SUNTO
STORICO
DELLA
CITTA' DI SAN MINIATO
[013]
Sta S. Miniato fra l'Elsa e l'Evola in ameno e assai elevato colle, a
ugual distanza da Pisa e Firenze. Tra levante e ponente le s'apre
dinanzi, ricco di bella vegetazione, in Val di Nievole e dell'Arno
inferiore, un orizzonte incantevole, sparso di paesi, castelli e
ville «che il mostro dagli occhi di fuoco, personificazione dei
moderni progressi, impetuoso, fischiante, continuamente percorre».
Tu vedi di lassù Montelupo e Capraia, Vinci ove nacque il gran
Leonardo, il paese del Giusti, Montecatini, Borgo a Buggiano e
Pescia. A te più vicino: Empoli distintamente, Cerreto Guidi, in cui
per crudel modo perì Isabella Orsini, Fucecchio, S. Croce,
Castelfranco, S. Maria a Monte, S. Romano e il castello dove vide la
luce l'insigne pittore Lodovico Cardi. A mezzogiorno poi, tra altri
villaggi e castelli non pochi, vedi sorger lontana l'etrusca
Volterra. [014] Semenzaio d'uomini
illustri, chiamò il Repetti S. Miniato; e Augusto Conti: Luogo
destinato a germogliare ingegni, singolarmente adatto ad istituti
d'istruzione. Fu cuna della famiglia del più gran capitano dei tempi
nostri, di cui fin dal secolo XIII si ha memoria, e di quella onde
nacque quel miracolo di santità operosa, che ebbe nome Carlo
Borromeo.
Intorno
alla sua origine nulla si può asserir con certezza. Havvi una
tradizione che dice esserci stato, nell'età romana, un villaggio,
chiamato Quarto, con tempio dedicato al dio Pane, dipoi convertito in
chiesa cristiana, in luogo detto Pancole, cioè dove Pane ebbe
adorazione. Raccolse questa tradizione il vescovo di S. Miniato
Francesco Poggi e, restaurando quella Chiesa, posevi, come vedremo,
un'iscrizione. Il fatto meno controverso, al dire del Repetti, si è
che, nel secolo VIII, dove ora sorge il tempio di S. Francesco, i
vinti e dispersi longobardi, uniti per avventura ai lucchesi,
erigessero una chiesa in onore del martire S. Miniato, assai venerato
in quei tempi, cui il vescovo di Lucca Balsari prepose un tal prete
Naudolfo. Presto aumentò intorno ad essa il numero delle abitazioni;
e pare che il villaggio fosse di giurisdizione ecclesiastica, poiché
doveva pagare un annuo tributo alla mensa vescovile di Lucca. Sebbene
alcuni cronisti lo dicano munita assai prima, e il Repetti parli del
castello di [015] S. Miniato del secolo
IX, di cui era signore il nobile lucchese Odalberto; sembra ad altri
più probabile che l'imperatore Ottone I, venuto in Italia, si
fermasse poi su questo colle, di non facile accesso, d'aria
eccellente, di posizione opportuna, e di mura ne cingesse le
abitazioni, molto utile stimando possedere nel bel mezzo della
Toscana un luogo fortificato, a sede di un so rappresentante, che del
continuo alta ne tenesse l'autorità, e gl'interessi ne difendesse.
Posevi egli in fatti nel 962 un tale Arnolfo, capo delle milizie,
giudice ed esattore imperiale, con giurisdizione in Toscana,
lasciando a S. Miniato una certa libertà per affezionarsene gli
abitanti; onde il luogo fu detto Al tedesco, cioè castello
del vicario o del giudice tedesco. Di qui nasce, dice il Rondoni, che
i toscani d'allora riguardassero questo paese, già mezzo longobardo
d'origine, come fantasma minaccioso dell'impero, che dall'alto di
quei colli li vigili, e di qui ancora il sorgere in esso delle
tendenze ghibelline, quando si resse a libero comune.
Alla
distanza di curca due chilometri da S. Miniato, nella direzione
d'Empoli, esisteva, forse nel secolo VI, una chiesa, dedicata al
martire S. Genesio, che ha le reliquie a Lucca, le cui circostanti
abitazioni, assai cresciute di numero, trovansi indicate col nome
longobardo di Vico Wallari. Essa fu la prima pievania e poi [016]
propositura; molti pontefici di privilegi l'arricchirono, e più di
tutti Alessandro II, già vescovo di Lucca. Nella chiesa di questo
borgo, che pur venne fortificato, e dalla quale altre trentadue
dipendevano, comprese quelle di S. Miniato, si tennero diete,
congressi, concili. Là fu il trattato, dice il prof. Augusto Conti,
della prima lega guelfa, e s'adunò il Concilio in difesa di S.
Anselmo vescovo di Lucca, sostenitore di Gregorio VII contro Enrico
nella contesa delle investiture, e perseguitato dai suoi canonici,
fierissimi ghibellini. Il che rilevasi eziandio da una iscrizione
latina, dettata dall'illustre sanminiatese mons. Pietro Bagnoli, che
or si legge in una cappella, dal vescovo Pierazzi riedificata, dove
fu la celebre propositura di S. Genesio. (1) [VAI ALLE NOTE ↗]
Celestino III, nel dodicesimo secolo, dirigeva al suo proposto,
suddiacono apostolico, una bolla in cui lo encomia della vita comune,
che co' suoi preti menava, secondo i canoni, e conferma le donazioni
fatte loro dai longobardi di S. Miniato.
L'anno
996 i samminiatesi furono rallegrati dalla presenza del pontefice
Gregorio V; poiché essendo egli in viaggio per la Germania, volle
fermarsi nel loro castello, dove ricevé gli omaggi sinceri di quei
buoni abitanti. Ma non sembra che essi si possano pur gloriare di
aver visto nascere la celebre contessa Matilde, sebbene essa, per le
discordie dei tempi, spiegasse poi [017]
anche su di loro la sua autorità, mentre quella dei vicari era
talvolta avversata a cagione delle loro prepotenza. Nel 1061 in
fatti, essendosi il popolo sollevato per oppressione di tasse, uccise
il vicario Gualberto, ed Enrico IV condannò i samminiatesi a pagare
quindicimila soldi d'oro. Cresciuta la violenza da una parte, e
l'amore di libertà dall'altra, i più avversi al dominio tedesco
abbandonarono, dieci anni dopo, il castello, e scesero ad abitare
Vico Wallari, che andava sempre più prosperando. Però a meglio
consolidarvi l'autorità imperiale, due volte fu a S. Miniato
Federigo I, detto Barbarossa, dimorando nel palazzo del suo vicario,
e compiendovi vari atti di governo. I suoi partigiani ne andavan
superbi, e di tanta benevolenza molto si tenevano onorati. Custodiva
egli gelosamente quel feudo, e nel 1172 vi mandava Cristiano
arcivescovo di Magonza, suo cancelliere, a pacificare le città della
provincia. Ma costui, da fiero tedesco, suscitò maggior discordia;
poiché avendo imprigionato i legati pisani e fiorentini, si venne
alle armi: S. Miniato cadde in potere dei lucchesi e i suoi abitanti
si unirono allora con Firenze e Pisa per ricuperare il castello.
Anche Enrico VI, morto il Barbarossa, fu a S. Miniato: confermò le
concessioni del padre, richiamo alcuni esiliati e procurò di metter
pace a pro suo tra guelfi e ghibellini. Ma le discordie in breve,
maggiormente crebbero [018], e i guelfi
prevalsero. E pieni di quell'ardore di libertà operosa, che
ravvivava i comuni, come ha scritto il Rondoni, cresciuti di numero,
sdegnando forse di star più chiusi tra le mura di un castello,
abbandonate e ruinate le proprie case, scesero di nuovo ad abitare,
parte a San Genesio e parte a Santa Gonda (Catena), credendosi quivi
fare una grande città, come dice Giovanni Villani. Ma l'antica
invidia ed avversione contro Vico Wallari nell'animo dei samminiatesi
più fortemente si accesero, riflettendo di averlo coll'opera loro
ingrandito ed arricchito, e vedendosi poi da loro non curati, od anco
disprezzati. Il perché, dopo non molto tempo, devastata quella terra
ospitale, risalirono sdegnosi al poggio, dove più grande rifecero il
loro castello, commettendo così, prosegue il Villani, due manifeste
follie (1200). – Quando, sotto gli auspici del papa, si giurava la
lega guelfa, cui anche i samminiatesi presero parte. E nelle
assemblee di San Genesio e di Castelfiorentino, i due consoli di San
Miniato, fra le altre autorità di nessun sovrano senza l'ordine
della chiesa romana. Vennero di poi a S. Miniato e lo favorirono, lo
svevo Filippo e Ottone IV, e le divisioni più che mai aumentarono;
perché alquante nobili famiglie pel primo parteggiarono, ed altre
per secondo. – Eran questi i tempi di S. Francesco d'Assisi; tempi
[019] infelici di odi e di devastazioni,
nei quali egli dall'universale era desiderato e benedetto qual messo
di Dio. Trovandosi il santo, nel 1211, presso il nostro castello, i
più autorevoli gli si fecero incontro fino alla Catena, e su lo
accompagnarono con grande onore. Ebbe egli per loro parole di pace e
di santa amicizia, e in dono ne ricevé la chiesetta dedicata al
titolare del paese con una casa, su cui sorsero dipoi la chiesa e il
convento che tuttavia ammirano. – Diveniva intanto imperatore
Federigo II, il quale, per cattivarsi l'animo dei samminiatesi e
raffermare sopra di loro la propria autorità, donava loro, nel 1216,
il borgo di S. Genesio, che il Villani dice molto ricco e bene
abitato, con tutte le sue pertinenze e ragioni, ordinando che la
strada maestra tra Pisa e Firenze passasse pel nostro castello.
Quest'atto di donazione fu sentenza di morte per quel borgo; e
avrebbe potuto invece dar principio alla vera prosperità e grandezza
di S. Miniato, se pace e concordia fossero state possibile in quei
disgraziati tempi. Altri villaggi e castelli si sottomisero, i cui
capi vennero a giurar fedeltà nella chiesa di S. Maria, già pieve
del luogo, accrescendo così l'importanza del nostro castello, che a
comune si reggeva sotto la protezione imperiale. Dieci anni dopo lo
stesso imperatore, con numeroso corteggio di principi e vescovi, vi
si portava, bene accolto e festeggiato, ed ivi [020]
pubblicava un privilegio per la badia di Fucecchio. Concedeva quindi
al nostro comune la terza parte delle alluvioni dell'Arno nel
territorio samminiatese; ordinava vi risiedesse stabilmente il
giudice degli appelli per la Toscana tutta; faceva circondare a guisa
di fortezza, sulla cima del poggio, la chiesa di S. Michele, sopra
edificandovi l'eccelsa rocca, d'onde tu puoi vedere mezza la Toscana.
Sopra i grossi suoi pilastri, che sempre in cima esistono, sorgevano
archi gotici, i quali sostenevano un piano merlato. – Ma qui ad
esempio di ciò che sovente fossero di prepotente e d'avaro i vicari
imperiali, che pur si trovavano indicati col nome di castellani,
ricorderemo un tal Gerardo d'Arnestein, il quale, nel 1228,
condannava gli abitanti di Montepulciano a pagare una multa di mille
marchi d'argento perché non avevano ai suoi ordini ubbidito; e
l'anno seguente ei fu scomunicato da Gregorio IX, come derubatore dei
pellegrini che andavano a Roma. – Era cresciuta in vero la potenza
di S. Miniato; ma insieme con essa erano pure sventuratamente
aumentate le discordie e gli odi feroci. Però, a sfogo del loro
vecchio rancore, non sappiamo bene qual ne fosse la ragione o il
pretesto, nel 1248, i samminiatesi assalirono e distrussero il già
infiacchito borgo di S. Genesio, più volte da loro abitato, meglio
ingrandendo poi e fortificato il proprio castello. L'antica [021]
e insigne propositura di quel borgo venne a San Miniato trasferita
con la dipendenza di tutte le altre parrocchie, e la sua chiesa
maggiore ebbe il titolo in avvenire di S. Maria e Genesio. – Nella
fortunosa sua vita, Federigo II caro si tenne il feudo di S. Miniato,
che sembra gli restasse fedele. Ei pur lo teneva come fortezza di
stato, e parecchi prigionieri vi relegò, che miseramente ci finiron
la vita. Tra questi fu il celebre suo ministro Pier della Vigna,
caduto in disgrazia, intorno al quale tanto si è scritto. E sebbene
la morte sua sia stata chiamata un mistero storico, è certo però
ch'ei ci fu condotto carico di catene, e nel marzo del 1249 vi fu
acciecato. Onde molto egli temendo di essere ai suoi nemici
consegnato, preso da disperazione, nella prigione di quella rocca si
uccise, fracassandosi il capo contro le muraglie. Tutto considerato,
sembra questo il più vero racconto della miseranda sua fine. (2)
[VAI ALLE NOTE ↗] Altri han scritto che, al tempo della sventura di
Pier della Vigna, l'imperator Federigo, infido e prepotente com'era,
sospettò della fedeltà dei samminiatesi, e ne prese, a tradimento,
crudele vendetta, ordinando molte uccisioni. A ciò allude anche
un'iscrizione latina, scritta da Giovan Persio Migliorati, che si
legge nella chiesa del Crocifisso, ed è dal Rondoni riportata. –
Morto Federigo II, i guelfi ripresero animo; e il nostro castello
che, seguendo la politica del tornaconto, preferiva di star [022]
coi più forti a Firenze s'unì; ebbe parte alla prospera sua
fortuna, e intervenne alla battaglia di Montaperti. Poi parteggiò
per Manfredi, che dettegli i beni dei banditi e dei ribelli,
l'esenzione da ogni pedaggio, e la conferma dei privilegi da Federigo
avuti. Restando fedele all'impero, incorse nella scomunica e
nell'interdetto, coi quali Clemente IV aveva colpito i fautori di
Corradino. Per uscire da questi guai, e facendo di necessità virtù,
con preghiera si accostò a Carlo d'Angiò, il quale, nel 1272, a
pace giurata lo riceveva a Fucecchio per mezzo del suo vicario.
Quindi ne prendeva possesso, e qualche anno lo riteneva, con promessa
di difenderlo e di conservarvi liberamente il distretto. Venne
intanto il 1281 e, coronato imperator d'Alemagna Rodolfo d'Asburgo,
il nostro castello di nuovo abbracciava il partito imperiale e ne
riceve il vicario. A questo pochi altri successero; e l'ultimo di
loro fu Giovanni di Celoria (Châlons), che non ebbe fortuna, perché
i tempi dell'impero erano per finire in Italia. Infatti preso egli in
uggia dai ghibellini e dai guelfi, perché era francese, gli dettero
una quantità di danaro e via lo cacciarono. – Gli uffici dei
vicari, che lasciarono il nome di tedesco a questo ameno
paese, non vennero per avventura mai ben determinati, né furono
sempre uguali. Essi, in generale, ricevevano i giuramenti di fedeltà
e gli appelli, esigevano i redditi e proventi imperiali, davano
sentenze, [023] nominavano ufficiali e
ministri, promulgavano bandi, multe.... secondo i tempi o
l'accoglienza che ne speravano. Quantunque i samminiatesi all'impero
fossero debitori d'ogni loro incremento o prosperità, più volte ai
vicari si ribellarono e parteggiarono pei loro nemici, quando le
gravezze e le angherie eran troppe. Molti però, specialmente se
d'origine alemanna, a quel dominio si mostravan favorevoli, perché,
sostenendolo, la loro utilità ritrovavano. Questa la ragione degli
ostinati partiti, i quali spesso ad aperta lotta fra loro venivano, e
l'uno all'altro con fierezza signoreggiava. – Passati i vicari
imperiali, più liberamente si svolse il comune, e il guelfo partito
prevalente, colle vivine repubbliche faceva trattati, massime con
Firenze, determinando i confini del proprio dominio, che assai si
estendeva. Ma se era finita la prepotenza tedesca, crebbero però le
dissensioni tra nobili, che volevano spadroneggiare, e il popolo che
del continuo vi si ribellava. Onde proprio pareva che, neppur per
breve tempo, in pace potesser vivere, e studiosamente cercassero le
occasioni per venire alle devastazioni, agli incendi, allo
spargimento del sangue. A dimostrazione di ciò, narreremo che il
popolo, non volendo più tollerare l'arroganza dei nobili, aveva
fatto una legge, che ognuno di loro dovesse pagar mille lire, quando
offendesse un popolano. Ma costoro, con a capo i Ciccioni [024]
e i Mangiadori, che erano i più focosi, adunati gli amici, e servi e
i fuoriusciti ghibellini, si levano a tumulto, assalgono i popolani,
li vincono, molti ne uccidono. Poi scacciano il magistrato, bruciano
gli statuti del comune, ne sotterrano la campana, danno alle fiamme
le case dei capi guelfi, nel palazzo del popolo s'insediano,
s'impadroniscono del governo, a modo loro e a proprio vantaggio lo
riformano (1309). E Giovanni Villani conclude che, dopo ciò, il
popolo fu tenuto in grande servaggio, fino a che le case dei Ciccioni
e dei Mangiadori non ebbero tra loro discordia.
Aveva
il Comune un podestà, un consiglio generale del popolo, o
parlamento, un consiglio di custodia, che eleggeva il magistrato dei
dodici, un capitano del popolo, e la società di giustizia, di cui
facevan parte i signori dodici, alla quale spettava l'alta difesa dei
diritti del popolo e del comune. Dividevasi il paese in sette
contrade, cioè: di Poggighisi, di Pancole, di Santo Andrea, di S.
Stefano, della Pieve, di Fuor di Porta, di Faognana. (3) [VAI ALLE
NOTE ↗] Esse eran dette anche società d'armi; attendevano alla
difesa del popolo e alla conservazione della terra. Ogni contrada
aveva i sindaci, che ne nominavano i capitani. Dalla vita dei comuni
poi era inseparabile la religione, che, si voglia, o no, è l'anima
dell'umano consorzio, da soli governi atei moderni inconsultamente e
ruinosamente disconosciuta. [025] Però
da solenne processione preceduta, cui tutte le autorità prendevan
parte, al suo altare, nella chiesa di S. Francesco, si celebrava la
festa del santo martire Miniato, patrono del castello; quindi alle
altre chiese ed agli spedali si davan limosine. Ma la più nota e
cara delle sue religiose memorie è quella di un Crocifisso dei tempi
di Federigo II. Narrano infatti vi fosse per avventura mandato (forse
dai loro parenti) per consolazione dei fiorentini prigionieri, che
quell'imperatore crudele aveva fatto nella rocca rinchiudere, come
accennammo. Per esso ebbero sempre i samminiatesi molta venerazione,
e a fine di ottenere dal cielo i soccorsi nelle grandi calamità, a
processione più volte portaronlo e nel paese e fuori. (4) [VAI ALLE
NOTE ↗]
Nei
primi anno del secolo XIV, dice il Rondoni, era giunto S. Miniato al
fiore della potenza, avendo nel suo dominio ben trentaquattro
castelli. Oltre a cento potenti famiglie contava, e nove casate
nobili, piene di gente fiera e superba, di sangue alemanno. Il buon
popolo guelfo nuove strade apriva, e allargava il circuito delle
mura. Dal maggior colle si alzava la rocca, sulla quale sventolava
l'insegna, un leon bianco rampante in campo rosso. Attorniavano e
difendevano il castello tre cinte di mura degradanti, a similitudine
d'anfiteatro, con barbacani e torricelle, che gli davano un aspetto
pittoresco e guerriero. (05) [VAI ALLE NOTE ↗]
[026]
A liberar presto il popolo dalla oppressione dei ricchi, due
avvenimenti principali concorsero. Il primo si fu l'unione di due sue
ragguardevoli famiglie, che, lasciati i nomi di Maladerrate e
Pugliesi, presero quello comune di Pallaleoni, ed inalzarono, come
protesta e minaccia, dove ora si trova il palazzo del vescovo, una
torre, la quale dal loro nuovo nome fu chiamata. L'altro fu la
comparsa dei così detti battuti, i quali, mezzo vestiti, da
una croce preceduti, pregando e percuotendosi, percorrevano quasi
tutta Italia, gridando misericordia e perdono. Larga parte vi presero
i samminiatesi, e chi si rifiutava di fare pace col nemico, il
potestà ordinava vi fosse costretto (1311). – Nell'anno stesso
l'imperatore Enrico VII, andando da Pisa in maremma, visitava il
nostro castello; gli fecero atto d'ossequio gli abitanti, ma fedeli
si tennero alla guelfa Firenze, come ad alleata, e insieme più volte
si batterono contro i pisani e i comuni nemici. – Uguccione della
Faggiola avendo guerra con Firenze, cinque anni dopo, coi pisani ed i
lucchesi venne a devastare il territorio di S. Miniato. Espugnò S.
Romano, Stibbio e Cigoli, il cui presidio nel nostro castello si
rifugiò, dov'era colle milizie senesi il fratello del re Roberto di
Napoli. Insieme con loro i samminiatesi, che si erano battuti a
Campaldino, preser parte alla battaglia di Montecatini, nella quale,
tra gli altri, un Ciccioni e un [027]
Mangiadori perirono. – Le vendette poi che, nel prevaler dei
partiti, avvenivano eran crudeli e barbare. Fatti dodici prigionieri
del castello ribelle di Collebrunacci, i samminiatesi, che lo
assediavano, promisero di liberarli, quando esso si arrendesse. Gli
assediati non risposero; e quei miseri, alla presenza dei loro
parenti, vennero senza pietà impiccati. Il fuoriuscito Gherardo dei
Baratelli invitava i samminiatesi a entrare nel castello di Moriolo
per quattromila fiorini d'oro, mentre, d'accordo con Pisa, loro
tendeva insidie. S. Miniato prometteva cento fiorini d'oro a chi,
vivo o morto, consegnasse il traditore; le case di sua famiglia,
presso S. Domenico, venivano atterrate, e in quello stessi luogo, in
segno di morte e di sterminio, era aperto un cimitero. Altri castelli
si erano a S. Miniato ribellati; ma di tutti riportò vittoria. E
preso Coluccio Guadardi che era dei più potenti ribelli, per ordine
del podestà, a ludibrio del popolo, pel paese lo trascinarono, e
poi, orribile a dirsi (esclama giustamente il Rondoni), vivo, nel
mezzo lo segarono! – Dinanzi al re Roberto di Napoli, l'anno 1318,
si fece finalmente pace tra guelfi e ghibellini, la quale durò poco;
e a S. Miniato i pisani resero nove castelli, a condizione che fosse
tolto il bando ai ribelli, e loro si restituissero i beni. Intanto
sorgeva l'ambizioso Castruccio; al samminiatese dava il guasto;
entrava a tradimento in Fucecchio; [028]
minacciava Firenze, cui il nostro castello mandava soccorso.
Spaventati dei suoi progressi, sotto la protezione si misero di Carlo
duca di Calabria, pagandogli un annuo tributo. Venne poscia in Italia
Lodovico il bavaro; ma poco di lui si curarono. I capi della lega
guelfa toscana, stanchi del guerreggiare, a fare pace un'altra volta
con Pisa, convennero a Montopoli (1329), e il castello nostro
proseguì a star unito a Firenze. Ebbe anzi occasione d'aiutare
questa città, quando essa si preparava contro i pisani, e concorse a
scacciare il duca d'Atene. – In questo tempo le intestine discordie
eran risorte; e gli ordini popolari sarebbero per avventura periti,
per colpa specialmente dei Malpigli e dei Mangiadori, i quali,
avversando ogni freno alle loro soperchierie, avevan colle armi
sopraffatto i Pallaleoni e le altre forze del popolo. Pronta mandò
Firenze sue milizie, e la ribellione fu doma. Grati a questa
repubblica, i samminiatesi, per cinque anni, a lei si dettero per
potersi meglio difendere, anche in futuro, dalla oppressione dei
grandi. A spese comuni rafforzaron la rocca, e apriron da essa una
via sotterranea, che dalle mura usciva, per dare, in caso di bisogno,
ai fiorentini libero accesso. – Venuto Carlo IV in Italia, chiamato
a raffrenare la potenza dei Visconti, videro i samminiatesi alcune
città toscane seguir le sue parti; ed essi pure, nel 1354, a Pisa
gli fecero atto di soggezione, con [029]
molto contento di lui, che loro confermò le comunali franchigie e
nuovi privilegi concesse. Ma partito l'imperatore, a Firenze si
riaccostarono, anche per essere aiutati contro i Mangiadori, i quali
con ogni sorta di mezzi, sembrava agognassero il principato del
castello. Essi in fatti, uniti ad altri, sdegnando di sottostare a
Firenze, presero furibondi le armi, e, avuta promessa d'aiuto dal
duca di Milano Bernabò Visconti, fiero ghibellino, occuparon S.
Miniato, e al duca lo consegnarono, che vi tenne, per poco tempo,
scarso presidio. Poiché Firenze mandovvi il suo podestà, intimando
ai samminiatesi l'osservanza dei patti, che facilmente vennero di
nuovo confermati. Vi spedì le sue milizie, promise di porger loro
aiuto a ricuperare le terre ribelli, se mantesser fede alla parte
guelfa in piena libertà. Sembrava si potesse sperare amicizia
durevole con Firenze, ma così non fu. I potenti samminiatesi eran
del continuo istigati alla rivolta dal doge di Pisa Giovanni
dell'Agnello e da altri fautori dell'imperatore, compreso il suo
stesso fratello, che a S. Miniato colle sue genti era venuto; e però,
di comune accordo, facevano continue scorrerie nel fiorentino
dominio, devastandolo, incendiando, uccidendo. A Firenze, che tutti i
mezzi aveva posto in opera per indurre quei rivoltosi a far senno,
venne meno finalmente la pazienza, e il 15 agosto 1368 circondò S.
Miniato colle sue milizie, essendo capitano dell'impresa [030]
Giovanni Malatacca. Avendo il Visconti mandato invano a Firenze i
suoi ambasciatori per distoglierla dall'impresa, inviò il celebre
Aguto coi suoi inglesi, il quale a Cascina l'occasione propizia
aspettava per soccorrere il castello, e vinse in uno scontro i
fiorentini. Ma l'assedio duramente continuava, sebbene valorosa fosse
la difesa, né soccorso di armi o di vettovaglie vi poteva giungere.
Il forte castello dalle armi non vinto, cadde per astuzia di un tal
Luparello, fuoriuscito samminiatese, che disse di volerlo a Firenze
sottomesso, perché in fine tranquillamente potesse vivere. La notte
dell'8 gennaio 1369, dalla parte di S. Francesco, egli aprì nelle
mura una porta, murata a secco, per la quale, la mattina seguente,
mentre il nuovo comandante Roberto da Battifolle simulava un fiero
assalto dalla opposta parte, introdusse i fiorentini, che molte
ruberie con uccisioni commisero. Miseria e desolazione trionfarono: i
nobili nemici, come i Mangiadori, i Conti, i Ciccioni, i Borromei,
con altri, vennero dichiarati ribelli della repubblica; verso il
popolo si mostrarono assai benigni. Così S. Miniato, impotente a
sedar sue discordie, a Firenze rimase soggetto. E similmente ebbe
fine, per l'incorreggibile superbia e prepotenza dei ricchi, il suo
comune, e quel nido di tedeschi in Toscana restò abbattuto. Vi mandò
Firenze un vicario, che pubblicò generale amnistia, eccettuati i rei
di aperta ribellione; [031] fece
compilare gli statuti pel luogo; vi risiedesse un potestà fiorentino
e guelfo, né più si chiamasse S. Miniato al Tedesco, ma Fiorentino.
(6) [VAI ALLE NOTE ↗] – Viveva il popolo assai tranquillamente,
alla repubblica fiorentina soggetto; ma non così i nobili, a cagione
della perduta potenza molto indignati. Onde nel 1396, alquanti di
loro a Pisa si portarono, e fecer lega con Jacopo Appiano per liberar
dai fiorentini S. Miniato e divenirne essi medesimi signori.
Profittando però accortamente dei pochi soldati nei forti rimasti,
perché gli altri eran fuori alle guerre, Benedetto Mangiadori con
venti cavalieri la sera del 20 febbraio, per sorpresa vi entrano, il
vicario fiorentino Davanzato Davanzati mettono a morte e lo gettano
dalla finestra del suo palazzo; liberano i prigionieri: dal palazzo
pretorio tentano di sollevare il paese gridando libertà. Ma il
popolo, che ben li conosceva, invece di secondarli si solleva, li
combatte, li scaccia, e, pieno d'indignazione, le case dei Mangiadori
dà alle fiamme. L'Appiano non venne coi promessi soccorsi. Un tal
Domenico Cantini, con armati in fretta raccolti, era subito accorso
da Empoli a difesa dell'autorità di Firenze per una via detta delle
corna, e, con facile vittoria, tolto il catorcio dalla casa
del vinto Mangiadori, in trionfo ad Empoli lo porta, e al palazzo del
vicario lo appende. Largo premio ricevé costui dalla fiorentina
repubblica, [032] con titolo di nobiltà.
Dal nome della via che il Cantini percorse, ebbe forse origine la
leggenda della presa di S. Miniato coi lumicini, alle corna delle
capre legati, come canta, per avversione di campanile, il dottore
Ippolito Neri, empolese del secolo XVI, nel suo poema eroicomico «La
presa di S. Miniato al Tedesco». (7) [VAI ALLE NOTE ↗] –
Narrano che il Mangiadori, vinto ma non scoraggiato, tentasse dipoi
un nuovo assalto, che i fiorentini, omai avveduti, resero vano. A
queste sedizioni seguirono i fervori della devozione. Ed essendo
venuta a S. Miniato, nel 1399, dall'Italia superiore, una numerosa
compagnia di penitenza, detta dei bianchi (che ai battuti
successero) a venerare il suo Crocifisso, più di 1600 samminiatesi,
di bianche anch'essi vestiti, digiuni e chiedenti perdono, con quel
medesimo crocifisso che due volte uscirono dalla terra, e quasi tutte
le città toscane visitarono, pace gridando, e accendendo il fuoco
della carità cristiana. Dopo di che, cresciuta la devozione a quella
sacra immagine, nel secolo XVIII, un bel tempio in suo onore
inalzarono.
Disgraziatamente
tra Firenze e Pisa l'avversione continuava. Jacopo d'Appiano e
Benedetto Mangiadori contro il nostro castello tesero nuove insidie.
E sebbene ambedue fossero dai fiorentini battuti e respinti, tra i
loro partigiani il malcontento e l'agitazione non [033]
diminuivano. Ebbero anzi ragione di crescere e dilatarsi perché
Firenze troppo colle imposizioni opprimeva quegli abitanti, e quasi
li spogliava. Per cattivarsene forse l'animo, volle, nel 1406, far
città S. Miniato e cattedrale la sua collegiata, coll'assenso di
Alessandro V; ma i samminiatesi temendo i non cercati onori,
rifiutarono, e più non se ne tenne parola. Intanto alcuni della
famiglia Buonaparte, coi Bonincontri ed altri nobili, avversi al
fiorentino dominio, e dall'ambizione spinti, a Pisa se l'erano intesa
coll'Imperatore Sigismondo, venuto, come dicevasi, a ricuperare il
nostro castello, e il loro aiuto gli avevano offerto. Ma per mala
ventura, dal padre di un congiurato al vicario Salviati Alemanno
denunziati, i ribelli ebber mozza la testa (1432). Tra essi fu
Leonardo Buonaparte, fratello d'Onofrio, che pur morì dopo pochi
giorni, di dolore o di veleno. L'infelicissima giovane fiorentina
Lena Pitti, sposa a quest'ultimo ebbe ad impazzir pel dolore. E
giunta in breve al capezzale di morte, fra gli altri pii legati,
dispose che una messa fosse detta in perpetuo ogni mattina all'alba,
nell'oratorio del Crocifisso, per comodità speciale degli
agricoltori e degli operai, affinché le unite preci del sacerdote e
del popolo al cielo salissero in pro dell'anima sua e dei suoi cari
in quell'ora, nella quale il ferro della spietata repubblica aveva
fatto cadere il capo di Leonardo. [034]
Francesco di Michele in premio del servigio reso, ebbe la
cittadinanza fiorentina e l'esenzione da ogni tassa per sé e pei
discendenti. Privilegi maledetti, perché comprati col sangue di un
figlio! – Dopo questo tempo, Firenze meglio trattò S. Miniato, che
più non fece atti di ribellione al suo dominio. Anzi ordinò fossero
cancellati alcuni debiti che il suo comune aveva contratto, e Lorenzo
il magnifico nel 1479 volentieri vi si fermò, e fu bene accolto,
quando da Firenze andava alla corte di Napoli.
L'anno
1463 Pio II aveva confermato al proposto di S. Miniato i privilegi
già concessi a quello di San Genesio; ma il capitolo dal 1396 più
non esisteva. L'onore di avergli ridato vita al proposto Giovanni
Cavalcanti è dovuto, il quale si adoperò perché dieci delle prime
famiglie del nostro castello formassero altrettante prebende
canonicali; e Innocenzo VIII, nel 1487, del titolo di collegiata
decorava la propositura di S. Miniato, con dieci canonicati,
ammensando al capitolo suo la chiesa parrocchiale di S. Jacopo e
Filippo a Pancole. Due anni dopo lo stesso benemerito Cavalcanti, per
mezzo del vicario Pier Vettori, ottenne dalla repubblica la
riapertura al culto della pieve di S. Maria e Genesio, la quale,
compresa dentro le mura del castello, era ststa chiusa novantadue
anni prima, e ridotta a armeria, dopo la ribellione dei Mangiadori.
[035] Ottennero anche al proposto e ai
suoi canonici il palazzo del capitano, oggi vescovile, per usi di
abitazione. In quel tempo la propositura l'avevano trasferita a S.
Giusto e Clemente, ora distrutta. Grati i samminiatesi a quel
vicario, nella facciata della riaperta chiesa un'iscrizione apposero,
che ancor vi si legge, ed è riportata dal prof. Rondoni (8) [VAI
ALLE NOTE ↗]. – Nel secolo XVI, come nei precedenti, si sviluppò
qualche volta la pestilenza a S. Miniato. E fierissima fu quella del
1527, la quale tanta desolazione arrecava, al dire di un
contemporaneo, che dall'aprile al dicembre di quell'anno nessuno
venne battezzato. Fu eretta però, intorno a questo tempo, in onore
di S. Sebastiano una cappella, rimpetto alla casa Buonaparte, per
averlo protettore nelle malattie contagiose. Alla pestilenza vera
successe la pestifera invasione straniera, la quale pose il colmo ai
mali, che su questa infelice terra piombarono. Poiché quando
gl'imperiali dall'Orange capitanati, e d'azioni nefande già rei,
mossero ai danni della fiorentina repubblica, il nostro castello, già
stremato di forze per aiuti dati a Firenze, a se steso abbandonato,
dopo nove giorni d'assedio, nel febbraio del 1529, cadde in potere
degli spagnuoli, i quali colle loro ribalderie ben degni si
mostrarono di venire dopo la peste. Il valoroso Francesco Ferrucci,
da Empoli venuto l'anno seguente, assaliti e sconfitti gl'imperiali,
e fatto prigioniero [036] il commissario
spagnuolo, a Firenze riacquistò S. Miniato, entrando vittorioso per
la porta Poggighisi. Quindi portossi a sottometter Volterra, a
difender Firenze, e gloriosamente a Gavinana lasciò la vita. Una
bella iscrizione latina del prof. Michele Ferrucci, che questi
avvenimenti ricorda, presso detta porta, nel 1844, per deliberazione
del municipio fu posta. Dipoi gl'imperiali ripresero S. Miniato. Il
quale per queste dolorose vicende, e dopo la caduta di Firenze, restò
desolato e ruinato così, che, nel 1531, fece preghiera al duca
Alessandro volesse permettere che le famiglie originarie del luogo
potessero liberamente tornarci, affermando che degli uomini, i quali
prima lo abitavano, solo il quindici per cento era rimasto! Ciò di
buon grado il duca concesse, e anche mandovvi un commissario a
impedire le prepotenze degli spaguoli. Nuovi statuti si compilarono
pel governo della terra; e da tanta decadenza un poco alla volta si
levò, specialmente pei benefizi dai Medici ricevuti, sotto i quali a
dir vero maggior quiete e prosperità poté godere. – Nel settembre
del 1533, Clemente VII, che andava a Marsiglia, alcuni giorni a S.
Miniato si trattenne, dove fu anche visitato da Michelangelo
Buonarroti. Sette anni prima, aveva questo papa concesso a suo nipote
Galeotto dei Medici, che ne era proposto, il privilegio dei
pontificali, e la facoltà di conferire gli ordini minori. Eletto
dica Cosimo I, [037] ne ringraziarono
pubblicamente Dio i samminiatesi, e a Firenze mandarono una
deputazione a fargli omaggio; ma poco egli si occupò del nostro
castello. La sua più generosa benefattrice fu la moglie di Cosimo
II, Maria Maddalena d'Austria. La quale, avuta, nel 1620, in
appannaggio da suo consorte anche la terra di S. Miniato, non solo il
titolo di città le ottenne; ma facela anche erigere a sede vescovile
da Gregorio XV, con bolla del 5 dicembre 1622, ed ebbe per primo
vescovo Francesco Noris Fiorentino (9) [VAI ALLE NOTE ↗]. Pieni di
riconoscenza i samminiatesi verso la loro protettrice, in piazza
della cittadella (oggi Vittorio Emanuele) per opera del fiorentino
Susina, una statua le inalzarono. Quando poi essa venne la prima
volta a visitare questa città, con gran festa tutti la riceverono;
e, nei due giorni, che al palazzo Grifoni dimorò, ella ne li
ricambiava largheggiando in opere di beneficenza. – Giungevano
intanto gli anni nefasti 1630 e 1631, in cui la guerra, la peste e la
fame desolarono quasi tutta Italia. Ma quella terribile pestilenza,
sì maestrevolmente da Manzoni descritta, sebbene molte vittime in
Toscana facesse, e si aggirasse minacciosa intorno al samminiatese,
nella nostra città non penetrava. Con bella pastorale il suo primo
vescovo li aveva esortati alla preghiera e alla fiducia in Dio; onde
i suoi abitanti bene a ragione [038]
alla protezione del Crocifisso ne attribuirono la salvezza, e a lui
resero concordi devote azioni di grazie. – Dopo la formazione della
diocesi, era naturalmente venuta la necessità del seminario; e il
vescovo Angelo Pichi, nel 1650, lo edificava, capace di dodici
alunni. Da mons. Cortigiani ingrandito; l'onore di averlo condotto
all'ampiezza presente, con maggiori rendite e migliori insegnamenti,
spetta a quella perla del vescovo, che questa città ebbe la fortuna
di possedere col nome di Francesco Maria Poggi. Il quale concepì
anche il disegno del nuovo grande oratorio del SS. Crocifisso, ai
piedi del vecchio castello, sulla scoscesa falda del poggio. Colla
sua mirabile attività, ben corrisposta dalla cittadinanza, dal 1705
al 1718, in cui lietissimo vi collocò la veneranda immagine, a
compimento il codusse, mettendo in esecuzione così il voto dei
samminiatesi del 1637, in occasione di pestilenza. Lo stesso
granduca Cosimo III ammirò l'opera ardita, e venne volentieri in
aiuto allo zelante vescovo. Il quale, mentre ferveva l'inalzamento
della chiesa, tenne anche il quarto sinodo diocesano, monumento della
sapienza sua, che forma, al dire del Conti, una guida sicura ai
parroci nel governo spirituale delle anime (10) [VAI ALLE NOTE ↗].
Di ciò non pago, volle eziandio che l'amata città sua priva non
fosse di quella mirabile istituzione di carità, che è la
Confraternita di Misericordia, a sollievo della [039]
languente umanità. Il 14 marzo 1716 la istituiva, ponendola sotto
la protezione della Madonna Addolorata e di S. Filippo Benizi. Per
essa edificò nella cattedrale una cappella, provvedendola di
uffiziatura, e fece eseguire l'immagine dell'Addolorata per l'annua
festa del settembre. Altre opere egregie compì questo mirabile
vescovo, di cui si farà parola altrove.
Scarse
mi sono state presentate le memorie, che riguardano il tempo futuro;
ma da esse ho potuto rilevare che la città nostra, quieta e
tranquilla continuò a vivere sotto i granduchi di casa Medici,
contenta delle sue piccole industrie e del suo limitato commercio;
come chi non prova la necessità di far più ricchi guadagni, quando
con quello di cui può disporre, a tutti i suoi bisogni facilmente
provvede. Poiché sebbene la dinastia medicea lasciasse lo stato con
debiti molto maggiori di quando lo tolse dalle mani della repubblica,
non si può tuttavia negare che non abbia riempito la Toscana di
religiosi e civili monumenti, di magnificenze, di utili e
filantropiche istituzioni, lasciando nello stesso tempo ai sudditi la
soddisfazione di godersi in pace quello che avevano. Altrettanto può
dirsi dei Lorenesi, e con maggior ragione, giacché essi furono in
generale sovrani e padri dei loro popoli. Esagerate però sono le
lodi, ed anco false, che comunemente al [040]
granduca Leopoldo I si danno dai suoi partigiani. Quelle che egli
merita sono per le riforme amministrative. «Leopoldo I, dice il
Cantù, nella Storia degl'Italiani, è levato a cielo da coloro che
badano ai detti anziché ai fatti, e della storia fanno una satira o
un'illusione. Egli poté senza ostacoli fare o disfare, urtar
gl'interessi e le opinioni, esser despoto filosofo senza tampoco
l'originalità, poiché imitava il fratello Giuseppe in campo più
angusto e con viste più ristrette. Colla mitezza delle leggi attirò
nel suo paese la feccia del vicinato. Scostumava il potere colla
doppiezza». Gelosissimo com'era che altri menomamente s'ingerisse
nelle cose del suo governo, egli, secondo l'uso di chi ha la forza, e
in essa fa consistere il diritto, faceva ogni sua voglia in materia
ecclesiastica, di buon accordo col giansenista cortigiano Scipione
Ricci vescovo di Pistoia. Da vero principe sagrestano, sino a far le
tariffe si abbassava per le funzioni ecclesiastiche e per le
monacazioni. Proibì le festicciuole innocenti, che a volte il popolo
soleva fare alla Madonna, o in una casa, o sur una pubblica via, come
pire di tener coperte le sacre immagini nelle chiese, di far certi
accatti, ed altre simili minuzie, non troppo degne di gran principe
folosofo, qual'ei si credeva di essere. Nella manìa del sopprimere e
del rinnovare, senza preoccuparsi del pubblico danno, tolse pure le
confraternite [041] della Misericordia,
e, a S. Miniato, anche l'Opera benemerita del SS. Crocifisso. Ma
poiché la storia dv'essere imparziale, è da lodare questo granduca,
tra le altre utili cose che fece, per avere ordinato igienicamente,
nel 1782, si aprissero i cimiteri lungi dall'abitato. Il comune di S.
Miniato chiese la soppressione delle compagnie dell'Assunta e di S.
Lodovico, uffizianti sotto S. Francesco; di S. Pietro Martire, sotto
S. Domenico, e dell'Annunziata a Crocetta, per avere in parte, coi
loro possessi, i mezzi di fare il nuovo cimitero. L'anno seguente,
salvi gli obblighi, esse furon soppresse, e a camposanto destinarono
l'area della soppressa pieve di S. Martino. Ma poiché troppo era
vicino il luogo alla città, e ricco di polle, sul più lontano colle
di Volpaia lo aprirono, e cominciò ad essere adoperato nel 1787.
L'anno 1877 esso fu ingrandito; e il santo e dotto vescovo coadiutore
Mons. Del Corona, che i samminiatesi non superbi di possedere, lo
benediva. La nostra città deve anche a Leopoldo I l'erezione del suo
bell'ospedale. – Venne poi in Toscana la prepotente invasione
francese a cacciar l'amatissimo Ferdinando III, a gettar questo
giardino d'Italia nell'anarchia, a compiere sue degne opere. Ai 29
giugno 1797, il general Buonaparte, in compagnia di cinque ufficiali,
a S. Miniato saliva, a riveder la casa dov'era stato fanciullo, a
visitar lo zio [042] canonico Filippo, a
tenervi consiglio di guerra. Tutto questo è ricordato da
un'iscrizione che ci puoi leggere (11) [VAI ALLE NOTE ↗]. Due anni
dopo, ai quattro d'aprile, alcuni fanatici repubblicani francesi,
uniti ai loro seguaci, a gran rumore si levarono, in nome di tutti
gli altri cittadini che non si mossero, come sempre suole avvenire, e
assalita la statua della benefattrice di San Miniato, Maria
Maddalena, l'atterrarono, la insultarono, la ruppero fra le
imprecazioni di gente vile ed ingrata. E sulla base di essa
inalzarono l'albero della solita libertà, mentre con alcuni
ampollosi discorsi proclamavano la repubblica. Poi quegli eroi
spezzarono e distrussero gli scudi gentilizi antichi e pregevoli dei
vicari imperiali e granducali, e, tolto dall'archivio comunale
l'antico libro d'oro, dov'erano gli stemmi delle famiglie
nobili samminiatesi colle loro genealogie, in mezzo ad un baccano
orribile lo strapparono e lo bruciarono (12) [VAI ALLE NOTE ↗]. Fra
tante innovazioni di ogni genere, anche i nomi delle piazze vennero
mutati; e quella del Seminario di chiamò Piazza Nazionale; quella di
S. Domenico, della Rigenerazione; quella Grifoni, della Libertà;
quella di S. Sebastiano, della Eguaglianza, e poi Piazza Napoleone;
quella di S. Agostino ebbe nome Piazza dello Spedale. Troppo lunga
cosa sarebbe far parola dei tristissimi avvenimento di questo tempo:
delle reazioni, dei processi, [043]
degli esìli, delle vendette, dei saccheggi, delle confische di beni,
dei ferimenti e delle uccisioni, che col trionfar dei contrari
partiti, dopo le sconfitte o le vittorie dei francesi, accadevano,
sino al fermo e stabile dominio Napoleonico, interrotto per soli sei
anni in Toscana con l'effimero regno d'Etruria (1801-1807). S.
Miniato pure ebbe soppressioni e spogliazioni di chiese e conventi; e
i non molti capi d'arte, che vi erano, per altri lidi presero il
volo, come per tutto altrove; poiché l'esperienza ai nostri avi
insegnò, come ha insegnato oggi a noi, che i più chiari apostoli
della libertà sulle questioni del mio e del tuo facilmente prendono
abbaglio, e cadono nella debolezza di far propria la roba degli
altri. – Vinto Napoleone, Ferdinando III acclamatissimo, ai 17
settembre 1814, ritornava in Toscana, e poneva mano animoso alle
opere di restaurazione. Ma i giorni del dolore non erano ancor
finiti; poiché nei tre anni successivi, la scarsità delle raccolte
e la mancanza di commercio, dopo tante vicende e tanto disordine
d'amministrazioni, di una penosa e lunga carestia furon cagione, la
quale, per le sofferenze del povero popolo, dal tifo petecchiale fu
seguita. Fece quanto poté il buon Ferdinando a fine di procurar
lavoro e pane alle popolazioni afflitte; ma molta fu la mortalità e
l'emigrazione, e al termine del triennio la Toscana aveva
ventiseimila abitanti di [044] meno! –
«Leopoldo II, prosegue Cantù, succedutogli nel 1824 con pari bontà,
favoriva quel vivere amichevole, quella cittadinanza riposata, che
della Toscana faceva un'Arcadia. Intanto le belle arti, la
gentilezza, il clima, la favella continuavano ad attirarvi i
forestieri; studiosi dell'università di Pisa, cui s'inviavano
professori d'ogni paese; capitali il ferro dell'Elba, l'acido borico
dei lagoni, e la libertà di commercio; si estesero le scuole
normali, di mutuo insegnamento, di sordimuti; presto s'introdussero
asili infantili, casse di risparmio...». E S. Miniato ebbe la sua
nel 1830, affiliata a quella di Firenze. Otto anni dopo Leopoldo
concedevagli il Tribunale civile e correzionale, e poi la
Sotto-Prefettura. Per dimostrargli la loro gratitudine, i
samminiatesi, nei giorni 6 e 7 Agosto 1843, dinanzi al Tribunale
medesimo, in mezzo a feste solenni e lietissime, cui tutti presero
parte, scoprirono la sua statua, da Luigi Pampaloni egregiamente
scolpita, e il prof. Bagnoli, vecchio maestro di quel granduca,
pronunziando un magnifico discorso di circostanza, suscitava gli
applausi di quella moltitudine riconoscente e commossa. A quella
piazza fu dato il nome di Leopolda, cassato malamente dopo il 1859
per darle quello di Buonaparte, poiché i benefizi ricevuti e la
gratitudine non si rinnegano mai. – L'orribile terremoto, che, il
14 agosto 1846, gran parte della Toscana [045]
desolava anche a S. Miniato produsse danni, e fece ruinare con gran
fracasso dalla cima della rocca uno dei quattro grandi pilastri, che
prima sostenevano il terrazzo d'osservazione. Poscia, al periodo di
pace e di prosperità, passato dai toscani fino a quest'epoca, sotto
Leopoldo II, successero le utili riforme, da Pio IX iniziate, le
feste, i tripudi, le speranze della indipendenza d'Italia dallo
straniero, da tutti bramata, cui troppo presto sventuratamente
tennero dietro diffidenze, errori, agitazioni, tumulti ed anarchia,
per opera degli ambiziosi rivoluzionari di professione, che, oltre a
far precipitare ogni cosa, dettero occasione a nuova e odiosa
invasione straniera. – Intanto a S. Miniato si eseguivano utili
opere pubbliche. Si faceva la scala a due branche, che, rimpetto al
municipio, alla chiesa del Crocifisso conduce, ornata dipoi da due
angeli, modellati dal Pampaloni, dalla statua del Redentore risorto,
di Francesco Baratta, già stata fino al 1796 sul maggiore altare
della chiesa di S. Francesco, e ultimamente dalle altre dei santi
Pietro e Paolo. Spianarono del 1847 la scoscesa piazza del Domo, e
poi, partendosi da quella del Fondo, aprirono intorno all'antico
castello una bella passeggiata pubblica con ampio piazzale e loggiato
per la fiera del bestiame, adorna di piante, di sedili e di
giardinetti, d'onde con piacere si gode la stupenda veduta della
valle dell'Arno. [046] Ai 20 giugno
dell'anno stesso, la prima via ferrata in Toscana, già finita tra
Livorno e Pisa nel 1844, era giunta da Pontedera ad Empoli, e
moltissimi samminiatesi scesero a vederne l'inaugurazione ed a
prendervi parte, dopo che il loro vescovo Torello Pierazzi l'ebbe in
forma solenne benedetta. – Nel 1850 il generale De Lauger avendo
scelto S. Miniato come luogo atto alle esercitazioni militari, vi
mandò il battaglione dei soldati novelli, che giornalmente
ricevevano l'istruzione sul piazzale da poco finito. Essi dimoravano
nel soppresso monastero della SS. Annunziata, con grande dispendio
ridotto a caserma, e soli due anni vi stettero. – Siam giunti al
tempo di dover parlare nuovamente di pubbliche sventure, cioè di
quella malattia terribile e misteriosa, che tanto umilia la superba
scienza umana, perché la cagione e il rimedio ne ignora. Nel luglio
del 1854 due bastimenti, da Marsiglia venuti, portarono al solito il
colera a Livorno, che nel resto della Toscana si diffuse in questo e
nell'anno successivo. Se S. Miniato aveva sempre avuto la fortuna di
esserne immune, il primo luglio 1855 lo vide con orrore appressarsi,
prender possesso, e per quasi due mesi seminar lo spavento, la
desolazione e la morte. Fu ridotta a spedale dei poveri colerosi
parte del convento di S. Francesco; e a fine di ottener presto la
cessazione del fatal morbo, ricorsero con fiducia alla taumaturgica
immagine del SS. Crocifisso [047], che
fu poi anche scoperto e alla pubblica venerazione esposto. Nel comune
ci furono 380 casi con 156 morti, 99 dei quali in città. Col colera
se ne andarono dalla Toscana anche gli austriaci, dopo di averla
occupata sei anni, ed esser costati all'erario un venti milioni di
lire; ambedue le partenze furono benedette.
Nell'estate
del 1857, quel pontefice della Immacolata, che di tutti più
lungamente si assise alla cattedra non fallibil di Pietro:
«Segno
d'immensa invidia
E
di pietà profonda,
D'inestinguibil
odio
E
d'indomato amor, »
avendo
fatto un trionfal viaggio nei suoi stati, consentì di venire,
invitato, a far liete di sua presenza le principali città toscane.
Ciò saputo i samminiatesi, dalla bontà di lui ottennero che, quando
da Firenze sarebbe andato a Livorno, alla loro stazione avrebbe fatto
breve sosta per ricevere i loro ossequi e dar loro l'apostolica
benedizione. La mattina infatti del 24 agosto, gli abitanti della
città con a capo il vescovo, il clero e le autorità civili, uniti
ai popoli dei circostanti paesi, facevano smisurata corona ad uno
splendido arco trionfale, che proteggeva un magnifico trono, sul
quale si assise quel Pio, che tanto aveva fatto di sé parlare, e
contro il quale i sicari della penna avevano scagliate [048]
tante menzogne e calunnie, non giunte mai ad offendere l'intemerata
sua fama di grande pontefice e di sincero amatore del vero bene
d'Italia. I fragorosi applausi, le grida liete e giulive di oltre
quindici mila persone esultanti e commosse salivano alle stelle. Pio,
commosso pur egli della manifestazione di tanta fede ed amore,
maestoso si alzò, paternamente guardò la moltitudine di quei cari
figliuoli, fissò lo sguardo sopra S. Miniato, levò le mani e gli
occhi al cielo, e in nome di colui, ch'egli rappresentava in terra,
tutti affettuosamente li benedì. Eran presenti Leopoldo II e la sua
corte, che rispettosamente l'accompagnavano. – Ad altre due opere
di pubblica utilità si pose mano nell'anno seguente. Si abbatterono
alquante case sulla via S. Andrea, sotto il convento di S. Francesco,
perché troppo angusto e meschino rendevano l'ingresso in città da
quella parte, e fecesi strada ampia e comoda, che al presente si
vede. La cattedrale poi, che, fin dal 1766, nella sua navata di mezzo
minacciava rovina, e in tre anno il vescovo Domenico Poltri l'aveva
restaurata, riducendo a grossi pilastri le vecchie colonne, e nuovi
archi poggiandovi sotto quelli gotici, col mal gusto del secolo, era
riuscita pesante e deforme. Onde il benemerito proposto Giuseppe
Conti, appassionatissimo amante del decoro della sua città natale,
messosi a capo di una commissione, che molti danari colla sua [049]
operosità raccolse, affido il rinnovamento interno della medesima al
bravo architetto Pietro Bernardini, che in quattro anni compì
(1858-1861), ornata e bella rendendola quale ora si ammira, e
spirante l'allegrezza di Dio, come ha scritto l'amico suo Augusto
Conti. Il 26 dicembre 1851 con soddisfazione generale venne riaperta
solennemente al culto. Il buon proposto preparavasi già alla
facciata, ma gli mancò la vita.
Allorché,
nel 1849, Leopoldo II dalla Toscna si allontanava, anche a S. Miniato
inalzarono un'altra volta l'albero, detto della libertà, che fiori
belli e frutti buoni non ha mai prodotto. I disordini e l'anarchia,
che seguirono, suscitarono, come suole avvenire, la reazione, e con
grandi dimostrazioni di gioia se ne festeggiò il ritorno.
Disgraziatamente però questo granduca non continuò quella saggia
politica per la quale, come ha scritto il Cantù, l'Austria non
poteva pretendere sulla Toscana che una specie di supremazia
parentale, mentre nel governo non ne aveva alcuna; ed anziché odiare
questa dinastìa come tedesca, gl'italiani le sapevano grado della
tolleranza e dolcezza. L'occupazione austriaca mai non gli venne
perdonata, e fu per avventura la cagione della sua rovina. Però la
seconda sua fuga del 27 aprile 1859 non ebbe ritorno; e i popoli
questa volta si unirono ad ottenere efficacemente l'indipendenza
d'Italia, e l'ottennero. S. Miniato vi prese parte [050]
con gioia, e al pari di tutti gli abitanti della cara ed amata
penisola, coll'entusiasmo di chi risorge a vita novella, gran festa
ne fecero. Ma si ricordi al presente chi deve, che quando i popoli
hanno riscontrato fallaci le tante promesse di privata e pubblica
prosperità; quando colla miseria si trovano alle prese, e per colmo
di sventura si son fatte lor perdere la moralità e la fede; allora a
lungo non si governa nemmeno colla forza, e sulla via maestra, che al
precipizio conduce, fatalmente si cammina. – Ai 29 maggio 1860 la
storia di S. Miniato ebbe a registrare una delle più dolorose sue
perdite, poiché moriva a Firenze di 68 anni il professor senatore
Giovacchino Taddei, chimico sommo e vera sua gloria. Funerali solenni
gli vennero fatti in Duomo dal municipio, e il proposto Conti vi
leggeva una delle sue più belle funabri orazioni. I samminiatesi,
che, in occasione delle autunnali vacanze, eran lieti di rivederlo
ogni anno fra loro, ottennero di potergli dare in cattedrale la
sepoltura, dove, con pompa mesta e solenne, dal cimitero di S.
Miniato al Monte fi trasferito l'undici agosto dell'anno medesimo.
Dopo soli cinque anni scendeva pur nella tomba, a lui difaccia, il
proposto suo amico, ben degno anch'egli di aspettar la risurrezione
in quel tempio, del quale più che restauratore può chiamarsi
autore. – Di due lieti avvenimenti or conviene far parola. Col
lodevole [051] scopo di dare
incoraggiamento ed impulso all'agricoltura e al commercio, essendo
sindaco di S. Miniato il nobil uomo conte Giacinto Catanti, ci venne
opportunamente aperto, nel novembre del 1885, un concorso
internazionale di macchine distillatrici, con esposizione agraria e
fiera di animali. Erano stati vagamente preparati e addobbati i
locali; e i molti che vi presero parte, concorrendo ai proposti
premi, fecero colle autorità cittadine, quanto meglio poterono
perché fosse di general soddisfazione la molteplice e veramente
bella esposizione. Le distillatrici erano ben disposte ed agivano
nell'aperto chiostro dei domenicani; la ricca esposizione agraria,
che ogni genere di eccellenti prodotti naturalmente comprendeva, con
attrezzi rurali e macchine relative, occupava in bell'ordine le sale
annesse e le sottostanti scuole femminili; la numerosa fiera di
animali nel vasto piazzale si stendeva. Furonvi concorsi di corpi
musicali, feste variate, vaghe illuminazioni, visitatori senza
numero. Intervennero il prefetto di Firenze, il segretario del
ministro di agricoltura e commercio conte Guicciardini, e lo stesso
ministro Grimaldi, con onori e plausi lietamente accolti e ricevuti.
Fu in somma cosa riuscitissima, come oggi suol dirsi, e di utilità
generale. – Dopo due anni S. M. il re Umberto, recandosi il 18
luglio per l'esercitazioni navali a Livorno, si fermò, pregato,
pochi minuti alla [052] stazione della
città nostra, dov'era accorsa, colle autorità locali, numerosissima
da tutte le parti la popolazione a festeggiarlo ed acclamarto. Non
iscese egli dal treno reale, ma, mostratosi al popolo plaudente, ebbe
parole benevole pel sindaco Catanti, che l'incarico pur riceveva di
ringraziare i samminiatesi delle accoglienze lietissime.
Prima
di por termine a questo sunto, giova dare cenno sull'istruzione.
L'anno 1427 l'Opera del SS. Crocifisso, che a tutte le cose utili
prendeva parte, elesse un cappellano pel suo oratorio, coll'obbligo
di fare scuola ai figli del popolo, a tal fine assegnandogli, ogni
anno, cinquanta fiorini d'oro. Al cappellano maestro dette poi un
aiuto. Quindici anni dopo, Miniato Spagliagrani, curato di S. Jacopo
e Filippo a Pancole, fondava in quella chiesa la cappellania di S.
Niccolò di Bari, coll'onere al cappellano d'insegnar gratuitamente
grammatica ai giovani del paese. In quella chiesa si solennizzava
ogni anno la festa del santo, cui andavano col maestro
processionalmente gli scolari, e offrivano un dono in cera.
Interveniva il capitolo; e poi uno scolaro l'elogio funebre recitava
dello Spagliagrani. Nel 1710, il magistrato, in lode di lui poneva in
Duomo un'iscrizione, e nella sala del consiglio il suo busto in
marmo. – Melchiorre Ruffelli, morto nel 1527, lasciò al comune il
suo patrimonio, perché, dopo altri pii legati, [053]
pagasse un maestro di musica pei chierici, a povere fanciulle desse
due doti, e, per sette anni, quattro o cinque buoni giovani a qualche
pubblico studio d'Italia mantenesse, finché non si addottorassero in
gius civile o canonico, ovvero nelle scienze fisiche. I giovani, in
tal modo beneficiati, l'uffizio della Madonna dovevan dire, e far
celebrare ogni anno alcune Messe in suffragio del testatore. Se gli
studenti la laurea non conseguivano, le loro famiglie i danari
ricevuti dovevano restituire. Ogni anno in Duomo se ne faceva il
funerale, cui fino al 1860 assisté il municipio, e uno degli
studenti ne recitava l'elogio. La qual cosa nella stessa cattedrale
pur si faceva per lo Spagliagrani, soppressa la chiesa di Pancole.
Accanto al busto di lui venne quindi collocato quello del Ruffelli.
Giuseppe Marrucci in fine a benefizio degli studiosi lasciava il suo,
fondando due posti per l'università. Ei moriva nel 1849, e in suo
onore il municipio scolpiva in palazzo una memoria. – Per
l'educazione ed istruzione delle fanciulle si apriva nel secolo XVI
il monastero di S. Trinita; e col medesimo scopo Pietro Leopoldo, nel
1785, trasformava quello di S. Chiara in Conservatorio, colle scuole
esterne per le bambine del popolo. Queste ultime scuole poi vennero
cedute al comune, che dette loro maggiore sviluppo. – Nel 1818 il
comune acquistava il soppresso monastero di S. Trinita [054]
coll'intendimento di aprirvi pubbliche scuole e di affidarle
agli scolopi. Ma intervenne il granduca Ferdinando III, ed ebbero
vita invece le cosi dette Scuole Regie, dal governo pagate, le quali
un corso di studi comprendevano, che dalle classi elementari giungeva
alla filosofia e alle matematiche, onde poi alla università si
passava. Colle successive riforme, per le quali il comune adoperò
anche le rendite dei lasciti antichi, nello stesso locale si aprì il
ginnasio ed un liceo, che, nel 1856, pel diminuito numero degli
scolari, al solo ginnasio furon ridotti. Presentemente come cosa di
maggiore utilità pratica al paese, al ginnasio venne unita la scuola
tecnica. In questo liceo insegnarono: il Genovesi, il Gattai, il
Santi Neri, Giosué Carducci, Pietro Dazzi, Flaminio del Seppia e
Augusto Conti, il quale con Vincenzo e Antonio Salvagnoli, Giuseppe
Mantellini e Giovacchino Taddei, n'era stato alunno. Sempre mantiene
però il comune alcuni giovani agli studi universitari, e in mancanza
di essi concede sussidi agli studenti. Oltre alle scuole elementari,
vi ha pure un numeroso asilo infantile, aperto dalle monache di S.
Paolo nel 1890, e, due anni dopo, un altro ne apriva il municipio. –
S. Miniato ebbe anche le sue accademie di scienze e lettere. Nel
1644, per opera specialmente del vescovo Alessandro Strozzi, si fondò
quella degli Affidati, sotto la protezione di Cosimo II. Nel [055]
palazzo vescovile , e i cittadini più egregi vi appartenevano.
Portava il motto: Alla dolce ombra degli affidati. Dipoi venne
quella dei Rinati, il cui stemma vedesi ora nell'ingresso del palazzo
comunale col motto: Sol oritur sed non moritur. Anche questa
cessata, nel 1822 sorse l'altra degli Euteleti, che i migliori lavori
dei soci dava alle stampe. Le imprese degli accademici eran dipinte
nella sala del comune. Gli atti nella libreria del seminario si
conservano, dove si tenevano le consuete adunanze. Ma meglio delle
scuole e delle accademie dimostra ad evidenza la cultura di S.
Miniato quella serie di uomini illustri, che, dal secolo dodicesimo
ai tempi nostri, in ogni ramo di scienza si distinsero, di molti dei
quali assai diffusamente fa parola, nelle sue Memorie Storiche, il
prof. Rondoni. Essi, senza parlar dei viventi, da Pietro Comestore o
Mangiadori, che la Storia sacra ridusse in sistema scolastico, come
dice il prof. Augusto Conti, e prima di S. Bonaventura e di S.
Tommaso sedeva sulla cattedra della università di Parigi, della
quale pur anco fu cancelliere (sec. XII), fino al benemerito proposto
Giuseppe Conti, grande onore apportarono al luogo nativo, e qui, con
qualche notizia, almeno l'elenco ne riporteremo (13) [VAI ALLE NOTE
↗].
Oltre
poi alle istituzioni già nominate, trovasi a S. Miniato: una
pubblica Biblioteca, una Società di [056]
mutuo soccorso tra gli operai, fondata nel 1863; una Banca mutua
popolare, succursale a quella di Firenze, aperta nel 1866, la quale è
assai utile al commercio; una Società promotrice di buone opere, cui
quasi tutte le signore appartengono, che, dal 1878, con elargizione,
tombole, fiere di beneficenza, viene caritatevolmente in soccorso
delle famiglie povere; una Società degli asili infantili; una
Squadra di pubblica assistenza; un Comitato della croce rossa; una
Società dei reduci dalle patrie battaglie; un Comizio agrario; una
Società filarmonica; un Circolo ricreativo samminiatese; la Pretura;
la Delegazione; il R. Subeconomo dei benefizi vacanti; l'Ufficio del
registro e quello del telegrafo. La sua mite e pacifica popolazione
infine, dentro i limiti della città, ascende a tremila persone.
Il Convento di San Francesco
Foto di Francesco Fiumalbi
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