domenica 10 gennaio 2016

ADDSM – COMMENTO – 1274, 9 NOVEMBRE – I BENI DEL TESORIERE REALE A SAN MINIATO

a cura di Francesco Fiumalbi

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[prima revisione 9 novembre 2016]

ARCHIVIO DOCUMENTARIO DIGITALE DI SAN MINIATO
ADDSM – 1274, 9 novembre – I beni del tesoriere reale a San Miniato

In questa pagina è proposto il commento relativo ad un interessante documento conservato presso l'Archivio di Stato di Firenze (ASFi, Diplomatico, Comune di San Miniato, 1274 novembre 9).
Fu pubblicato da Giovanni Lami all'interno del primo tomo dell'opera Sanctae Ecclesiae Florentinae Monumenta, data alle stampe in Firenze nell'anno 1758. Il testo è alle pagine 494-495.

IL DOCUMENTO
Il documento riporta la dichiarazione rilasciata da Iacobus de Bufona (nome italianizzato di Jacques de Bourson, nobile provenzale), Vicario Regio per la Toscana, per l'avvenuta consegna dei beni appartenuti a Magistri Rainaldi de Campis, Tesoriere Regio per la Toscana, morto durante il suo mandato nell'anno 1274. La dichiarazione è corredata con tanto di “Inventario” degli oggetti che fino a quel momento erano rimasti in custodia presso il Comune di San Miniato. Tali beni erano stati recapitati per tramite di Domino Gerardo Rodulfi, definito iusperito, cioè esperto in diritto, in veste di rappresentante del Comune di San Miniato. L'atto venne registrato il 9 novembre 1274 presso Montepulciano, ma dal testo non è chiaro in quale luogo fosse avvenuta la morte di Rainaldo. Viene specificato solamente che i beni erano rimasti in San Miniato ed erano stati tenuti e conservati dal Comune. Da ciò si può ipotizzare che proprio presso San Miniato si trovasse la “sede” tributaria e quindi l'“ufficio” del tesoriere, un po' come avvenuto fin dall'epoca di Federico I “Barbarossa”. D'altra parte San Miniato, assieme a Prato e Montepulciano, mantenne la prerogativa della sede del Tribunale, come era fin dai tempi di Federico I "Barbarossa" ed è probabile che avesse mantenuto anche prerogative fiscali.
Da un punto di vista giuridico, la dichiarazione del Vicario può essere vista come una sorta di “attestato di avvenuta consegna”. Infatti, al termine dell'atto troviamo specificato che hoc presens publicum Instrumentum fu redatto ad foturam memoriam, e più precisamete a cautelam del “sindaco” (cioè del rappresentante) e del Comune di San Miniato stesso. In questo modo qualsiasi cosa fosse accaduto ai beni del tesoriere, Domino Gerardo Rodulfi e il Comunis Sancti Miniatis sarebbero stati sollevati da ogni responsabilità, e al tempo stesso dichiaravano di rinunciare a qualsiasi diritto sui medesimi oggetti.
Si può pensare che il Vicario, una volta ottenuta la disponibilità dei beni, si fosse adoperato alla contabilizzazione dei tributi raccolti dal defunto e alla restituzione dei beni personali alla famiglia del tesoriere.

IL CONTESTO TOSCANO DOPO LA MORTE DI FEDERICO II
Siamo nel periodo che va dalla morte di Federico II di Svevia (1250) alla definitiva cacciata dei Vicari Imperiali di stanza a San Miniato (1288). E' un quarantennio caratterizzato da aspri contrasti sia a livello toscano (contrapposizione fra Guelfi e Ghibellini, intessuta dalla lotta dei vari centri per l'egemonia sulla regione) che a livello europeo, con il cosiddetto periodo del “Grande Interregno” (1245-1273), superato con l'elezione di Rodolfo I d'Asburgo. Quest'ultimo formalmente era Re di Germania e Re dei Romani, ma non ebbe mai il titolo di “Imperatore”. In Toscana, proprio negli stessi anni, faceva valere la propria supremazia Carlo I d'Angiò (figlio del Re di Francia Luigi VIII), Re di Sicilia e Re di Napoli collegato alla parte guelfa. Infatti, nel documento proposto, sia il vicario che il tesoriere di stanza a San Miniato non vengono qualificati come “imperiali”, bensì come “reali”, poiché referenti del Re Carlo. D'altra parte, anche il centro sanminiatese aveva prestato giuramento di fedeltà a Carlo d'Angiò nel 1272 e quindi era entrato a far parte stabilmente dell'orbita guelfa [in proposito F. Salvestrini, Il nido dell'aquila. San Miniato al Tedesco dai vicari dell'Impero al vicariato fiorentino del Valdarno Inferiore (secc. XI-XIV) in Il Valdarno Terra di confine nel Medioevo (Secoli XI-XIV), a cura di A. Malvolti e G. Pinto, Atti del Convegno di Studi, 30 settembre – 2 ottobre 2005, Leo S. Olschki Editore, Firenze, 2008, p. 251].

CARLO D'ANGIO' E LA TOSCANA - PRIMA FASE
I rappresentanti di Carlo d'Angiò in Toscana non seguivano proprio lo stesso schema dei “vicari imperiali” – documentati a San Miniato a partire dal 1160, quando sul trono sedeva l'Imperatore Federico I “Barbarossa” – sebbene avessero compiti militari e amministrativi. Per circa un quindicennio Carlo d'Angiò esercitò una "superiore podestà" sui principali Comuni toscani.
Nella prima fase di questo periodo, indicativamente dal 1267 al 1270, Carlo d'Angiò raccolse le adesioni delle due principali città guelfe: Firenze e Lucca. A queste poi si affiancarono gli altri centri che storicamente gravitavano all'interno della Lega Guelfa come Pistoia, San Gimignano, Colle Valdelsa, Volterra, Arezzo, Cortona, Montepulciano e Borgo San Sepolcro.
Si trattava di una forma di sudditanza che formalmente era solo un'alleanza. Le comunità toscane si impegnavano nei confronti di Carlo d'Angiò a combattere i comuni nemici, mentre il re angioino offriva la promessa di un'alta protezione. In questa fase non era previsto il pagamento di tributi e nemmeno l'interferenza circa l'elezioni delle cariche politiche.
Fin dal 1267 Carlo d'Angiò aveva disposto la presenza di "Vicario Generale", ovvero un suo rappresentante con il compito di curare i rapporti con i centri della Toscana. Tale Vicario aveva anche il titolo di "Maresciallo", con evidenti richiami anche alla sfera militare. Una scelta che in qualche modo ricordava lo schema organizzativo imperiale, a cui le città toscane erano abituate, forti di una consuetudine plurisecolare. A Lucca e Firenze, dove a Carlo era attribuita la carica diretta di Podestà, il sovrano aveva provveduto a creare dei "Vicari Cittadini".
[per chi desidera approfondire G. taddei, La coordinazione politica di Carlo I d'Angiò sulle città toscane. Modelli monarchici in terra di Comuni, in Le signorie cittadine in Toscana: esperienze di potere e forme di governo personale (secoli XIII-XIV), a cura di A. Zorzi, Roma, Viella, 2013, pp. 59-61]

CARLO D'ANGIO' E LA TOSCANA - SECONDA FASE
A partire dal 1270 si assiste all'instaurazione di una seconda fase nel rapporto fra Carlo d'Angiò e la Toscana, a seguito di iniziative di tipo autoritario da parte della Corona. Innanzitutto impose la scelta dei rappresentanti politici: le città e i comuni presentavano al sovrano una rosa di nominativi fra i quali sarebbe caduta la scelta del sovrano. In questo modo il sovrano entrava nella politica delle singole realtà cittadine e comunali, controllando l'elezione del Podestà.
Inoltre entrarono a far parte della sfera di influenza di Carlo anche quei centri storicamente vicini all'Impero e alle posizioni ghibelline, come Pisa e Siena. E' in questo frangente che anche San Miniato, nel 1272, fece giuramento di fedeltà al Re di Sicilia e di Napoli.
In questa fase Carlo d'Angiò applicò una sorta di dominazione "leggera", utile tuttavia a garantirsi importanti alleanze militari contro Corradino di Svevia, in una terra, come la Toscana, solcata storicamente da profonde divisioni e lacerazioni, e in un clima tutt'altro che stabile.
Da un punto di vista organizzativo, Carlo d'Angiò separò le competenze politiche da quelle strettamente militari, affiancando alla figura del Vicario Generale quella autonoma del Maresciallo. Un elemento, quest'ultimo, certamente indicatore del mutato rapporto. 
[per chi desidera approfondire G. taddei, La coordinazione politica di Carlo I d'Angiò sulle città toscane. Modelli monarchici in terra di Comuni, in Le signorie cittadine in Toscana: esperienze di potere e forme di governo personale (secoli XIII-XIV), a cura di A. Zorzi, Roma, Viella, 2013, pp. 60-62]

LA POLITICA FISCALE DI CARLO D'ANGIO' IN TOSCANA

Sempre nella seconda fase il sovrano angioino iniziò una politica "fiscale", tuttavia senza imporre tassazioni periodiche vere e proprie. E' forse nell'assenza di un vero e proprio "fodro", fondamentale per la politica degli imperatori svevi, che si può osservare una delle chiavi dell'iniziale successo della politica di Carlo in Toscana. I tributi infatti erano piuttosto delle "taglie" occasionali, dettate da motivazioni specifiche e contingenti, contrattate di volta in volta. Per la riscossione dei tributi era stata istituita una figura di riferimento: il "Tesoriere Generale" per la Toscana. All'atto pratico fu un mero esattore, senza incidere sui sistemi fiscali delle singole realtà cittadine e comunali. [per chi desidera approfondire G. taddei, La coordinazione politica di Carlo I d'Angiò sulle città toscane. Modelli monarchici in terra di Comuni, in Le signorie cittadine in Toscana: esperienze di potere e forme di governo personale (secoli XIII-XIV), a cura di A. Zorzi, Roma, Viella, 2013, pp. 63-64]
In ogni caso, nel tesoriere era riposta la massima fiducia da parte della corona, proprio perché da tale figura dipendeva la sopravvivenza “finanziaria” della corte e le varie iniziative, su tutte le campagne militari. Tra l'altro Carlo I d'Angiò era molto attivo: tra le altre cose, aveva partecipato alla settima (1249-50) e ottava (1270) crociata, a fianco del fratello Luigi IX. Ancora, era stato fra i protagonisti, assieme ad Edoardo I d'Inghilterra, della nona ed ultima crociata (1271-72). Senza dimenticare la campagna militare in Albania (1271-72) e le operazioni contro Genova (1273) in cui uscì sconfitto. E poi, nel maggio precedente all'atto, durante il Concilio di Lione, Papa Gregorio X aveva proclamato la decima crociata che, tuttavia, non prese mai corpo. Tutte iniziative che richiedevano considerevoli impegni finanziari.

GLI OGGETTI DEL TESORIETE
Magistri Rainaldi de Campis era il “tesoriere” regio, cioè era colui che aveva il compito di raccogliere i tributi dalle varie popolazioni della toscana, custodirli e contabilizzarli (con ogni probabilità, presso San Miniato), per poi inviarli al sovrano o comunque nel luogo dove si trovava la sede amministrativa della corte reale. Dunque svolgeva un ruolo molto importante e poteva godere di condizioni di vita relativamente agiate, almeno secondo i canoni dell'epoca. L'inventario dei suoi oggetti, di cui è rimasta memoria in questo documento, ne rivela il tenore. Si tratta di manufatti di uso comune, tuttavia realizzati con materiali di notevole pregio come l'argento, l'avorio o il corallo, oltre ad una serie di indumenti, vari capi d'abbigliamento e due cavalli. Per il tenore di vita contemporaneo possono sembrare cose modeste, ma all'epoca (seconda metà del '200) molti di questi oggetti potevano essere considerati dei veri e propri beni di lusso. Vi sono poi i soldi, frutto evidentemente della sua attività di riscossione tributaria. Rispetto al denaro nella sua disponibilità personale, le monete erano contenute in sacchetti “sigillati”, cioè chiusi ermeticamente con un sigillo di cera appositamente marchiato. Era l'unico espediente dell'epoca, per evitare o comunque tentare di limitare, il “peculato”. Infatti nell'atto viene specificato che la stima del denaro è fatta “a peso” (“ut apparebas per pondus”), proprio per non rompere i sigilli.

Di seguito l'elenco degli oggetti catalogati:
  • due nappi d'argento senza piedini (erano vasi o bacinelle usati per lavare il corpo);
  • una coppa in argento con piedistallo a cui era stata rimossa la doratura originaria;
  • tre anelli in argento;
  • un anello in oro;
  • un bracciale dentellato in argento;
  • un bracciale “muscolare” in argento;
  • una piccola cintura in argento ornata con un “siriaco” nero;
  • uno specchio in avorio “secco” con lacci e palline “siriaci”;
  • due infule “siriaca” (bende di lana, usate in ambito religioso, come nella mitra vescovile, o comunque per segnalare il il ruolo e il rango elevato);
  • un “manubrio” (un manico?) in avorio con argento;
  • una infula di panno (benda comune);
  • un marsupio “sirico”, con all'interno delle spezie, un coltello rotto col manico in corallo, due coppie di bilancini con relativi pesi;
  • una verga con coltello;
  • una coppia di cesoie;
  • un marsupio “sirico” vecchio;
  • due guanti con all'interno 21 fiorini d'oro;
  • una “traversagna” malandata;
  • due sacchi;
  • una guarnacca foderata di vario (una sopravveste);
  • un cappuccio foderato di vario;
  • una guarnacca senza maniche;
  • un “confetto” con finiture in corallo (probabilmente era un piccolo porta oggetti);
  • un “capace” (un altro tipo di porta oggetti, forse un piccolo sacco);
  • una tunica di “tritana” (stoffa con ordito di lino o di cotone e la trama di lana);
  • una guarnacca;
  • un sopratunica con due “capaci” (tasche?) di “tratana stamellina”, foderati di zendado (tessuto per lo più di seta) di colore nero;
  • un cappuccio;
  • una cappellina di “perso” (un tessuto orientale, “persiano”) foderato di vario;
  • una guarnacca di “perso”;
  • un “doppiello” di “pingolato” (??);
  • una fodera di “mufelli” (?) vari;
  • una coperta di panno rosso foderata di zampa di lepre;
  • una cultra (coperta pesante) di zendado rosso;
  • dieci “biancherie” (mutande o qualcosa del genere?);
  • un guanciale;
  • nove capitergi (potrebbero essere delle “pezzole”, piccoli pezzi di panno di lino o cotone, utili per asciugare o coprire la testa);
  • una “causape” (?);
  • due manutergia (asciugamani o qualcosa di simile);
  • tre strabule (“brache”), di cui una per “molare”, una come fodera di zendado giallo invecchiato e una per “manicare” il panno “carbonato”;
  • due pezzi di zendado rosso e uno di zendado verde, oltre ad un cappello di feltro e a due paia di fiaschi di “tramericio” (bevanda liquorosa?);
  • un piccolo contenitore portametalli (“ferreriam”) con dodici piccoli spicchi d'argento;
  • cinquantaquattro “solidi” o “soldi”, oltre a sette “denari” pisani tenuti in alcuni piccoli sacchetti non sigillati;
  • trenta “soldi” e quattro spicchi di “aquilino grosso” d'argento (moneta coniata a Merano nel XII sec.), oltre a quattro “soldi” e sette “denari” pisani, inseriti in un sacchetto sigillato con cera rossa in modo che non potessero essere usati;
  • sessantadue “libbre” pisane piccole, contenute in alcuni sacchetti con lo stesso sigillo (stima a peso);
  • cinquanta “libbre” pisane piccole e tre spicchi in un sacchetto con lo stesso sigillo, ma in cera verde (stima a peso);
  • altri oggetti;
  • due cavalli, di cui uno a pelo rosso e uno a pelo nero, che è un “ronzino”.
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G. Lami, Sanctae Ecclesiae Florentinae Monumenta,
Firenze, 1758, frontespizio.


[prima revisione 9 novembre 2016]

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