mercoledì 1 aprile 2015

LA VERGINE RAPITA

di Giuseppe Chelli

LA VERGINE RAPITA

Soltanto a una “testa calda” com’era il canonico Francesco Maria Galli Angelini, poteva venire in mente di rapire alle monache clarisse di San Paolo la statua della Madonna Addolorata!

La statua l’aveva regalata alla Compagnia della Madonna dei Sette Dolori, fondata da prete Matteucci in Cattedrale nel 1683, la signora Antonia Visdomini Cortigiani, madre del vescovo Carlo. Quando, agl’inizi del ‘700 il vescovo Poggi fondò la Compagnia della Misericordia con sede in Duomo, la statua, per suo volere, fu trasferita nel convento di Santa Chiara. Lì rimase anche dopo la fusione delle due compagnie, nonostante che la Misericordia ne fosse legittimamente proprietaria.
Nella chiesa di San Paolo, invece, la statua ci giunse in compagnia delle monache di Santa Chiara quando vi furono trasferite nel 1890. Erano tempi quelli in cui chi sedeva in alto si divertiva a sopprimere conventi, ordini religiosi, congregazioni, salvo poi derogare dalle proprie decisioni se fossero ricorsi interessi di famiglia o intercessioni di matrone facoltose. Questa sorte, toccò anche ai due conventi cittadini: uno soppresso, l’altro graziato!

Al canonico Galli non andava proprio giù che il simulacro dell’Addolorata non ricevesse la devozione dei fedeli nella chiesa della Misericordia: per l’Arciconfraternita lui vedeva e stravedeva! Aveva percorso tutte le cariche all’interno dell’Associazione: da semplice fratello era arrivato a Priore e poi a Provveditore, una specie di amministratore delegato, carica adatta a lui per il suo energico carattere di factotum! Pensate un po’: una trentina d’anni dopo il rapimento, arrivò persino a proporre ai Tedeschi, nel luglio del ‘44, di minare la sua casa invece del palazzo Roffia che gli stava di fronte, dove era la sede dell’Arciconfraternita.

Struffiava, il canonico, con quelli del Consiglio che non si decidevano mai a richiedere la statua alle Clarisse e sopportava a malincuore l’inerzia dei suo confratelli: ma un posto decoroso dove sistemare la Vergine Addolorata la Misericordia non l’aveva davvero!

La morte di Benedetto Borsarelli, capitò a fagiolo!
La mattina del 5 luglio 1914, per chi non crede ai miracoli, il postino recapitò a Palazzo Roffia una busta abbrunita, di quelle un tempo usate per tutto l’anno di lutto dalle vedove, quando le vedove vestivano di nero da capo a piedi. Nella busta c’era una lettera, anch’essa abbrunita torno torno, con la quale la signora Vincenzina Risi ved. Borsarelli partecipava di voler adempiere alle volontà del defunto marito, Conservatore dell’Arciconfraternita, versando la somma di lire cento da impiegare esclusivamente per la chiesa della Misericordia.

Vuoi vedere il Canonico Galli: dall’oggi al domani radunò il Magistrato e fece decidere all’unanimità che le 100 lire piovute dal cielo dovevano essere spese, testuali parole del verbale, per l’esecuzione di un’urna nella Chiesa onde collocarvi la Venerata Immagine di Maria SS. Addolorata, di nostra proprietà ora custodita dalle suore di San Paolo di questa Città!

Non mise tempo in mezzo: a settembre, dato che i soldi non bastavano per costruire una teca come aveva stabilito il Magistrato, aveva bell’e fatto fare una nicchia nella parete destra della chiesa della SS. Trinità con tanto di stemmi gentilizi dei vescovi Cortigiani e Pierazzi. A questo punto, il Magistrato non aveva più scuse, doveva far valere presso le monache il diritto di proprietà sul prodigioso Simulacro di Maria SS Addolorata.

La richiesta venne ufficializzata in quattro e quattr’otto all’ora di cena, la sera del 25 settembre 1914. Bisogna ora sapere che tutti gli anni, nella terza domenica di settembre, si celebrava la festa della Madonna Addolorata e che in quella occasione la statua era trasferita in duomo e poi riportata donde era partita, nella chiesa delle suore di San Paolo, a festa finita. L’aveva stabilito il vescovo Poggi, assegnando l’incombenza della traslazione ai fratelli della Misericordia.
Il canonico Galli aveva architettato un piano per riprendersi la Madonna, ma sapeva che non sarebbe stata una passeggiata. Conosceva bene i suoi polli: volevano mettere bocca in tutte le faccende di chiesa; e la bocca, i canonici, l’avevano messa sempre, anche quando si era dovuto decidere dove collocare la statua dopo la chiusura del convento di Santa Chiara.

Per la sua duplice veste di Camarlengo del Capitolo e Provveditore della Misericordia, il canonico Galli riteneva che il suo piano fosse troppo rischioso per lui: doveva accollarselo il Magistrato. Lasciamo che sia il Canonico stesso a raccontare:

La mattina del 28 settembre il Sacrista don Omero Guidotti in rappresentanza del Capitolo partì in processione dalla Cattedrale per riportare l’immagine dell’Addolorata al monastero di San Paolo da dove era stata presa una settimana prima per celebrare l’annuale festa dell’Addolorata, con ottava.
L’immagine era portata a mano da quattro fratelli dell’Arciconfraternita, ed accompagnata da uno stuolo di fedeli.
Quando giunsero davanti la Chiesa della SS. Trinità in via Umberto I, il Capo di Guardia, quello che comanda la processione, batté le mani, fermò la processione, tirò fuori di tasca un foglio e ad alta voce lesse: per ordine del Venerabile Magistrato la Madonna sia depositata nella nostra chiesa. Don Guidotti liperlì non si accorse di nulla. Quando si rese conto che la Statua veniva introdotta in chiesa, tornò sui suoi passi e sull’uscio di chiesa trovò il Presidente Antonio Ceccherelli, me, Provveditore e tutti i Membri del Magistrato vestiti di cappa a ricevere la Venerata Immagine.”

In seguito, il Canonico ricordava l’episodio con goduria, nasicando per via del diabete che curava col pane di segale, come un capolavoro di furbizia: un vero scherzo da prete, come lui stesso celiava con la sua nota ironia, ma tralasciando di dire cosa successe dopo!

Alle insistenze di Don Guidotti per sapere se la cosa era stata permessa dal Capitolo, il Presidente Ceccherelli, senza aprire bocca, consegnò una lettera da recapitare al Capitolo, ove erano trascritte le decisioni del Magistrato, a proposito della statua. Apriti cielo, appena si seppe che cosa c’era nella lettera! Si scatenò un putiferio tale che il canonico Galli credette bene dimettersi da Provveditore per far vista che lui non c’entrava nulla, e che anzi era contrario: salvo poi riprendersi la carica a bocce ferme.

Il Capitolo dei Canonici pretendeva il rispetto del riservato dominio esercitato da sempre sulla Statua; le Clarisse, per bocca della badessa suor Maria Pia Cipriani, difendevano l’inviolabile privilegio della custodia della Sacra Immagine, affidata loro dal vescovo Poggi; il vescovo Carlo Falcini ordinava che lo stesso simulacro fosse con ogni cura e premura restituito alla sua “primiera custodia” presso le monache clarisse di San Paolo.
Verrebbe da dire che il Magistrato non se ne fece né qua né là: la statua apparteneva alla Misericordia! Gliela aveva assegnata il Vescovo Pierazzi e la consegna l’aveva fatta il canonico Alessandro Franchini, per conto del Capitolo, nel dicembre 1791, con tanto di verbale d’inventario.
A dar man forte agli uomini del Magistrato, il canonico Galli, fedele al suo ruolo di burattinaio, credette bene di coinvolgere nella faccenda l’intera fratellanza e tutti i Sanminiatesi, facendo arrivare sul tavolo della Misericordia spontanee dichiarazioni giurate in Pretura e all’Ufficio del Registro che, a memoria di decine di cittadini, la Sacra Immagine era sempre appartenuta alla Misericordia. Mise su una specie di sommossa popolare che avrebbe dovuto sostenere le ragioni del Magistrato e dare torto alle gerarchie religiose, monache comprese, convinto che in quattro e quatr’otto tutto si sarebbe sistemato.

Questa volta aveva fatto male i conti: non aveva previsto la reazione del vescovo Falcini. Questi, alle prime avvisaglie di sommossa non ci pensò due volte, butto giù un Decreto, ingiungendo di riportare la statua a San Paolo, entro dieci giorni, dopo di che l’Oratorio della Misericordia sarebbe, ipso facto, interdetto “cosicché non sia lecito ai sacerdoti di celebrarvi i Sacri Misteri e qualsiasi funzione religiosa ed ai fedeli di assistervi.

Era troppo anche per chi aveva promesso al vescovo obbedienza e rispetto nel giorno della consacrazione sacerdotale. Il canonico Galli non voleva venir meno alla sua promessa, ma l’eventuale interdizione dell’Oratorio, avrebbe reso inutile il rapimento della Vergine!  Il canonico non ci dormì una notte. All’alba però aveva già escogitato il modo di tenersi la Madonna senza disubbidire al vescovo. Non era proprio sicuro di farla franca, ma non vedeva altra scappatoia. Doveva tentare, era l’ultima carta da giocare. Azzardò, come sempre conoscendo i suoi polli!

Convincere il Magistrato a sottoporre l’Interdetto vescovile e tutti gli allegati documenti alla valutazione del Tribunale della Sacra Romana Rota, fu questione di un amine!
Non si è saputo, e il Canonico Galli non ha mai fiatato sull’argomento, se il ricorso alla Sacra Rota fosse preparato per far sul serio o per celia, conoscendo il tipo. Per certo lui sapeva che l’esposto prima di essere spedito doveva ricevere a una specie di imprimatur del vescovo, altrimenti il Vaticano l’avrebbe rispedito al mittente. Era quello che voleva: far sapere al vescovo, senza dirglielo, che il suo Interdetto era connotato da vizi di legalità, in quanto si presentava come sentenza giudicata in assenza di un dibattimento procedurale.

Il plico non partì per Roma. Il 27 marzo 1915, nell’episcopio, un incontro tra il vescovo Falcini e il presidente Ceccherelli si concluse con una stretta di mano. La Vergine Rapita rimase dove ancora si trova!
Dimenticavo. Ci sono alcuni che dicono che la faccenda non si sia chiusa così sbrigativamente a tarallucci e vino. Ci vollero alcuni giorni prima di trovare un accordo. Può darsi che costoro abbiano ragione. Per togliersi ogni dubbio basta verificare se nell’Archivio della Misericordia esista ancora il fascicolo n. 30, foglio 13, con su scritto “Vertenza Simulacro Maria SS. Decreto Vescovile”.
Io l’ho fatto.

La processione settembrina della Madonna Addolorata
in Piazza del Seminario a San Miniato
Foto di Filippo Del Campana Guazzesi – Fine XIX secolo
Immagine tratta da Il silenzio del negativo. Filippo Del Campana Guazzesi fotografo in San Miniato, a cura di G. Marcenaro, CRSM, Sagep Editrice, Genova, 1981, p. 121, n. 113.
Utilizzo ai sensi art. 70 comma 1-bis della
Legge 22 aprile 1941, n. 633

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