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di
Stefano Bartoli
La strada che sale da La Scala e passa dal Riposo e dalla Madonnina è, ad un certo punto, sovrastata dal complesso del Convento dei Frati francescani. La stradina che si apre sulla sinistra e ti porta giù nella valle ti dà anche accesso a Fonti alle fate, un posto dove sgorgava sempre acqua freschissima. Da quel punto la strada sale e forma una doppia U rovesciata. Fra quelle anse di asfalto si trova ancora una bella pineta, circondata da basse siepi, con il terreno sempre coperto da tanti aghi di pino. Noi li chiamavano i “giardinetti rustici” per distinguerli dai “giardini” più nobili e più frequentati del “piano di sopra”. I giardini del piazzale erano sempre curati, l’Aramini faceva un ottimo lavoro con le rose, i cespugli, le siepi, le porzioni rettangolari di prato sempre ben curato ed i sassi dei vialetti rastrellati per tenere sempre il giusto spessore, così da facilitare l’appoggio del piede e della camminata.
Noi ragazzi andavamo a giocare anche ai giardinetti rustici, lì eravamo più riparati e meno controllati. Ricordo un grande pino, nella parte alta, quella più vicina alla curva della casa di Manila, due grandi radici che partivano ai lati della pianta e lasciavano un ampio spazio nel quale potevi sederti, una specie di “trono” per la mia fervida fantasia dell’epoca. Distendevo le braccia, una su ogni radice, chiudevo gli occhi e mi immaginavo nelle vesti di Carlo Magno, o di Riccardo Cuor di Leone, o semplicemente di Toro seduto, con la corte o la tribù schierata di fronte a me.
Appena arrivava Lido, il fratello di Piera, s’iniziava a costruire la pista per i tappini. Lui, con quelle mani grandi e robuste, era molto bravo a lisciare il terreno e disegnare i percorsi, scavare buche ed alzare ponticelli, poi batteva la terra mischiata agli aghi di pino per fare i ciglioni che delimitavano la pista per poi lisciare bene la carreggiata dove avrebbero corso i nostri tappini. A vederlo lavorare ti veniva da pensare che, da grande, avrebbe potuto fare l’ingegnere stradale. Io, insieme a Fabrizio, il futuro marito di Catia e Renzo, l’eterno giovanotto, il figlio di “marmellata”, davamo una mano fino a quando tutto non era pronto. Ognuno iniziava poi a tirar fuori dalle tasche i migliori tappini, preparati con cura. I nostri fornitori erano al Bar Bulleri, Il Bar Lami ed il circolino di via Paolo Maioli gestito dalla famiglia Lotti. Cercavi i tappi delle bottigliette di Birra Peroni, del Campari Soda, delle aranciate o dei chinotti, della gassosa perché erano piccoli e leggeri. Sceglievi quelli non rovinati dallo stappino del barista, buttavi quelli piegati e prendevi quelli con il fondo liscio. Evitavi quelli delle bottiglie di acqua Sammontana da due litri, troppo larghi e grossi, pesanti per prendere velocità.
A casa disegnavi dei cerchietti su di un foglio di quaderno a quadretti aiutandoti con una moneta da cento lire, due linee con la penna per lasciare bianca la riga centrale, lì avresti poi scritto il nome del corridore, ed infine i colori della maglia, marrone e nero per la Molteni, azzurro per la Bianchi, poi azzurro e rosso per la Salvarani, a quadretti bianchi e rossi e bianchi e neri per la squadra belga e quella tedesca.
Nell’estate del 1967 o 1968 nel nostro piccolo paradiso inizio un gran via vai, un movimento di mezzi e di operai del Comune che, in pochi giorni, montarono il nuovo parco giochi. Diverse strutture di metallo verniciato a smalto con colori vivaci: rosso, giallo, azzurro e, per la meraviglia di tutti si alzarono da terra un bello scivolo rosso, con in fondo la buchetta con la rena, per attutire l’arrivo in velocità, una doppia altalena con i seggiolini di formica e le catenelle di sicurezza che t’impedivano di cadere in avanti, una seconda altalena fatta a trave basculante con due sedili per lato ed i manubri su cui appoggiarsi e la giostra, di fronte all’ingresso dei giardini. Una dozzina di sedili di formica montati in cerchio intorno ad un anello al quale ti reggevi e con il quale potevi darti la spinta. Anche qui era montata l’obbligatoria catenella di sicurezza.
Il vero punto d’incontro e di confronto divenne lo scivolo, lì facevamo la fila insieme, ragazzi e ragazze. Loro attente a non farci intrufolare in mezzo, che si stringevano con le braccia l’una con l’altra e noi ragazzi che volevamo sempre rompere la fila ed insinuarsi. Lo scopo? Scivolare subito dietro ad una ragazzina e riuscire a metterle le piante dei piedi su ciò che all’epoca non si chiamava ancora lato B. Per Loro Anna, Cecilia, Daniela, Donatella, Lucia, Morena e altre, per noi tutta la banda sopra menzionata.
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I
giardinetti rustici di San Minato.
La strada che sale da La Scala e passa dal Riposo e dalla Madonnina è, ad un certo punto, sovrastata dal complesso del Convento dei Frati francescani. La stradina che si apre sulla sinistra e ti porta giù nella valle ti dà anche accesso a Fonti alle fate, un posto dove sgorgava sempre acqua freschissima. Da quel punto la strada sale e forma una doppia U rovesciata. Fra quelle anse di asfalto si trova ancora una bella pineta, circondata da basse siepi, con il terreno sempre coperto da tanti aghi di pino. Noi li chiamavano i “giardinetti rustici” per distinguerli dai “giardini” più nobili e più frequentati del “piano di sopra”. I giardini del piazzale erano sempre curati, l’Aramini faceva un ottimo lavoro con le rose, i cespugli, le siepi, le porzioni rettangolari di prato sempre ben curato ed i sassi dei vialetti rastrellati per tenere sempre il giusto spessore, così da facilitare l’appoggio del piede e della camminata.
Noi ragazzi andavamo a giocare anche ai giardinetti rustici, lì eravamo più riparati e meno controllati. Ricordo un grande pino, nella parte alta, quella più vicina alla curva della casa di Manila, due grandi radici che partivano ai lati della pianta e lasciavano un ampio spazio nel quale potevi sederti, una specie di “trono” per la mia fervida fantasia dell’epoca. Distendevo le braccia, una su ogni radice, chiudevo gli occhi e mi immaginavo nelle vesti di Carlo Magno, o di Riccardo Cuor di Leone, o semplicemente di Toro seduto, con la corte o la tribù schierata di fronte a me.
Appena arrivava Lido, il fratello di Piera, s’iniziava a costruire la pista per i tappini. Lui, con quelle mani grandi e robuste, era molto bravo a lisciare il terreno e disegnare i percorsi, scavare buche ed alzare ponticelli, poi batteva la terra mischiata agli aghi di pino per fare i ciglioni che delimitavano la pista per poi lisciare bene la carreggiata dove avrebbero corso i nostri tappini. A vederlo lavorare ti veniva da pensare che, da grande, avrebbe potuto fare l’ingegnere stradale. Io, insieme a Fabrizio, il futuro marito di Catia e Renzo, l’eterno giovanotto, il figlio di “marmellata”, davamo una mano fino a quando tutto non era pronto. Ognuno iniziava poi a tirar fuori dalle tasche i migliori tappini, preparati con cura. I nostri fornitori erano al Bar Bulleri, Il Bar Lami ed il circolino di via Paolo Maioli gestito dalla famiglia Lotti. Cercavi i tappi delle bottigliette di Birra Peroni, del Campari Soda, delle aranciate o dei chinotti, della gassosa perché erano piccoli e leggeri. Sceglievi quelli non rovinati dallo stappino del barista, buttavi quelli piegati e prendevi quelli con il fondo liscio. Evitavi quelli delle bottiglie di acqua Sammontana da due litri, troppo larghi e grossi, pesanti per prendere velocità.
A casa disegnavi dei cerchietti su di un foglio di quaderno a quadretti aiutandoti con una moneta da cento lire, due linee con la penna per lasciare bianca la riga centrale, lì avresti poi scritto il nome del corridore, ed infine i colori della maglia, marrone e nero per la Molteni, azzurro per la Bianchi, poi azzurro e rosso per la Salvarani, a quadretti bianchi e rossi e bianchi e neri per la squadra belga e quella tedesca.
Il
sorteggio per decidere chi tirava per primo e via con la corsa, il
dito medio piegato dal pollice pronto a scattare e colpire il tappino
per farlo volare lungo la pista e via con il semplice e genuino
divertimento.
Nell’estate del 1967 o 1968 nel nostro piccolo paradiso inizio un gran via vai, un movimento di mezzi e di operai del Comune che, in pochi giorni, montarono il nuovo parco giochi. Diverse strutture di metallo verniciato a smalto con colori vivaci: rosso, giallo, azzurro e, per la meraviglia di tutti si alzarono da terra un bello scivolo rosso, con in fondo la buchetta con la rena, per attutire l’arrivo in velocità, una doppia altalena con i seggiolini di formica e le catenelle di sicurezza che t’impedivano di cadere in avanti, una seconda altalena fatta a trave basculante con due sedili per lato ed i manubri su cui appoggiarsi e la giostra, di fronte all’ingresso dei giardini. Una dozzina di sedili di formica montati in cerchio intorno ad un anello al quale ti reggevi e con il quale potevi darti la spinta. Anche qui era montata l’obbligatoria catenella di sicurezza.
I
cartelli recitavano che non si poteva salire sulle giostre se si
avevano compiuti dodici anni di età.
Tutti noi ragazzi avevamo superato questo limite da qualche mese ma non ci facemmo intimorire e nessuno venne mai a chiederci il rispetto di questa regola. Chi non la rispettò in pieno fu Gino, mio zio, allora quarantacinquenne che, mi confessò, non aveva saputo rinunciare a qualche scivolata notturna insieme al gruppo dei ragazzini che giocavano sempre con Lui a pallone, il Bocca, il Rossi e gli altri, tutti giovanottini scioani di quindici, sedici anni che lo avevano accompagnato in questa inaugurale spedizione notturna alle giostre. A mezzanotte tutti a letto, madidi di sudore e con gli occhi sorridenti per il divertimento e per la beffa al regolamento comunale.
Tutti noi ragazzi avevamo superato questo limite da qualche mese ma non ci facemmo intimorire e nessuno venne mai a chiederci il rispetto di questa regola. Chi non la rispettò in pieno fu Gino, mio zio, allora quarantacinquenne che, mi confessò, non aveva saputo rinunciare a qualche scivolata notturna insieme al gruppo dei ragazzini che giocavano sempre con Lui a pallone, il Bocca, il Rossi e gli altri, tutti giovanottini scioani di quindici, sedici anni che lo avevano accompagnato in questa inaugurale spedizione notturna alle giostre. A mezzanotte tutti a letto, madidi di sudore e con gli occhi sorridenti per il divertimento e per la beffa al regolamento comunale.
La
giostrina girevole era molto gettonata dalle ragazzine, è lì che è
nato il mito delle “bambine frullate nel vento”, la bella
immagine in movimento che ci ha disegnato Cecilia e che tanta
nostalgia porta nel ricordo di molte.
Elisabetta
era fra le più piccoline però avrà sicuramente partecipato con
entusiasmo e contribuito a spingere veloce i sedili fissati intorno
al cerchio per poi lasciarsi abbandonare alla velocità assaporando
il vento sulla faccia e nei capelli, per lasciare che portasse
lontano le risate squillanti ed i gridolini di gioia. Sull’altalena
erano in tanti a salire in piedi, anche se proibito, ed a spingere in
modo forsennato per far prendere velocità ed oscillare al massimo
del consentito.
Noi
ragazzi di sotto, un po’ distanti, in posizione strategica per
guardare le gambe delle ragazzine che spuntavano dalle corte gonne
dell’epoca per poi dibattere, in privato su quale ragazza aveva le
gambe più belle o per scambiarci informazioni sul colore delle
mutandine che indossavano.
Erano i primi sintomi di una acerba adolescenza che iniziava a farsi sentire e Ti faceva guardare l’altro sesso in modo diverso, venivamo tutti da una scuola elementare a classi miste dove bambine e bambini giocavano insieme senza malizia ed eri arrivato da poco alle scuole medie. Il preside Gamucci ci aveva dato subito un chiaro messaggio di cambiamento di stato, classi rigorosamente separate ed aule situate su piani diversi. Quelle maschili al primo piano, quelle femminili al secondo. L’epoca della fine degli anni sessanta voleva i due sessi ben distinti e separati. Per fortuna arrivò il sessantotto e, l’anno successivo, l’accesso alle superiori che ci permise di ristabilire “classi miste” ed una frequentazione completa e più giusta.
Erano i primi sintomi di una acerba adolescenza che iniziava a farsi sentire e Ti faceva guardare l’altro sesso in modo diverso, venivamo tutti da una scuola elementare a classi miste dove bambine e bambini giocavano insieme senza malizia ed eri arrivato da poco alle scuole medie. Il preside Gamucci ci aveva dato subito un chiaro messaggio di cambiamento di stato, classi rigorosamente separate ed aule situate su piani diversi. Quelle maschili al primo piano, quelle femminili al secondo. L’epoca della fine degli anni sessanta voleva i due sessi ben distinti e separati. Per fortuna arrivò il sessantotto e, l’anno successivo, l’accesso alle superiori che ci permise di ristabilire “classi miste” ed una frequentazione completa e più giusta.
Il vero punto d’incontro e di confronto divenne lo scivolo, lì facevamo la fila insieme, ragazzi e ragazze. Loro attente a non farci intrufolare in mezzo, che si stringevano con le braccia l’una con l’altra e noi ragazzi che volevamo sempre rompere la fila ed insinuarsi. Lo scopo? Scivolare subito dietro ad una ragazzina e riuscire a metterle le piante dei piedi su ciò che all’epoca non si chiamava ancora lato B. Per Loro Anna, Cecilia, Daniela, Donatella, Lucia, Morena e altre, per noi tutta la banda sopra menzionata.
La
ragazza che si trovava dietro un ragazzino si stringeva alla
ringhiera laterale dello scivolo con le mani e con le braccia
allungate, il corpo proteso all’indietro, per prendere vantaggio e
slancio, anche per mettere un minimo di distanza fra Lei e
l’inseguitore. Lui che fremeva dietro per prendere subito
posizione, e saltare giù in velocità per recuperare un metro di
svantaggio sui quattro o cinque di scivolata.
Inseguivo
spesso Cecilia ma non riuscivo mai a prenderla, Lei “volava”
sempre lesta, atterrava sui piedi uniti e scapava subito via. Anche
questa volta toccava a Cecilia a scendere, io subito dietro, Lei,
rapida, arriva in fondo, batte sul terreno a piedi uniti e si slancia
in avanti, un balzo ed è subito più in là, lontano dalle suole
delle mie scarpe. Mentre si allontana si volta, un rapido sguardo con
quelli occhi brillanti e maliziosi, un leggero ed ironico sorriso
quasi a dire: Caro Stefano, ti ho beffato, non ce l’hai fatta a
prendermi. Diversi minuti più tardi ho una seconda occasione, sono
riuscito ad infilarmi dietro ad Anna, la cugina di Cecilia. Anna
parte più lenta o forse sono io che balzo giù più veloce, prima
della fine dello scivolo la raggiungo e le suole polverose delle mie
scarpe di cuoio si appoggiamo dietro di Lei, sul fondo schiena. Lei
esce dallo scivolo e si volta, ha le guance un po’ arrossate e
negli occhi un muto rimprovero. Il mio trionfante sorriso mi si
spenge sulle labbra ed il sapore della vittoria mi sembra diverso da
come lo avevo immaginato, è un po’ amaro. Mi sento uno sciocco,
vorrei scusarmi ed aiutarla scuotere la polvere dalla gonna pantalone
blu ma non si può, come fai a mettere le mani sul sedere di una
ragazzina, poi è già circondata dalle amiche che la aiutano a
pulirsi. Mi allontano, salgo verso la sommità dei giardini e quando
sono vicino all’ingresso della curva che è subito sotto la casa di
Manila, avverto il rumore di una lambretta. E’ Beppe, entra nei
giardini, frena, scende dal veicolo e lo posteggia semisdraiato
sull’erba, a sinistra, vicino alla siepe. Lui si butta subito a
terra, sul prato, a destra. Viso rivolto verso le nuvole, braccia
larghe piegate con le mani sotto la testa, ginocchia alzate verso il
cielo. Ha la camicia di foggia militare aperta sul petto che solleva
in continuazione con qualche sospiro. Qualche
parola e capisci che sono pene d’amore, è successo qualcosa con la
Sua ragazzina e questo lo fa stare così. A quell’età, circa tre o
quattro anni più di noi fanno un gran differenza, Lui è già nel
pieno dell’adolescenza mentre noi stavamo appena affacciandovi.
E’
sera, piano piano il giardino si svuota, le ragazze ed i ragazzi
rientrano a casa felici. Quasi per ultima Mara Pia scende
dall’altalena e si avvia verso casa, Paolo l’ha guardata rapito
per ore, non gli ha mai tolto gli occhi di dosso e le ha fatto tanti
complimenti. Ora si avviano insieme, quasi toccandosi per mano. Non
sembra strano a nessuno che Lui che abita verso il Poggio si diriga
verso S. Martino per rientrare a casa.
Tu
rimani a dondolare ancora un po’, la maglietta rossa, i lunghi
capelli mossi dal vento, sei bellissima. Non salgo sull’altalena
accanto a Te, aspetto che scendi. Appena lo fai Ti vengo incontro e
trovo il coraggio di dirti: Sai vorrei fossimo più grandi per
poterti invitare ad uscire ed andare a cena fuori con me. Sarebbe
bello.
Mi
guardi sorpresa, non hai reazioni, forse sei imbarazzata oppure,
semplicemente, non sei interessata. Dodici anni o poco più, o poco
meno, sono ancora pochi. Mi sa che dovrò aspettare ancora un po’.
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A questo punto devo ringraziare l’Amministrazione comunale dell’epoca che con lungimiranza e qualche soldino investito su di noi ragazzi ci ha regalato un parco attrezzato per i giochi che e rimasto vivo e vitale per più di un decennio. Bello sarebbe che oggi si riuscisse, in qualche modo, a replicare una iniziativa simile. Sarà un buon investimento nelle future generazioni.
A questo punto devo ringraziare l’Amministrazione comunale dell’epoca che con lungimiranza e qualche soldino investito su di noi ragazzi ci ha regalato un parco attrezzato per i giochi che e rimasto vivo e vitale per più di un decennio. Bello sarebbe che oggi si riuscisse, in qualche modo, a replicare una iniziativa simile. Sarà un buon investimento nelle future generazioni.
I
“Giardinetti Rustici”
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