro prepotenza. Nel 1061 in fatti, essendosi il popolo sollevato per oppressione di tasse, uccise il vicario Gualberto, ed Enrico IV condannò i samminiatesi a pagare quindicimila soldi d'oro. Cresciuta la violenza da una parte, e l'amore di libertà dall'altra, i più avversi al dominio tedesco abbandonarono, dieci anni dopo, il castello, e scesero ad abitare Vico Wallari, che andava sempre più prosperando. Però a meglio consolidarvi l'autorità imperiale, due volte fu a S. Miniato Federigo I, detto Barbarossa, dimorando nel palazzo del suo vicario, e compiendovi vari atti di governo. I suoi partigiani ne andavan superbi, e di tanta benevolenza molto si tenevano onorati. Custodiva egli gelosamente quel feudo, e nel 1172 vi mandava Cristiano arcivescovo di Magonza, suo cancelliere, a pacificare le città della provincia. Ma costui, da fiero tedesco, suscitò maggior discordia; poiché avendo imprigionato i legati pisani e fiorentini, si venne alle armi: S. Miniato cadde in potere dei lucchesi e i suoi abitanti si unirono allora con Firenze e Pisa per ricuperare il castello. Anche Enrico VI, morto il Barbarossa, fu a S. Miniato: confermò le concessioni del padre, richiamo alcuni esiliati e procurò di metter pace a pro suo tra guelfi e ghibellini. Ma le discordie in breve, maggiormente crebbero [018], e i guelfi prevalsero. E pieni di quell'ardore di libertà operosa, che ravvivava i comuni, come ha scritto il Rondoni, cresciuti di numero, sdegnando forse di star più chiusi tra le mura di un castello, abbandonate e ruinate le proprie case, scesero di nuovo ad abitare, parte a San Genesio e parte a Santa Gonda (Catena), credendosi quivi fare una grande città, come dice Giovanni Villani. Ma l'antica invidia ed avversione contro Vico Wallari nell'animo dei samminiatesi più fortemente si accesero, riflettendo di averlo coll'opera loro ingrandito ed arricchito, e vedendosi poi da loro non curati, od anco disprezzati. Il perché, dopo non molto tempo, devastata quella terra ospitale, risalirono sdegnosi al poggio, dove più grande rifecero il loro castello, commettendo così, prosegue il Villani, due manifeste follie (1200). – Quando, sotto gli auspici del papa, si giurava la lega guelfa, cui anche i samminiatesi presero parte. E nelle assemblee di San Genesio e di Castelfiorentino, i due consoli di San Miniato, fra le altre autorità di nessun sovrano senza l'ordine della chiesa romana. Vennero di poi a S. Miniato e lo favorirono, lo svevo Filippo e Ottone IV, e le divisioni più che mai aumentarono; perché alquante nobili famiglie pel primo parteggiarono, ed altre per secondo. – Eran questi i tempi di S. Francesco d'Assisi; tempi [019] infelici di odi e di devastazioni, nei quali egli dall'universale era desiderato e benedetto qual messo di Dio. Trovandosi il santo, nel 1211, presso il nostro castello, i più autorevoli gli si fecero incontro fino alla Catena, e su lo accompagnarono con grande onore. Ebbe egli per loro parole di pace e di santa amicizia, e in dono ne ricevé la chiesetta dedicata al titolare del paese con una casa, su cui sorsero dipoi la chiesa e il convento che tuttavia ammirano. – Diveniva intanto imperatore Federigo II, il quale, per cattivarsi l'animo dei samminiatesi e raffermare sopra di loro la propria autorità, donava loro, nel 1216, il borgo di S. Genesio, che il Villani dice molto ricco e bene abitato, con tutte le sue pertinenze e ragioni, ordinando che la strada maestra tra Pisa e Firenze passasse pel nostro castello. Quest'atto di donazione fu sentenza di morte per quel borgo; e avrebbe potuto invece dar principio alla vera prosperità e grandezza di S. Miniato, se pace e concordia fossero state possibile in quei disgraziati tempi. Altri villaggi e castelli si sottomisero, i cui capi vennero a giurar fedeltà nella chiesa di S. Maria, già pieve del luogo, accrescendo così l'importanza del nostro castello, che a comune si reggeva sotto la protezione imperiale. Dieci anni dopo lo stesso imperatore, con numeroso corteggio di principi e vescovi, vi si portava, bene accolto e festeggiato, ed ivi [020] pubblicava un privilegio per la badia di Fucecchio. Concedeva quindi al nostro comune la terza parte delle alluvioni dell'Arno nel territorio samminiatese; ordinava vi risiedesse stabilmente il giudice degli appelli per la Toscana tutta; faceva circondare a guisa di fortezza, sulla cima del poggio, la chiesa di S. Michele, sopra edificandovi l'eccelsa rocca, d'onde tu puoi vedere mezza la Toscana. Sopra i grossi suoi pilastri, che sempre in cima esistono, sorgevano archi gotici, i quali sostenevano un piano merlato. – Ma qui ad esempio di ciò che sovente fossero di prepotente e d'avaro i vicari imperiali, che pur si trovavano indicati col nome di castellani, ricorderemo un tal Gerardo d'Arnestein, il quale, nel 1228, condannava gli abitanti di Montepulciano a pagare una multa di mille marchi d'argento perché non avevano ai suoi ordini ubbidito; e l'anno seguente ei fu scomunicato da Gregorio IX, come derubatore dei pellegrini che andavano a Roma. – Era cresciuta in vero la potenza di S. Miniato; ma insieme con essa erano pure sventuratamente aumentate le discordie e gli odi feroci. Però, a sfogo del loro vecchio rancore, non sappiamo bene qual ne fosse la ragione o il pretesto, nel 1248, i samminiatesi assalirono e distrussero il già infiacchito borgo di S. Genesio, più volte da loro abitato, meglio ingrandendo poi e fortificato il proprio castello. L'antica [021] e insigne propositura di quel borgo venne a San Miniato trasferita con la dipendenza di tutte le altre parrocchie, e la sua chiesa maggiore ebbe il titolo in avvenire di S. Maria e Genesio. – Nella fortunosa sua vita, Federigo II caro si tenne il feudo di S. Miniato, che sembra gli restasse fedele. Ei pur lo teneva come fortezza di stato, e parecchi prigionieri vi relegò, che miseramente ci finiron la vita. Tra questi fu il celebre suo ministro Pier della Vigna, caduto in disgrazia, intorno al quale tanto si è scritto. E sebbene la morte sua sia stata chiamata un mistero storico, è certo però ch'ei ci fu condotto carico di catene, e nel marzo del 1249 vi fu acciecato. Onde molto egli temendo di essere ai suoi nemici consegnato, preso da disperazione, nella prigione di quella rocca si uccise, fracassandosi il capo contro le muraglie. Tutto considerato, sembra questo il più vero racconto della miseranda sua fine. (2) [VAI ALLE NOTE ↗] Altri han scritto che, al tempo della sventura di Pier della Vigna, l'imperator Federigo, infido e prepotente com'era, sospettò della fedeltà dei samminiatesi, e ne prese, a tradimento, crudele vendetta, ordinando molte uccisioni. A ciò allude anche un'iscrizione latina, scritta da Giovan Persio Migliorati, che si legge nella chiesa del Crocifisso, ed è dal Rondoni riportata. – Morto Federigo II, i guelfi ripresero animo; e il nostro castello che, seguendo la politica del tornaconto, preferiva di star [022] coi più forti a Firenze s'unì; ebbe parte alla prospera sua fortuna, e intervenne alla battaglia di Montaperti. Poi parteggiò per Manfredi, che dettegli i beni dei banditi e dei ribelli, l'esenzione da ogni pedaggio, e la conferma dei privilegi da Federigo avuti. Restando fedele all'impero, incorse nella scomunica e nell'interdetto, coi quali Clemente IV aveva colpito i fautori di Corradino. Per uscire da questi guai, e facendo di necessità virtù, con preghiera si accostò a Carlo d'Angiò, il quale, nel 1272, a pace giurata lo riceveva a Fucecchio per mezzo del suo vicario. Quindi ne prendeva possesso, e qualche anno lo riteneva, con promessa di difenderlo e di conservarvi liberamente il distretto. Venne intanto il 1281 e, coronato imperator d'Alemagna Rodolfo d'Asburgo, il nostro castello di nuovo abbracciava il partito imperiale e ne riceve il vicario. A questo pochi altri successero; e l'ultimo di loro fu Giovanni di Celoria (Châlons), che non ebbe fortuna, perché i tempi dell'impero erano per finire in Italia. Infatti preso egli in uggia dai ghibellini e dai guelfi, perché era francese, gli dettero una quantità di danaro e via lo cacciarono. – Gli uffici dei vicari, che lasciarono il nome di tedesco a questo ameno paese, non vennero per avventura mai ben determinati, né furono sempre uguali. Essi, in generale, ricevevano i giuramenti di fedeltà e gli appelli, esigevano i redditi e proventi imperiali, davano sentenze, [023] nominavano ufficiali e ministri, promulgavano bandi, multe.... secondo i tempi o l'accoglienza che ne speravano. Quantunque i samminiatesi all'impero fossero debitori d'ogni loro incremento o prosperità, più volte ai vicari si ribellarono e parteggiarono pei loro nemici, quando le gravezze e le angherie eran troppe. Molti però, specialmente se d'origine alemanna, a quel dominio si mostravan favorevoli, perché, sostenendolo, la loro utilità ritrovavano. Questa la ragione degli ostinati partiti, i quali spesso ad aperta lotta fra loro venivano, e l'uno all'altro con fierezza signoreggiava. – Passati i vicari imperiali, più liberamente si svolse il comune, e il guelfo partito prevalente, colle vivine repubbliche faceva trattati, massime con Firenze, determinando i confini del proprio dominio, che assai si estendeva. Ma se era finita la prepotenza tedesca, crebbero però le dissensioni tra nobili, che volevano spadroneggiare, e il popolo che del continuo vi si ribellava. Onde proprio pareva che, neppur per breve tempo, in pace potesser vivere, e studiosamente cercassero le occasioni per venire alle devastazioni, agli incendi, allo spargimento del sangue. A dimostrazione di ciò, narreremo che il popolo, non volendo più tollerare l'arroganza dei nobili, aveva fatto una legge, che ognuno di loro dovesse pagar mille lire, quando offendesse un popolano. Ma costoro, con a capo i Ciccioni [024] e i Mangiadori, che erano i più focosi, adunati gli amici, e servi e i fuoriusciti ghibellini, si levano a tumulto, assalgono i popolani, li vincono, molti ne uccidono. Poi scacciano il magistrato, bruciano gli statuti del comune, ne sotterrano la campana, danno alle fiamme le case dei capi guelfi, nel palazzo del popolo s'insediano, s'impadroniscono del governo, a modo loro e a proprio vantaggio lo riformano (1309). E Giovanni Villani conclude che, dopo ciò, il popolo fu tenuto in grande servaggio, fino a che le case dei Ciccioni e dei Mangiadori non ebbero tra loro discordia.
Aveva il Comune un podestà, un consiglio generale del popolo, o parlamento, un consiglio di custodia, che eleggeva il magistrato dei dodici, un capitano del popolo, e la società di giustizia, di cui facevan parte i signori dodici, alla quale spettava l'alta difesa dei diritti del popolo e del comune. Dividevasi il paese in sette contrade, cioè: di Poggighisi, di Pancole, di Santo Andrea, di S. Stefano, della Pieve, di Fuor di Porta, di Faognana. (3) [VAI ALLE NOTE ↗] Esse eran dette anche società d'armi; attendevano alla difesa del popolo e alla conservazione della terra. Ogni contrada aveva i sindaci, che ne nominavano i capitani. Dalla vita dei comuni poi era inseparabile la religione, che, si voglia, o no, è l'anima dell'umano consorzio, da soli governi atei moderni inconsultamente e ruinosamente disconosciuta. [025] Però da solenne processione preceduta, cui tutte le autorità prendevan parte, al suo altare, nella chiesa di S. Francesco, si celebrava la festa del santo martire Miniato, patrono del castello; quindi alle altre chiese ed agli spedali si davan limosine. Ma la più nota e cara delle sue religiose memorie è quella di un Crocifisso dei tempi di Federigo II. Narrano infatti vi fosse per avventura mandato (forse dai loro parenti) per consolazione dei fiorentini prigionieri, che quell'imperatore crudele aveva fatto nella rocca rinchiudere, come accennammo. Per esso ebbero sempre i samminiatesi molta venerazione, e a fine di ottenere dal cielo i soccorsi nelle grandi calamità, a processione più volte portaronlo e nel paese e fuori. (4) [VAI ALLE NOTE ↗]
Nei primi anno del secolo XIV, dice il Rondoni, era giunto S. Miniato al fiore della potenza, avendo nel suo dominio ben trentaquattro castelli. Oltre a cento potenti famiglie contava, e nove casate nobili, piene di gente fiera e superba, di sangue alemanno. Il buon popolo guelfo nuove strade apriva, e allargava il circuito delle mura. Dal maggior colle si alzava la rocca, sulla quale sventolava l'insegna, un leon bianco rampante in campo rosso. Attorniavano e difendevano il castello tre cinte di mura degradanti, a similitudine d'anfiteatro, con barbacani e torricelle, che gli davano un aspetto pittoresco e guerriero. (05) [VAI ALLE NOTE ↗]
[026] A liberar presto il popolo dalla oppressione dei ricchi, due avvenimenti principali concorsero. Il primo si fu l'unione di due sue ragguardevoli famiglie, che, lasciati i nomi di Maladerrate e Pugliesi, presero quello comune di Pallaleoni, ed inalzarono, come protesta e minaccia, dove ora si trova il palazzo del vescovo, una torre, la quale dal loro nuovo nome fu chiamata. L'altro fu la comparsa dei così detti battuti, i quali, mezzo vestiti, da una croce preceduti, pregando e percuotendosi, percorrevano quasi tutta Italia, gridando misericordia e perdono. Larga parte vi presero i samminiatesi, e chi si rifiutava di fare pace col nemico, il potestà ordinava vi fosse costretto (1311). – Nell'anno stesso l'imperatore Enrico VII, andando da Pisa in maremma, visitava il nostro castello; gli fecero atto d'ossequio gli abitanti, ma fedeli si tennero alla guelfa Firenze, come ad alleata, e insieme più volte si batterono contro i pisani e i comuni nemici. – Uguccione della Faggiola avendo guerra con Firenze, cinque anni dopo, coi pisani ed i lucchesi venne a devastare il territorio di S. Miniato. Espugnò S. Romano, Stibbio e Cigoli, il cui presidio nel nostro castello si rifugiò, dov'era colle milizie senesi il fratello del re Roberto di Napoli. Insieme con loro i samminiatesi, che si erano battuti a Campaldino, preser parte alla battaglia di Montecatini, nella quale, tra gli altri, un Ciccioni e un [027] Mangiadori perirono. – Le vendette poi che, nel prevaler dei partiti, avvenivano eran crudeli e barbare. Fatti dodici prigionieri del castello ribelle di Collebrunacci, i samminiatesi, che lo assediavano, promisero di liberarli, quando esso si arrendesse. Gli assediati non risposero; e quei miseri, alla presenza dei loro parenti, vennero senza pietà impiccati. Il fuoriuscito Gherardo dei Baratelli invitava i samminiatesi a entrare nel castello di Moriolo per quattromila fiorini d'oro, mentre, d'accordo con Pisa, loro tendeva insidie. S. Miniato prometteva cento fiorini d'oro a chi, vivo o morto, consegnasse il traditore; le case di sua famiglia, presso S. Domenico, venivano atterrate, e in quello stessi luogo, in segno di morte e di sterminio, era aperto un cimitero. Altri castelli si erano a S. Miniato ribellati; ma di tutti riportò vittoria. E preso Coluccio Guadardi che era dei più potenti ribelli, per ordine del podestà, a ludibrio del popolo, pel paese lo trascinarono, e poi, orribile a dirsi (esclama giustamente il Rondoni), vivo, nel mezzo lo segarono! – Dinanzi al re Roberto di Napoli, l'anno 1318, si fece finalmente pace tra guelfi e ghibellini, la quale durò poco; e a S. Miniato i pisani resero nove castelli, a condizione che fosse tolto il bando ai ribelli, e loro si restituissero i beni. Intanto sorgeva l'ambizioso Castruccio; al samminiatese dava il guasto; entrava a tradimento in Fucecchio; [028] minacciava Firenze, cui il nostro castello mandava soccorso. Spaventati dei suoi progressi, sotto la protezione si misero di Carlo duca di Calabria, pagandogli un annuo tributo. Venne poscia in Italia Lodovico il bavaro; ma poco di lui si curarono. I capi della lega guelfa toscana, stanchi del guerreggiare, a fare pace un'altra volta con Pisa, convennero a Montopoli (1329), e il castello nostro proseguì a star unito a Firenze. Ebbe anzi occasione d'aiutare questa città, quando essa si preparava contro i pisani, e concorse a scacciare il duca d'Atene. – In questo tempo le intestine discordie eran risorte; e gli ordini popolari sarebbero per avventura periti, per colpa specialmente dei Malpigli e dei Mangiadori, i quali, avversando ogni freno alle loro soperchierie, avevan colle armi sopraffatto i Pallaleoni e le altre forze del popolo. Pronta mandò Firenze sue milizie, e la ribellione fu doma. Grati a questa repubblica, i samminiatesi, per cinque anni, a lei si dettero per potersi meglio difendere, anche in futuro, dalla oppressione dei grandi. A spese comuni rafforzaron la rocca, e apriron da essa una via sotterranea, che dalle mura usciva, per dare, in caso di bisogno, ai fiorentini libero accesso. – Venuto Carlo IV in Italia, chiamato a raffrenare la potenza dei Visconti, videro i samminiatesi alcune città toscane seguir le sue parti; ed essi pure, nel 1354, a Pisa gli fecero atto di soggezione, con [029] molto contento di lui, che loro confermò le comunali franchigie e nuovi privilegi concesse. Ma partito l'imperatore, a Firenze si riaccostarono, anche per essere aiutati contro i Mangiadori, i quali con ogni sorta di mezzi, sembrava agognassero il principato del castello. Essi in fatti, uniti ad altri, sdegnando di sottostare a Firenze, presero furibondi le armi, e, avuta promessa d'aiuto dal duca di Milano Bernabò Visconti, fiero ghibellino, occuparon S. Miniato, e al duca lo consegnarono, che vi tenne, per poco tempo, scarso presidio. Poiché Firenze mandovvi il suo podestà, intimando ai samminiatesi l'osservanza dei patti, che facilmente vennero di nuovo confermati. Vi spedì le sue milizie, promise di porger loro aiuto a ricuperare le terre ribelli, se mantesser fede alla parte guelfa in piena libertà. Sembrava si potesse sperare amicizia durevole con Firenze, ma così non fu. I potenti samminiatesi eran del continuo istigati alla rivolta dal doge di Pisa Giovanni dell'Agnello e da altri fautori dell'imperatore, compreso il suo stesso fratello, che a S. Miniato colle sue genti era venuto; e però, di comune accordo, facevano continue scorrerie nel fiorentino dominio, devastandolo, incendiando, uccidendo. A Firenze, che tutti i mezzi aveva posto in opera per indurre quei rivoltosi a far senno, venne meno finalmente la pazienza, e il 15 agosto 1368 circondò S. Miniato colle sue milizie, essendo capitano dell'impresa [030] Giovanni Malatacca. Avendo il Visconti mandato invano a Firenze i suoi ambasciatori per distoglierla dall'impresa, inviò il celebre Aguto coi suoi inglesi, il quale a Cascina l'occasione propizia aspettava per soccorrere il castello, e vinse in uno scontro i fiorentini. Ma l'assedio duramente continuava, sebbene valorosa fosse la difesa, né soccorso di armi o di vettovaglie vi poteva giungere. Il forte castello dalle armi non vinto, cadde per astuzia di un tal Luparello, fuoriuscito samminiatese, che disse di volerlo a Firenze sottomesso, perché in fine tranquillamente potesse vivere. La notte dell'8 gennaio 1369, dalla parte di S. Francesco, egli aprì nelle mura una porta, murata a secco, per la quale, la mattina seguente, mentre il nuovo comandante Roberto da Battifolle simulava un fiero assalto dalla opposta parte, introdusse i fiorentini, che molte ruberie con uccisioni commisero. Miseria e desolazione trionfarono: i nobili nemici, come i Mangiadori, i Conti, i Ciccioni, i Borromei, con altri, vennero dichiarati ribelli della repubblica; verso il popolo si mostrarono assai benigni. Così S. Miniato, impotente a sedar sue discordie, a Firenze rimase soggetto. E similmente ebbe fine, per l'incorreggibile superbia e prepotenza dei ricchi, il suo comune, e quel nido di tedeschi in Toscana restò abbattuto. Vi mandò Firenze un vicario, che pubblicò generale amnistia, eccettuati i rei di aperta ribellione; [031] fece compilare gli statuti pel luogo; vi risiedesse un potestà fiorentino e guelfo, né più si chiamasse S. Miniato al Tedesco, ma Fiorentino. (6) [VAI ALLE NOTE ↗] – Viveva il popolo assai tranquillamente, alla repubblica fiorentina soggetto; ma non così i nobili, a cagione della perduta potenza molto indignati. Onde nel 1396, alquanti di loro a Pisa si portarono, e fecer lega con Jacopo Appiano per liberar dai fiorentini S. Miniato e divenirne essi medesimi signori. Profittando però accortamente dei pochi soldati nei forti rimasti, perché gli altri eran fuori alle guerre, Benedetto Mangiadori con venti cavalieri la sera del 20 febbraio, per sorpresa vi entrano, il vicario fiorentino Davanzato Davanzati mettono a morte e lo gettano dalla finestra del suo palazzo; liberano i prigionieri: dal palazzo pretorio tentano di sollevare il paese gridando libertà. Ma il popolo, che ben li conosceva, invece di secondarli si solleva, li combatte, li scaccia, e, pieno d'indignazione, le case dei Mangiadori dà alle fiamme. L'Appiano non venne coi promessi soccorsi. Un tal Domenico Cantini, con armati in fretta raccolti, era subito accorso da Empoli a difesa dell'autorità di Firenze per una via detta delle corna, e, con facile vittoria, tolto il catorcio dalla casa del vinto Mangiadori, in trionfo ad Empoli lo porta, e al palazzo del vicario lo appende. Largo premio ricevé costui dalla fiorentina repubblica, [032] con titolo di nobiltà. Dal nome della via che il Cantini percorse, ebbe forse origine la leggenda della presa di S. Miniato coi lumicini, alle corna delle capre legati, come canta, per avversione di campanile, il dottore Ippolito Neri, empolese del secolo XVI, nel suo poema eroicomico «La presa di S. Miniato al Tedesco». (7) [VAI ALLE NOTE ↗] – Narrano che il Mangiadori, vinto ma non scoraggiato, tentasse dipoi un nuovo assalto, che i fiorentini, omai avveduti, resero vano. A queste sedizioni seguirono i fervori della devozione. Ed essendo venuta a S. Miniato, nel 1399, dall'Italia superiore, una numerosa compagnia di penitenza, detta dei bianchi (che ai battuti successero) a venerare il suo Crocifisso, più di 1600 samminiatesi, di bianche anch'essi vestiti, digiuni e chiedenti perdono, con quel medesimo crocifisso che due volte uscirono dalla terra, e quasi tutte le città toscane visitarono, pace gridando, e accendendo il fuoco della carità cristiana. Dopo di che, cresciuta la devozione a quella sacra immagine, nel secolo XVIII, un bel tempio in suo onore inalzarono.
Disgraziatamente tra Firenze e Pisa l'avversione continuava. Jacopo d'Appiano e Benedetto Mangiadori contro il nostro castello tesero nuove insidie. E sebbene ambedue fossero dai fiorentini battuti e respinti, tra i loro partigiani il malcontento e l'agitazione non [033] diminuivano. Ebbero anzi ragione di crescere e dilatarsi perché Firenze troppo colle imposizioni opprimeva quegli abitanti, e quasi li spogliava. Per cattivarsene forse l'animo, volle, nel 1406, far città S. Miniato e cattedrale la sua collegiata, coll'assenso di Alessandro V; ma i samminiatesi temendo i non cercati onori, rifiutarono, e più non se ne tenne parola. Intanto alcuni della famiglia Buonaparte, coi Bonincontri ed altri nobili, avversi al fiorentino dominio, e dall'ambizione spinti, a Pisa se l'erano intesa coll'Imperatore Sigismondo, venuto, come dicevasi, a ricuperare il nostro castello, e il loro aiuto gli avevano offerto. Ma per mala ventura, dal padre di un congiurato al vicario Salviati Alemanno denunziati, i ribelli ebber mozza la testa (1432). Tra essi fu Leonardo Buonaparte, fratello d'Onofrio, che pur morì dopo pochi giorni, di dolore o di veleno. L'infelicissima giovane fiorentina Lena Pitti, sposa a quest'ultimo ebbe ad impazzir pel dolore. E giunta in breve al capezzale di morte, fra gli altri pii legati, dispose che una messa fosse detta in perpetuo ogni mattina all'alba, nell'oratorio del Crocifisso, per comodità speciale degli agricoltori e degli operai, affinché le unite preci del sacerdote e del popolo al cielo salissero in pro dell'anima sua e dei suoi cari in quell'ora, nella quale il ferro della spietata repubblica aveva fatto cadere il capo di Leonardo. [034] Francesco di Michele in premio del servigio reso, ebbe la cittadinanza fiorentina e l'esenzione da ogni tassa per sé e pei discendenti. Privilegi maledetti, perché comprati col sangue di un figlio! – Dopo questo tempo, Firenze meglio trattò S. Miniato, che più non fece atti di ribellione al suo dominio. Anzi ordinò fossero cancellati alcuni debiti che il suo comune aveva contratto, e Lorenzo il magnifico nel 1479 volentieri vi si fermò, e fu bene accolto, quando da Firenze andava alla corte di Napoli.
L'anno 1463 Pio II aveva confermato al proposto di S. Miniato i privilegi già concessi a quello di San Genesio; ma il capitolo dal 1396 più non esisteva. L'onore di avergli ridato vita al proposto Giovanni Cavalcanti è dovuto, il quale si adoperò perché dieci delle prime famiglie del nostro castello formassero altrettante prebende canonicali; e Innocenzo VIII, nel 1487, del titolo di collegiata decorava la propositura di S. Miniato, con dieci canonicati, ammensando al capitolo suo la chiesa parrocchiale di S. Jacopo e Filippo a Pancole. Due anni dopo lo stesso benemerito Cavalcanti, per mezzo del vicario Pier Vettori, ottenne dalla repubblica la riapertura al culto della pieve di S. Maria e Genesio, la quale, compresa dentro le mura del castello, era ststa chiusa novantadue anni prima, e ridotta a armeria, dopo la ribellione dei Mangiadori. [035] Ottennero anche al proposto e ai suoi canonici il palazzo del capitano, oggi vescovile, per usi di abitazione. In quel tempo la propositura l'avevano trasferita a S. Giusto e Clemente, ora distrutta. Grati i samminiatesi a quel vicario, nella facciata della riaperta chiesa un'iscrizione apposero, che ancor vi si legge, ed è riportata dal prof. Rondoni (8) [VAI ALLE NOTE ↗]. – Nel secolo XVI, come nei precedenti, si sviluppò qualche volta la pestilenza a S. Miniato. E fierissima fu quella del 1527, la quale tanta desolazione arrecava, al dire di un contemporaneo, che dall'aprile al dicembre di quell'anno nessuno venne battezzato. Fu eretta però, intorno a questo tempo, in onore di S. Sebastiano una cappella, rimpetto alla casa Buonaparte, per averlo protettore nelle malattie contagiose. Alla pestilenza vera successe la pestifera invasione straniera, la quale pose il colmo ai mali, che su questa infelice terra piombarono. Poiché quando gl'imperiali dall'Orange capitanati, e d'azioni nefande già rei, mossero ai danni della fiorentina repubblica, il nostro castello, già stremato di forze per aiuti dati a Firenze, a se steso abbandonato, dopo nove giorni d'assedio, nel febbraio del 1529, cadde in potere degli spagnuoli, i quali colle loro ribalderie ben degni si mostrarono di venire dopo la peste. Il valoroso Francesco Ferrucci, da Empoli venuto l'anno seguente, assaliti e sconfitti gl'imperiali, e fatto prigioniero [036] il commissario spagnuolo, a Firenze riacquistò S. Miniato, entrando vittorioso per la porta Poggighisi. Quindi portossi a sottometter Volterra, a difender Firenze, e gloriosamente a Gavinana lasciò la vita. Una bella iscrizione latina del prof. Michele Ferrucci, che questi avvenimenti ricorda, presso detta porta, nel 1844, per deliberazione del municipio fu posta. Dipoi gl'imperiali ripresero S. Miniato. Il quale per queste dolorose vicende, e dopo la caduta di Firenze, restò desolato e ruinato così, che, nel 1531, fece preghiera al duca Alessandro volesse permettere che le famiglie originarie del luogo potessero liberamente tornarci, affermando che degli uomini, i quali prima lo abitavano, solo il quindici per cento era rimasto! Ciò di buon grado il duca concesse, e anche mandovvi un commissario a impedire le prepotenze degli spaguoli. Nuovi statuti si compilarono pel governo della terra; e da tanta decadenza un poco alla volta si levò, specialmente pei benefizi dai Medici ricevuti, sotto i quali a dir vero maggior quiete e prosperità poté godere. – Nel settembre del 1533, Clemente VII, che andava a Marsiglia, alcuni giorni a S. Miniato si trattenne, dove fu anche visitato da Michelangelo Buonarroti. Sette anni prima, aveva questo papa concesso a suo nipote Galeotto dei Medici, che ne era proposto, il privilegio dei pontificali, e la facoltà di conferire gli ordini minori. Eletto dica Cosimo I, [037] ne ringraziarono pubblicamente Dio i samminiatesi, e a Firenze mandarono una deputazione a fargli omaggio; ma poco egli si occupò del nostro castello. La sua più generosa benefattrice fu la moglie di Cosimo II, Maria Maddalena d'Austria. La quale, avuta, nel 1620, in appannaggio da suo consorte anche la terra di S. Miniato, non solo il titolo di città le ottenne; ma facela anche erigere a sede vescovile da Gregorio XV, con bolla del 5 dicembre 1622, ed ebbe per primo vescovo Francesco Noris Fiorentino (9) [VAI ALLE NOTE ↗]. Pieni di riconoscenza i samminiatesi verso la loro protettrice, in piazza della cittadella (oggi Vittorio Emanuele) per opera del fiorentino Susina, una statua le inalzarono. Quando poi essa venne la prima volta a visitare questa città, con gran festa tutti la riceverono; e, nei due giorni, che al palazzo Grifoni dimorò, ella ne li ricambiava largheggiando in opere di beneficenza. – Giungevano intanto gli anni nefasti 1630 e 1631, in cui la guerra, la peste e la fame desolarono quasi tutta Italia. Ma quella terribile pestilenza, sì maestrevolmente da Manzoni descritta, sebbene molte vittime in Toscana facesse, e si aggirasse minacciosa intorno al samminiatese, nella nostra città non penetrava. Con bella pastorale il suo primo vescovo li aveva esortati alla preghiera e alla fiducia in Dio; onde i suoi abitanti bene a ragione [038] alla protezione del Crocifisso ne attribuirono la salvezza, e a lui resero concordi devote azioni di grazie. – Dopo la formazione della diocesi, era naturalmente venuta la necessità del seminario; e il vescovo Angelo Pichi, nel 1650, lo edificava, capace di dodici alunni. Da mons. Cortigiani ingrandito; l'onore di averlo condotto all'ampiezza presente, con maggiori rendite e migliori insegnamenti, spetta a quella perla del vescovo, che questa città ebbe la fortuna di possedere col nome di Francesco Maria Poggi. Il quale concepì anche il disegno del nuovo grande oratorio del SS. Crocifisso, ai piedi del vecchio castello, sulla scoscesa falda del poggio. Colla sua mirabile attività, ben corrisposta dalla cittadinanza, dal 1705 al 1718, in cui lietissimo vi collocò la veneranda immagine, a compimento il codusse, mettendo in esecuzione così il voto dei samminiatesi del 1637, in occasione di pestilenza. Lo stesso granduca Cosimo III ammirò l'opera ardita, e venne volentieri in aiuto allo zelante vescovo. Il quale, mentre ferveva l'inalzamento della chiesa, tenne anche il quarto sinodo diocesano, monumento della sapienza sua, che forma, al dire del Conti, una guida sicura ai parroci nel governo spirituale delle anime (10) [VAI ALLE NOTE ↗]. Di ciò non pago, volle eziandio che l'amata città sua priva non fosse di quella mirabile istituzione di carità, che è la Confraternita di Misericordia, a sollievo della [039] languente umanità. Il 14 marzo 1716 la istituiva, ponendola sotto la protezione della Madonna Addolorata e di S. Filippo Benizi. Per essa edificò nella cattedrale una cappella, provvedendola di uffiziatura, e fece eseguire l'immagine dell'Addolorata per l'annua festa del settembre. Altre opere egregie compì questo mirabile vescovo, di cui si farà parola altrove.
Scarse mi sono state presentate le memorie, che riguardano il tempo futuro; ma da esse ho potuto rilevare che la città nostra, quieta e tranquilla continuò a vivere sotto i granduchi di casa Medici, contenta delle sue piccole industrie e del suo limitato commercio; come chi non prova la necessità di far più ricchi guadagni, quando con quello di cui può disporre, a tutti i suoi bisogni facilmente provvede. Poiché sebbene la dinastia medicea lasciasse lo stato con debiti molto maggiori di quando lo tolse dalle mani della repubblica, non si può tuttavia negare che non abbia riempito la Toscana di religiosi e civili monumenti, di magnificenze, di utili e filantropiche istituzioni, lasciando nello stesso tempo ai sudditi la soddisfazione di godersi in pace quello che avevano. Altrettanto può dirsi dei Lorenesi, e con maggior ragione, giacché essi furono in generale sovrani e padri dei loro popoli. Esagerate però sono le lodi, ed anco false, che comunemente al [040] granduca Leopoldo I si danno dai suoi partigiani. Quelle che egli merita sono per le riforme amministrative. «Leopoldo I, dice il Cantù, nella Storia degl'Italiani, è levato a cielo da coloro che badano ai detti anziché ai fatti, e della storia fanno una satira o un'illusione. Egli poté senza ostacoli fare o disfare, urtar gl'interessi e le opinioni, esser despoto filosofo senza tampoco l'originalità, poiché imitava il fratello Giuseppe in campo più angusto e con viste più ristrette. Colla mitezza delle leggi attirò nel suo paese la feccia del vicinato. Scostumava il potere colla doppiezza». Gelosissimo com'era che altri menomamente s'ingerisse nelle cose del suo governo, egli, secondo l'uso di chi ha la forza, e in essa fa consistere il diritto, faceva ogni sua voglia in materia ecclesiastica, di buon accordo col giansenista cortigiano Scipione Ricci vescovo di Pistoia. Da vero principe sagrestano, sino a far le tariffe si abbassava per le funzioni ecclesiastiche e per le monacazioni. Proibì le festicciuole innocenti, che a volte il popolo soleva fare alla Madonna, o in una casa, o sur una pubblica via, come pire di tener coperte le sacre immagini nelle chiese, di far certi accatti, ed altre simili minuzie, non troppo degne di gran principe folosofo, qual'ei si credeva di essere. Nella manìa del sopprimere e del rinnovare, senza preoccuparsi del pubblico danno, tolse pure le confraternite [041] della Misericordia, e, a S. Miniato, anche l'Opera benemerita del SS. Crocifisso. Ma poiché la storia dv'essere imparziale, è da lodare questo granduca, tra le altre utili cose che fece, per avere ordinato igienicamente, nel 1782, si aprissero i cimiteri lungi dall'abitato. Il comune di S. Miniato chiese la soppressione delle compagnie dell'Assunta e di S. Lodovico, uffizianti sotto S. Francesco; di S. Pietro Martire, sotto S. Domenico, e dell'Annunziata a Crocetta, per avere in parte, coi loro possessi, i mezzi di fare il nuovo cimitero. L'anno seguente, salvi gli obblighi, esse furon soppresse, e a camposanto destinarono l'area della soppressa pieve di S. Martino. Ma poiché troppo era vicino il luogo alla città, e ricco di polle, sul più lontano colle di Volpaia lo aprirono, e cominciò ad essere adoperato nel 1787. L'anno 1877 esso fu ingrandito; e il santo e dotto vescovo coadiutore Mons. Del Corona, che i samminiatesi non superbi di possedere, lo benediva. La nostra città deve anche a Leopoldo I l'erezione del suo bell'ospedale. – Venne poi in Toscana la prepotente invasione francese a cacciar l'amatissimo Ferdinando III, a gettar questo giardino d'Italia nell'anarchia, a compiere sue degne opere. Ai 29 giugno 1797, il general Buonaparte, in compagnia di cinque ufficiali, a S. Miniato saliva, a riveder la casa dov'era stato fanciullo, a visitar lo zio [042] canonico Filippo, a tenervi consiglio di guerra. Tutto questo è ricordato da un'iscrizione che ci puoi leggere (11) [VAI ALLE NOTE ↗]. Due anni dopo, ai quattro d'aprile, alcuni fanatici repubblicani francesi, uniti ai loro seguaci, a gran rumore si levarono, in nome di tutti gli altri cittadini che non si mossero, come sempre suole avvenire, e assalita la statua della benefattrice di San Miniato, Maria Maddalena, l'atterrarono, la insultarono, la ruppero fra le imprecazioni di gente vile ed ingrata. E sulla base di essa inalzarono l'albero della solita libertà, mentre con alcuni ampollosi discorsi proclamavano la repubblica. Poi quegli eroi spezzarono e distrussero gli scudi gentilizi antichi e pregevoli dei vicari imperiali e granducali, e, tolto dall'archivio comunale l'antico libro d'oro, dov'erano gli stemmi delle famiglie nobili samminiatesi colle loro genealogie, in mezzo ad un baccano orribile lo strapparono e lo bruciarono (12) [VAI ALLE NOTE ↗]. Fra tante innovazioni di ogni genere, anche i nomi delle piazze vennero mutati; e quella del Seminario di chiamò Piazza Nazionale; quella di S. Domenico, della Rigenerazione; quella Grifoni, della Libertà; quella di S. Sebastiano, della Eguaglianza, e poi Piazza Napoleone; quella di S. Agostino ebbe nome Piazza dello Spedale. Troppo lunga cosa sarebbe far parola dei tristissimi avvenimento di questo tempo: delle reazioni, dei processi, [043] degli esìli, delle vendette, dei saccheggi, delle confische di beni, dei ferimenti e delle uccisioni, che col trionfar dei contrari partiti, dopo le sconfitte o le vittorie dei francesi, accadevano, sino al fermo e stabile dominio Napoleonico, interrotto per soli sei anni in Toscana con l'effimero regno d'Etruria (1801-1807). S. Miniato pure ebbe soppressioni e spogliazioni di chiese e conventi; e i non molti capi d'arte, che vi erano, per altri lidi presero il volo, come per tutto altrove; poiché l'esperienza ai nostri avi insegnò, come ha insegnato oggi a noi, che i più chiari apostoli della libertà sulle questioni del mio e del tuo facilmente prendono abbaglio, e cadono nella debolezza di far propria la roba degli altri. – Vinto Napoleone, Ferdinando III acclamatissimo, ai 17 settembre 1814, ritornava in Toscana, e poneva mano animoso alle opere di restaurazione. Ma i giorni del dolore non erano ancor finiti; poiché nei tre anni successivi, la scarsità delle raccolte e la mancanza di commercio, dopo tante vicende e tanto disordine d'amministrazioni, di una penosa e lunga carestia furon cagione, la quale, per le sofferenze del povero popolo, dal tifo petecchiale fu seguita. Fece quanto poté il buon Ferdinando a fine di procurar lavoro e pane alle popolazioni afflitte; ma molta fu la mortalità e l'emigrazione, e al termine del triennio la Toscana aveva ventiseimila abitanti di [044] meno! – «Leopoldo II, prosegue Cantù, succedutogli nel 1824 con pari bontà, favoriva quel vivere amichevole, quella cittadinanza riposata, che della Toscana faceva un'Arcadia. Intanto le belle arti, la gentilezza, il clima, la favella continuavano ad attirarvi i forestieri; studiosi dell'università di Pisa, cui s'inviavano professori d'ogni paese; capitali il ferro dell'Elba, l'acido borico dei lagoni, e la libertà di commercio; si estesero le scuole normali, di mutuo insegnamento, di sordimuti; presto s'introdussero asili infantili, casse di risparmio...». E S. Miniato ebbe la sua nel 1830, affiliata a quella di Firenze. Otto anni dopo Leopoldo concedevagli il Tribunale civile e correzionale, e poi la Sotto-Prefettura. Per dimostrargli la loro gratitudine, i samminiatesi, nei giorni 6 e 7 Agosto 1843, dinanzi al Tribunale medesimo, in mezzo a feste solenni e lietissime, cui tutti presero parte, scoprirono la sua statua, da Luigi Pampaloni egregiamente scolpita, e il prof. Bagnoli, vecchio maestro di quel granduca, pronunziando un magnifico discorso di circostanza, suscitava gli applausi di quella moltitudine riconoscente e commossa. A quella piazza fu dato il nome di Leopolda, cassato malamente dopo il 1859 per darle quello di Buonaparte, poiché i benefizi ricevuti e la gratitudine non si rinnegano mai. – L'orribile terremoto, che, il 14 agosto 1846, gran parte della Toscana [045] desolava anche a S. Miniato produsse danni, e fece ruinare con gran fracasso dalla cima della rocca uno dei quattro grandi pilastri, che prima sostenevano il terrazzo d'osservazione. Poscia, al periodo di pace e di prosperità, passato dai toscani fino a quest'epoca, sotto Leopoldo II, successero le utili riforme, da Pio IX iniziate, le feste, i tripudi, le speranze della indipendenza d'Italia dallo straniero, da tutti bramata, cui troppo presto sventuratamente tennero dietro diffidenze, errori, agitazioni, tumulti ed anarchia, per opera degli ambiziosi rivoluzionari di professione, che, oltre a far precipitare ogni cosa, dettero occasione a nuova e odiosa invasione straniera. – Intanto a S. Miniato si eseguivano utili opere pubbliche. Si faceva la scala a due branche, che, rimpetto al municipio, alla chiesa del Crocifisso conduce, ornata dipoi da due angeli, modellati dal Pampaloni, dalla statua del Redentore risorto, di Francesco Baratta, già stata fino al 1796 sul maggiore altare della chiesa di S. Francesco, e ultimamente dalle altre dei santi Pietro e Paolo. Spianarono del 1847 la scoscesa piazza del Domo, e poi, partendosi da quella del Fondo, aprirono intorno all'antico castello una bella passeggiata pubblica con ampio piazzale e loggiato per la fiera del bestiame, adorna di piante, di sedili e di giardinetti, d'onde con piacere si gode la stupenda veduta della valle dell'Arno. [046] Ai 20 giugno dell'anno stesso, la prima via ferrata in Toscana, già finita tra Livorno e Pisa nel 1844, era giunta da Pontedera ad Empoli, e moltissimi samminiatesi scesero a vederne l'inaugurazione ed a prendervi parte, dopo che il loro vescovo Torello Pierazzi l'ebbe in forma solenne benedetta. – Nel 1850 il generale De Lauger avendo scelto S. Miniato come luogo atto alle esercitazioni militari, vi mandò il battaglione dei soldati novelli, che giornalmente ricevevano l'istruzione sul piazzale da poco finito. Essi dimoravano nel soppresso monastero della SS. Annunziata, con grande dispendio ridotto a caserma, e soli due anni vi stettero. – Siam giunti al tempo di dover parlare nuovamente di pubbliche sventure, cioè di quella malattia terribile e misteriosa, che tanto umilia la superba scienza umana, perché la cagione e il rimedio ne ignora. Nel luglio del 1854 due bastimenti, da Marsiglia venuti, portarono al solito il colera a Livorno, che nel resto della Toscana si diffuse in questo e nell'anno successivo. Se S. Miniato aveva sempre avuto la fortuna di esserne immune, il primo luglio 1855 lo vide con orrore appressarsi, prender possesso, e per quasi due mesi seminar lo spavento, la desolazione e la morte. Fu ridotta a spedale dei poveri colerosi parte del convento di S. Francesco; e a fine di ottener presto la cessazione del fatal morbo, ricorsero con fiducia alla taumaturgica immagine del SS. Crocifisso [047], che fu poi anche scoperto e alla pubblica venerazione esposto. Nel comune ci furono 380 casi con 156 morti, 99 dei quali in città. Col colera se ne andarono dalla Toscana anche gli austriaci, dopo di averla occupata sei anni, ed esser costati all'erario un venti milioni di lire; ambedue le partenze furono benedette.
Nell'estate del 1857, quel pontefice della Immacolata, che di tutti più lungamente si assise alla cattedra non fallibil di Pietro:

«Segno d'immensa invidia
E di pietà profonda,
D'inestinguibil odio
E d'indomato amor, »

avendo fatto un trionfal viaggio nei suoi stati, consentì di venire, invitato, a far liete di sua presenza le principali città toscane. Ciò saputo i samminiatesi, dalla bontà di lui ottennero che, quando da Firenze sarebbe andato a Livorno, alla loro stazione avrebbe fatto breve sosta per ricevere i loro ossequi e dar loro l'apostolica benedizione. La mattina infatti del 24 agosto, gli abitanti della città con a capo il vescovo, il clero e le autorità civili, uniti ai popoli dei circostanti paesi, facevano smisurata corona ad uno splendido arco trionfale, che proteggeva un magnifico trono, sul quale si assise quel Pio, che tanto aveva fatto di sé parlare, e contro il quale i sicari della penna avevano scagliate [048] tante menzogne e calunnie, non giunte mai ad offendere l'intemerata sua fama di grande pontefice e di sincero amatore del vero bene d'Italia. I fragorosi applausi, le grida liete e giulive di oltre quindici mila persone esultanti e commosse salivano alle stelle. Pio, commosso pur egli della manifestazione di tanta fede ed amore, maestoso si alzò, paternamente guardò la moltitudine di quei cari figliuoli, fissò lo sguardo sopra S. Miniato, levò le mani e gli occhi al cielo, e in nome di colui, ch'egli rappresentava in terra, tutti affettuosamente li benedì. Eran presenti Leopoldo II e la sua corte, che rispettosamente l'accompagnavano. – Ad altre due opere di pubblica utilità si pose mano nell'anno seguente. Si abbatterono alquante case sulla via S. Andrea, sotto il convento di S. Francesco, perché troppo angusto e meschino rendevano l'ingresso in città da quella parte, e fecesi strada ampia e comoda, che al presente si vede. La cattedrale poi, che, fin dal 1766, nella sua navata di mezzo minacciava rovina, e in tre anno il vescovo Domenico Poltri l'aveva restaurata, riducendo a grossi pilastri le vecchie colonne, e nuovi archi poggiandovi sotto quelli gotici, col mal gusto del secolo, era riuscita pesante e deforme. Onde il benemerito proposto Giuseppe Conti, appassionatissimo amante del decoro della sua città natale, messosi a capo di una commissione, che molti danari colla sua [049] operosità raccolse, affido il rinnovamento interno della medesima al bravo architetto Pietro Bernardini, che in quattro anni compì (1858-1861), ornata e bella rendendola quale ora si ammira, e spirante l'allegrezza di Dio, come ha scritto l'amico suo Augusto Conti. Il 26 dicembre 1851 con soddisfazione generale venne riaperta solennemente al culto. Il buon proposto preparavasi già alla facciata, ma gli mancò la vita.
Allorché, nel 1849, Leopoldo II dalla Toscna si allontanava, anche a S. Miniato inalzarono un'altra volta l'albero, detto della libertà, che fiori belli e frutti buoni non ha mai prodotto. I disordini e l'anarchia, che seguirono, suscitarono, come suole avvenire, la reazione, e con grandi dimostrazioni di gioia se ne festeggiò il ritorno. Disgraziatamente però questo granduca non continuò quella saggia politica per la quale, come ha scritto il Cantù, l'Austria non poteva pretendere sulla Toscana che una specie di supremazia parentale, mentre nel governo non ne aveva alcuna; ed anziché odiare questa dinastìa come tedesca, gl'italiani le sapevano grado della tolleranza e dolcezza. L'occupazione austriaca mai non gli venne perdonata, e fu per avventura la cagione della sua rovina. Però la seconda sua fuga del 27 aprile 1859 non ebbe ritorno; e i popoli questa volta si unirono ad ottenere efficacemente l'indipendenza d'Italia, e l'ottennero. S. Miniato vi prese parte [050] con gioia, e al pari di tutti gli abitanti della cara ed amata penisola, coll'entusiasmo di chi risorge a vita novella, gran festa ne fecero. Ma si ricordi al presente chi deve, che quando i popoli hanno riscontrato fallaci le tante promesse di privata e pubblica prosperità; quando colla miseria si trovano alle prese, e per colmo di sventura si son fatte lor perdere la moralità e la fede; allora a lungo non si governa nemmeno colla forza, e sulla via maestra, che al precipizio conduce, fatalmente si cammina. – Ai 29 maggio 1860 la storia di S. Miniato ebbe a registrare una delle più dolorose sue perdite, poiché moriva a Firenze di 68 anni il professor senatore Giovacchino Taddei, chimico sommo e vera sua gloria. Funerali solenni gli vennero fatti in Duomo dal municipio, e il proposto Conti vi leggeva una delle sue più belle funabri orazioni. I samminiatesi, che, in occasione delle autunnali vacanze, eran lieti di rivederlo ogni anno fra loro, ottennero di potergli dare in cattedrale la sepoltura, dove, con pompa mesta e solenne, dal cimitero di S. Miniato al Monte fi trasferito l'undici agosto dell'anno medesimo. Dopo soli cinque anni scendeva pur nella tomba, a lui difaccia, il proposto suo amico, ben degno anch'egli di aspettar la risurrezione in quel tempio, del quale più che restauratore può chiamarsi autore. – Di due lieti avvenimenti or conviene far parola. Col lodevole [051] scopo di dare incoraggiamento ed impulso all'agricoltura e al commercio, essendo sindaco di S. Miniato il nobil uomo conte Giacinto Catanti, ci venne opportunamente aperto, nel novembre del 1885, un concorso internazionale di macchine distillatrici, con esposizione agraria e fiera di animali. Erano stati vagamente preparati e addobbati i locali; e i molti che vi presero parte, concorrendo ai proposti premi, fecero colle autorità cittadine, quanto meglio poterono perché fosse di general soddisfazione la molteplice e veramente bella esposizione. Le distillatrici erano ben disposte ed agivano nell'aperto chiostro dei domenicani; la ricca esposizione agraria, che ogni genere di eccellenti prodotti naturalmente comprendeva, con attrezzi rurali e macchine relative, occupava in bell'ordine le sale annesse e le sottostanti scuole femminili; la numerosa fiera di animali nel vasto piazzale si stendeva. Furonvi concorsi di corpi musicali, feste variate, vaghe illuminazioni, visitatori senza numero. Intervennero il prefetto di Firenze, il segretario del ministro di agricoltura e commercio conte Guicciardini, e lo stesso ministro Grimaldi, con onori e plausi lietamente accolti e ricevuti. Fu in somma cosa riuscitissima, come oggi suol dirsi, e di utilità generale. – Dopo due anni S. M. il re Umberto, recandosi il 18 luglio per l'esercitazioni navali a Livorno, si fermò, pregato, pochi minuti alla [052] stazione della città nostra, dov'era accorsa, colle autorità locali, numerosissima da tutte le parti la popolazione a festeggiarlo ed acclamarto. Non iscese egli dal treno reale, ma, mostratosi al popolo plaudente, ebbe parole benevole pel sindaco Catanti, che l'incarico pur riceveva di ringraziare i samminiatesi delle accoglienze lietissime.
Prima di por termine a questo sunto, giova dare cenno sull'istruzione. L'anno 1427 l'Opera del SS. Crocifisso, che a tutte le cose utili prendeva parte, elesse un cappellano pel suo oratorio, coll'obbligo di fare scuola ai figli del popolo, a tal fine assegnandogli, ogni anno, cinquanta fiorini d'oro. Al cappellano maestro dette poi un aiuto. Quindici anni dopo, Miniato Spagliagrani, curato di S. Jacopo e Filippo a Pancole, fondava in quella chiesa la cappellania di S. Niccolò di Bari, coll'onere al cappellano d'insegnar gratuitamente grammatica ai giovani del paese. In quella chiesa si solennizzava ogni anno la festa del santo, cui andavano col maestro processionalmente gli scolari, e offrivano un dono in cera. Interveniva il capitolo; e poi uno scolaro l'elogio funebre recitava dello Spagliagrani. Nel 1710, il magistrato, in lode di lui poneva in Duomo un'iscrizione, e nella sala del consiglio il suo busto in marmo. – Melchiorre Ruffelli, morto nel 1527, lasciò al comune il suo patrimonio, perché, dopo altri pii legati, [053] pagasse un maestro di musica pei chierici, a povere fanciulle desse due doti, e, per sette anni, quattro o cinque buoni giovani a qualche pubblico studio d'Italia mantenesse, finché non si addottorassero in gius civile o canonico, ovvero nelle scienze fisiche. I giovani, in tal modo beneficiati, l'uffizio della Madonna dovevan dire, e far celebrare ogni anno alcune Messe in suffragio del testatore. Se gli studenti la laurea non conseguivano, le loro famiglie i danari ricevuti dovevano restituire. Ogni anno in Duomo se ne faceva il funerale, cui fino al 1860 assisté il municipio, e uno degli studenti ne recitava l'elogio. La qual cosa nella stessa cattedrale pur si faceva per lo Spagliagrani, soppressa la chiesa di Pancole. Accanto al busto di lui venne quindi collocato quello del Ruffelli. Giuseppe Marrucci in fine a benefizio degli studiosi lasciava il suo, fondando due posti per l'università. Ei moriva nel 1849, e in suo onore il municipio scolpiva in palazzo una memoria. – Per l'educazione ed istruzione delle fanciulle si apriva nel secolo XVI il monastero di S. Trinita; e col medesimo scopo Pietro Leopoldo, nel 1785, trasformava quello di S. Chiara in Conservatorio, colle scuole esterne per le bambine del popolo. Queste ultime scuole poi vennero cedute al comune, che dette loro maggiore sviluppo. – Nel 1818 il comune acquistava il soppresso monastero di S. Trinita [054] coll'intendimento di aprirvi pubbliche scuole e di affidarle agli scolopi. Ma intervenne il granduca Ferdinando III, ed ebbero vita invece le cosi dette Scuole Regie, dal governo pagate, le quali un corso di studi comprendevano, che dalle classi elementari giungeva alla filosofia e alle matematiche, onde poi alla università si passava. Colle successive riforme, per le quali il comune adoperò anche le rendite dei lasciti antichi, nello stesso locale si aprì il ginnasio ed un liceo, che, nel 1856, pel diminuito numero degli scolari, al solo ginnasio furon ridotti. Presentemente come cosa di maggiore utilità pratica al paese, al ginnasio venne unita la scuola tecnica. In questo liceo insegnarono: il Genovesi, il Gattai, il Santi Neri, Giosué Carducci, Pietro Dazzi, Flaminio del Seppia e Augusto Conti, il quale con Vincenzo e Antonio Salvagnoli, Giuseppe Mantellini e Giovacchino Taddei, n'era stato alunno. Sempre mantiene però il comune alcuni giovani agli studi universitari, e in mancanza di essi concede sussidi agli studenti. Oltre alle scuole elementari, vi ha pure un numeroso asilo infantile, aperto dalle monache di S. Paolo nel 1890, e, due anni dopo, un altro ne apriva il municipio. – S. Miniato ebbe anche le sue accademie di scienze e lettere. Nel 1644, per opera specialmente del vescovo Alessandro Strozzi, si fondò quella degli Affidati, sotto la protezione di Cosimo II. Nel [055] palazzo vescovile , e i cittadini più egregi vi appartenevano. Portava il motto: Alla dolce ombra degli affidati. Dipoi venne quella dei Rinati, il cui stemma vedesi ora nell'ingresso del palazzo comunale col motto: Sol oritur sed non moritur. Anche questa cessata, nel 1822 sorse l'altra degli Euteleti, che i migliori lavori dei soci dava alle stampe. Le imprese degli accademici eran dipinte nella sala del comune. Gli atti nella libreria del seminario si conservano, dove si tenevano le consuete adunanze. Ma meglio delle scuole e delle accademie dimostra ad evidenza la cultura di S. Miniato quella serie di uomini illustri, che, dal secolo dodicesimo ai tempi nostri, in ogni ramo di scienza si distinsero, di molti dei quali assai diffusamente fa parola, nelle sue Memorie Storiche, il prof. Rondoni. Essi, senza parlar dei viventi, da Pietro Comestore o Mangiadori, che la Storia sacra ridusse in sistema scolastico, come dice il prof. Augusto Conti, e prima di S. Bonaventura e di S. Tommaso sedeva sulla cattedra della università di Parigi, della quale pur anco fu cancelliere (sec. XII), fino al benemerito proposto Giuseppe Conti, grande onore apportarono al luogo nativo, e qui, con qualche notizia, almeno l'elenco ne riporteremo (13) [VAI ALLE NOTE ↗].
Oltre poi alle istituzioni già nominate, trovasi a S. Miniato: una pubblica Biblioteca, una Società di [056] mutuo soccorso tra gli operai, fondata nel 1863; una Banca mutua popolare, succursale a quella di Firenze, aperta nel 1866, la quale è assai utile al commercio; una Società promotrice di buone opere, cui quasi tutte le signore appartengono, che, dal 1878, con elargizione, tombole, fiere di beneficenza, viene caritatevolmente in soccorso delle famiglie povere; una Società degli asili infantili; una Squadra di pubblica assistenza; un Comitato della croce rossa; una Società dei reduci dalle patrie battaglie; un Comizio agrario; una Società filarmonica; un Circolo ricreativo samminiatese; la Pretura; la Delegazione; il R. Subeconomo dei benefizi vacanti; l'Ufficio del registro e quello del telegrafo. La sua mite e pacifica popolazione infine, dentro i limiti della città, ascende a tremila persone.

Il Convento di San Francesco
Foto di Francesco Fiumalbi

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