sabato 26 marzo 2016

IL “CRISTO RISORTO” DI FRANCESCO BARATTA IL GIOVANE NELLA SCALINATA DEL SANTUARIO DEL SS. CROCIFISSO A SAN MINIATO

a cura di Francesco Fiumalbi

APSM-ISVP-015
IL “CRISTO RISORTO” DI FRANCESCO BARATTA IL GIOVANE

SCHEDA SINTETICA
Oggetto: Statua raffigurante "Cristo Risorto"
Luogo: San Miniato, Scalinata del Santuario del SS. Crocifisso di Castelvecchio
Tipologia: Nicchia
Tipologia immagine/materiale: Statua/marmo di Carrara
Soggetto: Cristo Risorto
Altri soggetti: NO
Autore: Francesco Baratta "il Giovane"
Epigrafe: SI - Christus resurgens ex mortuis, jam non moritur
Indulgenza: NO
Periodo1723, ricollocata nel 1867
Riferimenti:
Id: APSM-ISVP-015

Sommario del post:
INTRODUZIONE
L'AUTORE: FRANCESCO BARATTA “IL GIOVANE”
STORIA DELL'OPERA: DA S. FRANCESCO AL SS. CROCIFISSO
ICONOLOGIA: CRISTO RISORTO
ICONOGRAFIA E DESCRIZIONE DELL'OPERA
NOTE BIBLIOGRAFICHE

INTRODUZIONE

Negli ultimi due secoli, la storiografia sanminiatese si è impegnata a celebrare le testimonianze artistiche e architettoniche di epoca medievale. Una vera e propria riscoperta della San Miniato imperiale e poi comunale, ovvero di quell'epoca considerata il “periodo aureo” della Città. Tuttavia la ricchezza di San Miniato, sta sì nell'origine e nei fasti medievali, ma anche nell'aver saputo operare un costante rinnovamento al susseguirsi dei secoli, a testimonianza di una comunità viva che attraversa la storia con impulsi sempre nuovi. Da un punto di vista storiografico, è solo di recente che l'attenzione è stata dedicata anche agli ultimi quattro secoli.

In questo post parleremo di quella che è da considerarsi il massimo esempio di scultura barocca presente a San Miniato: la figura del Cristo Risorto, opera dello scultore Francesco Baratta (Carrara, 1663 – 1729). Realizzata in marmo bianco di Carrara, la scultura è collocata all'interno di una nicchia semicircolare, ricavata al centro della scalinata che conduce al Santuario del SS. Crocifisso di Castelvecchio.
Proprio per il suo gusto “barocco” la statua non è stata oggetto di particolare interesse, considerata forse, a torto, un'opera secondaria e priva di particolare valore. Senza considerare che, spesso, la fortuna di un'opera segue anche la fortuna della mano che ebbe a realizzarla. Concepita per l'altare maggiore della chiesa conventuale di San Francesco, fu rimossa alla fine XVIII secolo per poi essere “riciclata” nel 1867 lungo la scalinata del Santuario.

Francesco Baratta, Cristo Risorto, 1723
San Miniato, scalinata del Santuario del SS. Crocifisso
già nella chiesa di San Francesco
Foto di Francesco Fiumalbi

L'AUTORE: FRANCESCO BARATTA “IL GIOVANE”

Da alcuni anni, grazie a nuovi studi condotti prevalentemente da Francesco Freddolini, è in corso un'importante rivalutazione dell'attività di Giovanni Baratta, fratello di Francesco, considerato uno degli scultori più significativi nel panorama italiano, ed anche europeo, della prima metà del '700 (lavorò a Roma, Firenze, Livorno, Torino, Lucca, Genova ed alcune opere si trovano in Danimarca, Inghilterra e Spagna) (01). Proprio lo stretto rapporto, anche di collaborazione, che ebbero i fratelli, fa sì che l'opera di San Miniato possa godere di nuova attenzione. Pur non esibendo la straordinaria qualità del fratello Giovanni, Francesco Baratta riuscì comunque ad esprimere quella suggestiva magniloquenza che ritroviamo, in modo particolare, nel barocco romano. Il Cristo Risorto è una scultura singolare nel panorama artistico di San Miniato, e per questo merita di godere di nuova attenzione.

Membro di una vera e propria famiglia di scultori, figlio di Isidoro e fratello di Pietro (1668-1729) e di Giovanni (1670-1747), Francesco nacque a Carrara intorno al 1670. Nei testi, spesso è indicato come Francesco Baratta “Il Giovane” per distinguerlo da Francesco Baratta “Il Vecchio” (1595-1666), suo nonno, molto conosciuto per aver collaborato con Gian Lorenzo Bernini (la sua opera più conosciuta è il Rio della Plata nella fontana dei Quattro Fiumi in Piazza Navona a Roma). E proprio al nonno Francesco “il vecchio” era stata assegnata in prima battuta la paternità della statua sanminiatese. Merito di Anna Matteoli, l'aver individuato nel 1976 la giusta attribuzione (02).

La formazione di Francesco Baratta, oltre che a Carrara, poté dirsi completata sul finire degli anni '80 del '600. Nel 1691 egli è documentato a Roma dove, assieme al fratello Giovanni, realizzò le figure in stucco di San Paolino e San Frediano, oltre a quelle di due angeli, oggi perduti, collocate nella controfacciata della chiesa della Santa Croce e San Bonaventura dei Lucchesi, ovvero la chiesa affidata alla comunità lucchese presente nell'allora Stato Pontificio (03).
A Roma, quindi, poté ammirare le opere del nonno, ma soprattutto i capolavori del barocco firmati da Gian Lorenzo Bernini e dai suoi diretti seguaci. Di questa esperienza farà tesoro nelle opere della maturità, fra cui il Cristo Risorto di San Miniato. Pur appartenendo alla generazione successiva, Francesco baratta non sembra, infatti, discostarsi troppo dai modi formali del Bernini. Anzi, sembra replicare forme e stilemi senza, tuttavia, coglierne appieno la complessità.

Successivamente si trasferì a Genova, dove circa quarantanni prima aveva operato anche il nonno, e dove il fratello Pietro aveva ricevuto commissioni già negli anni '90 del XVII secolo. Negli anni immediatamente successivi al soggiorno romano scolpì le figure di Cleopatra e Artemisia su commissione di Marcello Durazzo. Sempre in ambito ligure, risulta attivo a Rapallo dove nel 1697 eseguì le statue di San Domenico e Santa Rosa da Lima per la chiesa dei SS. Gervasio e Protasio. Molte delle opere di questo periodo sono andate disperse e non è possibile ricostruire in dettaglio la sua attività nei primi due decenni del '700.

Collaborò all'attività del fratello Giovanni alla chiesa di San Ferdinando a Livorno negli anni fra il 1713 e il 1721, dove troviamo anche i cugini Isidoro il Giovane e Giovanni Giacomo. Negli anni '20 fu attivo a Carrara, dove nel 1722 scolpì l'altare per la chiesa di Santa Maria delle Lacrime, e di nuovo a Genova, dove nel 1724 scolpì la figura (oggi perduta) di Ambrogio Castagnola per l'Ospedale degli Incurabili. Nello stesso anno ricevette il pagamento per una fontana con le statue di Enea e Anchise per piazza Soziglia (attualmente in piazza Bandiera). Seguendo sempre le orme del fratello Giovanni, Francesco fu attivo anche a Parma nella chiesa della Steccata, dove realizzò le statue dell'Umiltà e della Castità nel 1726. Non mancò nemmeno una committenza prestigiosa, come quella di Augusto il Forte di Polonia, per il quale scolpì un gruppo di cinque statue oggi disperse fra Dresda, Londra e Venezia (04).

In conclusione, l'attività di Francesco Baratta restituisce il profilo di un artista di buon livello, che però deve gran parte della sua fortuna professionale al prestigio dei fratelli, soprattutto di Giovanni. Oltre a ricevere commissioni professionali, risulta debitore anche riguardo ai modelli stilistici, derivanti, a loro volta, dal gusto e dalla sensibilità formale sviluppati nella grande stagione del barocco romano senza, tuttavia, coglierne la complessità e gli intendimenti concettuali più profondi e articolati.

Francesco Baratta, Cristo Risorto, 1723
San Miniato, scalinata del Santuario del SS. Crocifisso
già nella chiesa di San Francesco
Foto di Francesco Fiumalbi

STORIA DELL'OPERA: DA S. FRANCESCO AL SS. CROCIFISSO

Nel 1612 l'Opera di San Giuliano Martire (l'istituzione che si occupava del mantenimento e del rinnovamento del monumentale convento sanminiatese) deliberò il rifacimento dell'altar maggiore della chiesa conventuale. L'operazione si protrasse per alcuni anni, ma poté dirsi davvero conclusa solamente nel 1723, quando sul nuovo altare fu collocato il Cristo Risorto di Francesco Baratta. Nell'archivio del Convento di San Francesco sono rimaste le note di pagamento a Francesco Baratta: l'opera costò 575 lire, marmo escluso, più altre 44 a titolo di rimborso spese di viaggio che lo scultore intraprese per visitare la chiesa di San Miniato e per rendersi conto del luogo dove sarebbe stata collocata la statua. A Roberta Roani va il merito di aver riportato alla luce la vicenda della commissione e dell'arrivo dell'opera a San Miniato (05).
Un settantennio più tardi la statua fu rimossa dalla collocazione originaria, come ebbe a scrivere Giuseppe Piombanti: «Questo principale altare lo fecero nuovo nel 1796, di sopra togliendoci la statua del Redentore risorto, che, nel 1723, vi era stata collocata». (06)

L'opera marmorea rimase “temporaneamente” in un corridoio del convento francescano, fino al 1867. In quell'anno fu collocata nella nicchia ricavata fra le rampe che salgono al Santuario del SS. Crocifisso, che proprio in quegli anni fu oggetto di una complessiva opera di rifacimento e sistemazione. Questo episodio è riportato da Antonio Vensi: nel 1866 «il Signor Cavaliere Persio Migliorati e Professor Vincenzo Maioli (membri dell'Opera del SS. Crocifisso, n.d.r.) riferivano di essere stati dal Guardiano del Convento di San Francesco, Padre Giuseppe Michi, e chiestogli la statua in marmo del Gesù Resurrexit, da collocarsi nel muro del rondò di faccia al Palazzo Comunale, che ben volentieri gli era stata concessa. Però con questi patti: 1. Che i Padri intendono concederne l'uso ma non la proprietà. 2. Che l'uso fosse quello soltanto di essere posta a decoro e ornamento del Tempio del Santissimo Crocifisso, e collocata in una nicchi, per ivi starvi perpetuamente. 3. Che nel piedistallo sul quale sarà posta la statua, sia scritto un ricordo, che era stata donata dai Padri Francescani. […] Come infatti il dì 17 maggio 1867, ultimati i lavori sopra descritti, fu detta statua posta nella nicchia: come tuttora si vede. Libro delle Deliberazioni di lettera B, a c. 9 t.» (07). La statua è rimasta in quella collocazione fino ai giorni nostri, anche se non sembra esser presente alcun riferimento alla “donazione” dei Francescani.

Francesco Baratta, Cristo Risorto, 1723
San Miniato, scalinata del Santuario del SS. Crocifisso
già nella chiesa di San Francesco
Foto di Francesco Fiumalbi

ICONOLOGIA: CRISTO RISORTO

Dopo aver parlato dello scultore Francesco Baratta e aver riassunto brevemente la storia della statua con la sua ricollocazione ottocentesca, non meno importante è cercare di comprenderne il significato.
Per utilizzare le parole di Rudolf Wittkover, nel Barocco, ed in particolare nell'arte berniniana, «l'opera d'arte deve essere compenetrata da un tema letterario, un caratteristico e ingegnoso “concetto” che si può applicare solo al caso particolare in questione», che sia «realmente sinonimo dell'afferrare il significato essenziale del soggetto» e che ne costituisca «il momento culminante». (08) Il tema dell'opera è fissato nella didascalia, anche se ottocentesca: Christus resurgens ex mortuis, jam non moritur. Sono le parole utilizzate da San Paolo nella lettera ai Romani, nella sua versione latina (Rm 6, 9): Cristo è risorto dai morti, non muore più, non appartiene più alla morte.

La Resurrezione è quel grande “mistero” su cui si fonda la fede cristiana. «Se non esiste risurrezione dai morti, neanche Cristo è risuscitato! Ma se Cristo non è risuscitato, allora è vana la nostra predicazione ed è vana anche la vostra fede» (1 Cor 15, 13-14).
Rimanendo nel testo di San Paolo, seppur mutuando le parole dal profeta Isaia, la Resurrezione è una di «quelle cose che occhio non vide, né orecchio udì, né mai entrarono in cuore di uomo, queste ha preparato Dio per coloro che lo amano» (1 Cor 2, 9). Nessuno fu testimone della Resurrezione, ma molti furono i testimoni della nuova condizione di Gesù, non più tra i morti, bensì fra i viventi.
Tuttavia è difficile dare un'idea figurativa, cioè descrivere con un'immagine, la condizione fisica di Gesù Risorto. Nei Vangeli sono narrati molti episodi di apparizioni (alle donne al sepolcro, alla Maddalena, agli Apostoli... etc), ma in nessuna di queste è presente una vera e propria descrizione. Addirittura, chi lo incontra stenta a riconoscerlo.

Solamente alcuni particolari vengono riportati da San Giovanni Evangelista nel libro dell'Apocalisse: «...vidi sette candelabri d'oro e in mezzo ai candelabri c'era uno simile a figlio di uomo, con un abito lungo fino ai piedi [...]. I capelli della testa erano candidi, simili a lana candida, come neve. [...] e il suo volto somigliava al sole quando splende in tutta la sua forza. Appena lo vidi, caddi ai suoi piedi come morto. Ma egli, posando su di me la destra, mi disse: Non temere! Io sono il Primo e l'Ultimo e il Vivente. Io ero morto, ma ora vivo per sempre e ho potere sopra la morte e sopra gli inferi» (Ap. 1, 12-18). E' proprio questa la descrizione, l'immagine ricavata dalle parole di San Giovanni, a cui dovette ispirarsi Francesco Baratta per modellare il Cristo Risorto.

Francesco Baratta, Cristo Risorto, 1723, particolare
San Miniato, scalinata del Santuario del SS. Crocifisso
già nella chiesa di San Francesco
Foto di Francesco Fiumalbi

Prendendo in prestito le parole di Timothy Verdun, il Cristo Risorto è un'immagine in cui «i credenti sono invitati a cercare, oltre ciò che vedono, qualche cosa di più, magari non vista perché ancora nel futuro o che c'è ma rimane nascosta, oppure che muti radicalmente il senso e l'aspetto delle cose». Ed ancora, un'immagine «che si pone come “epifania” e “apocalisse”, manifestazione e rivelazione» (09), manifestazione di Cristo risorto, di colui che vive, rivelazione del progetto salvifico che Dio ha pensato per l'uomo e che si compie attraverso suo Figlio: «Io sono il tuo Dio, che per te sono diventato tuo figlio; che per te e per questi, che da te hanno avuto origine, ora parlo e nella mia potenza ordino a coloro che erano in carcere: Uscite! A coloro che erano nelle tenebre: Siate illuminati! A coloro che erano morti: Risorgete! A te comando: Svegliati, tu che dormi! Infatti non ti ho creato perché rimanessi prigioniero nell'inferno. Risorgi dai morti. Io sono la vita dei morti. Risorgi, opera delle mie mani! Risorgi mia effige, fatta a mia immagine! Risorgi, usciamo di qui! Tu in me e io in te siamo infatti un'unica e indivisa natura» (Da un’antica “Omelia sul Sabato Santo” - Ufficio delle letture del Sabato Santo, tratto da Patrologia Graeca, n. 43, 451).

Rispetto alla felice ricollocazione al centro della scalinata che conduce al Santuario, la scultura si configura come una “prolessi”: svela, cioè, il significato ultimo e profondo del Christo patient rappresentato nell'immagine del SS. Crocifisso di Castelvecchio custodita all'interno della chiesa. La venerata immagine sanminiatese, infatti, rappresenta il momento del dolore, della morte. Tuttavia si tratta di un sacrificio, dell'estremo gesto d'amore di Gesù, necessario perché si compia la Resurrezione e sia, quindi, strumento di Salvezza per l'umanità.

Francesco Baratta, Cristo Risorto, 1723, epigrafe didascalica
San Miniato, scalinata del Santuario del SS. Crocifisso
già nella chiesa di San Francesco
Foto di Francesco Fiumalbi

ICONOGRAFIA E DESCRIZIONE DELL'OPERA

Da un punto di vista iconografico, Roberta Roani propone di vedere nel Cristo Risorto in bronzo collocato nell'altare del SS. Sacramento della Basilica di San Pietro (VAI ALL'IMMAGINE ) e nel Salvator mundi della Basilica di San Sebastiano Fuori le Mura (VAI ALL'IMMAGINE E ALLA DESCRIZIONE ), entrambe opere di Gian Lorenzo Bernini, i modelli da cui trasse spunto Francesco Baratta (10).

La figura del Cristo di Francesco Baratta ha una dimensione quasi a grandezza naturale. Il piccolo piedistallo parallelepipedo su cui poggia, oltre ad elevare la scultura, è funzionale a portare il volto esattamente al centro dell'arco della nicchia, che probabilmente era già stata predisposta prima che venisse lì collocata.

L'immagine è concepita per una visione esclusivamente “frontale”, anche se la sua collocazione originaria – sull'altar maggiore della chiesa di San Francesco – prevedeva che l'illuminazione provenisse da dietro, contrariamente alla sua posizione attuale. L'effetto, specialmente nelle prime ore del mattino, sarebbe dovuto essere quello di una figura completamente avvolta dalla luce: il suo volto somigliava al sole quando splende in tutta la sua forza. Un'idea formale, dunque, che utilizzava la luce come elemento della composizione, una sorta di riflesso luminoso, funzionale per descrivere con maggior efficacia il “mistero” della Resurrezione. Tuttavia, il volto del simulacro è comunque circondato da una raggiera marmorea. Questa avvolge tutta la parte alta della figura e presenta una sorta di nervatura, o ispessimento, a formare i bracci della Croce in leggero rilievo. Con questo espediente compositivo, idealmente, la luce è comunque presente al di dietro.

Il Cristo è raffigurato come un uomo con il volto disteso – seppure un po' oblungo – con i capelli che sembrano effettivamente candidi, simili a lana candida, come neve. Effetto certamente corroborato dal marmo di Carrara.
Il braccio destro è sollevato e la mano si apre in un gesto che vuole essere un saluto vittorioso, come a dire: Non temere! Io sono il Primo e l'Ultimo e il Vivente. Io ero morto, ma ora vivo per sempre e ho potere sopra la morte e sopra gli inferi.
La veste è aperta e scivola verso il basso, rivelando, attraverso una casta seminudità, la fisicità del busto. L'abito lungo fino ai piedi appare, piuttosto, quasi come un lenzuolo: una specie di sudario funebre, da cui la figura, slanciandosi, si va liberando. Si potrebbe leggere questo dettaglio come una sorta di analessi scultorea, un richiamo alla Resurrezione, al momento in cui Gesù, tornato alla vita, si libera del lenzuolo in cui era stato avvolto.



NOTE BIBLIOGRAFICHE

(01) Per un quadro completo e approfondito su Giovanni Baratta si veda: F. Freddolini, Giovanni Baratta 1670-1747. Scultura e industria del marmo tra la Toscana e le corti d'Europa, «L'Erma» di Bretschneider, Roma, 2013.
(02) A. Matteoli, Arte e storia del Santuario del Santissimo Crocifisso a San miniato, in «Bollettino dell'Accademia degli Euteleti della Città di San Miniato», n. 45, 1976, pp. 96, 98.
(03) M. Dunn, Two Early Documented Works by Francesco Baratta the Younger, in «The Burlington Magazine», vol. 133, n. 1055, 1991, pp. 91-94.
(04) F. Freddolini, Francesco Baratta: un nome, due scultori, due secoli, in «Nuovi Studi Rivista di arte antica e moderna», n. 15, 2010, pp. 274-278.
(05) Archivio Convento di San Francesco, s.n., Uscita dell'Opera di San Giuliano Martire, 16*4-1787, cc. 112v, 117; Archivio Accademia degli Euteleti, Fondo Varie, Carte di Antonio Vensi, 91, Materiali raccolti per formare il tomo I e II dei documenti per la storia di San Miniato da Antonio Vensi l'anno 1874, p. 506; cfr. R. Roani, Episodi d'Arte e di Restauro nella chiesa di San Francesco e nella Cattedrale di San Miniato, in San Miniato nel Settecento. Economia, società, arte, a cura di P. Morelli, CRSM, Pacini Editore, Pisa, 2003, p. 219.
(06) G. Piombanti, Guida della Città di San Miniato al Tedesco. Con notizie storiche antiche e moderne, Tipografia M. Ristori, San Miniato, 1894, p. 109.
(07) Archivio Accademia degli Euteleti della Città di San Miniato, n. 87, Memorie della Sacra Immagine e dell'Oratorio del Santissimo Crocifisso detto del Castel-Vecchio, c. 423; ed. A. Matteoli, Arte e storia del Santuario del Santissimo Crocifisso a San Miniato, in «Bollettino dell'Accademia degli Euteleti della Città di San Miniato», n. 45, 1976, pp. 79-80.
(08) R. Wittkower, Arte e architettura in Italia. 1600-1750, 3a ed., Einaudi, Torino, 1993, pp. 140-141.
(09) T. Verdun, Cristo nell'arte europea, Electa, Milano, 2006, p. 198.
(10) R. Roani, Episodi d'Arte e di Restauro nella chiesa di San Francesco e nella Cattedrale di San Miniato, in San Miniato nel Settecento. Economia, società, arte, a cura di P. Morelli, CRSM, Pacini Editore, Pisa, 2003, pp. 220-221.

giovedì 24 marzo 2016

LA MANIFATTURA DI CERAMICHE IN SAN MINIATO NELLA SECONDA META' DEL '600

a cura di Francesco Fiumalbi

In questa pagina è proposto il testo di Gaetano Milanesi, estratto da volume Di Cafaggiolo e d'altre fabbriche di ceramica in Toscana [Tipografia di G. Barbera, Firenze, 1902] in cui si parla di una “fabbrica” di ceramica presente a San Miniato nella seconda metà del XVII secolo.

Gaetano Milanesi (Siena, 1813 – Firenze, 1895) è stato uno storico e storico dell'arte, interessato anche ad argomenti considerati “minori”, come la miniatura e la ceramica. Abbiamo già proposto un suo testo nel post: DALLE PRIME CONGETTURE AL CATALOGO DEI BACINI CERAMICI DELLA FACCIATA DELLA CATTEDRALE DI SAN MINIATO.
Egli trasse la maggior parte delle informazioni sanminiatesi grazie al Canonico Emilio Marrucci (San Miniato, 1846 – 5 agosto 1912), che fra le altre cose, fu Presidente della Misericordia nel 1884 e Direttore della Cassa di Risparmio di San Miniato dal 1887 al 1897. Attraverso il religioso, il Milanesi riuscì a consultare alcuni interessanti documenti seicenteschi inerenti la succursale sanminiatese dell'Ospedale di Santa Maria della Scala (dalla fine del '700 confluito negli “Spedali Riuniti”), che si trovava in Poggighisi, in Piazza Santa Caterina, praticamente nel luogo dove sorge l'ospedale che tutti noi conosciamo.

«Coll'approvazione del comune di S. Miniato, lo spedalingo di S. Maria della Scala di Siena apriva nel 1333, presso la chiesa di S. Caterina, uno spedale per accogliervi i gettatelli. Era amministrato e diretto dai religiosi ospitalieri di Siena, che portavano sul petto una piccola scala a tre sbarre, da una croce sormontata, la quale è rimasta come stemma di questo spedale. Vi tenevano un rettore, che loro rendeva conto della sua amministrazione, e Ildebrandino Buonaparte fu il primo. Molti furono gli orfanelli dell'uno e dell'altro sesso raccolti e mantenuti, nel corso di tanti anni, e poté dirsi davvero una provvidenza pel comune.»
Estratto da G. Piombanti, Guida della Città di San Miniato al Tedesco. Con notizie storiche antiche e moderne, Tipografia M. Ristori, San Miniato, 1894, p. 121.

Gli “Spedali Riuniti” in Piazza XX Settembre
Foto di Francesco Fiumalbi

Nell'ambito dell'ospedale sanminiatese, infatti, era nata una “manifattura” di “stoviglie” in ceramica bianca. Probabilmente si trattava di piatti, pentolame ed altri utensili ad uso nelle cucine del tempo. Tale lavorazione era stata introdotta dal rettore dell'ospedale, il senese Galgano Bonagiunti, eletto nel 1650, per costituire col ricavato un fondo patrimoniale le cui rendite erano destinate alle fanciulle sanminiatesi.
Fra il '600 e l'800, a San Miniato, erano molto diffuse iniziative benefiche come questa. Nel post IN PILLOLE [015] LE “DOTI” DEL PROPOSTO ANSALDI – 1787, abbiamo visto, infatti, che tali operazioni consentivano alle ragazze povere (ma nel caso dell'ospedale sanminiatese anche delle orfane provenienti dall'annesso Spedale dei Gettatelli) di poter trovare un buon marito e di evitare la pratica di professioni poco dignitose, prima fra tutte la prostituzione. Non dobbiamo dimenticare che, nei secoli passati, le cosiddette politiche di welfar state non erano nemmeno lontanamente immaginabili. In compenso, seppur molto limitatamente, alcune persone benestanti e dotate di particolare sensibilità, oppure istituzioni religiose, assistenziali e benefiche, mettevano a disposizione il proprio patrimonio, in tutto o in parte. Un po' come fece, in questo caso, l'ospedale sanminiatese di Santa Maria della Scala.

Stemma degli “Spedali Riuniti” che conservava al suo interno
il simbolo dell'ospedale di Santa Maria della Scala
Porta di ingresso all'ospedale di San Miniato in Piazza XX Settembre
Foto di Francesco Fiumalbi

Di questa operazione si ritrova una piccola nota anche nell'articolo di Manuela Parentini, Infanzia abbandonata a San Miniato: lo Spedale di Santa Maria della Scala. Primi studi e ricerche, in «Bollettino dell'Accademia degli Euteleti della Città di San Miniato», n. 77, 2010, pp. 268-269 (in particolare si veda la nota n. 38). Dalle informazioni contenute in questo articolo possiamo ipotizzare che, in realtà, la manifattura di ceramica sanminiatese nacque, probabilmente, come forma di “investimento” alternativo al cosiddetto Monte delle Graticole. Questo non era altro che il “debito pubblico” dell'allora Granducato di Toscana, che poteva essere acquistato in “cedole” (una sorta di obbligazioni ante litteram) dai privati che ne ricavavano un interesse. L'ospedale aveva beneficiato dell'importante lascito di Lodovico Fiamminghi, investito nel Monte delle Graticole, da cui ricavava 22 scudi annui da impiegare nelle doti delle ragazze. L'accoglienza delle fanciulle era una pratica esercitata dall'ospedale sanminiatese almeno fino al 1513, e che il rettore Galgano Bonagiunti intendeva ripristinare. (Le infomarmazioni citate nell'articolo si trovano in Archivio Storico Comune di San Miniato, n. 4543, Ospedale di Santa Maria della Scala di San Miniato. Atti processuali (lettere, carteggio, contratti) e notizie storiche sull'Ospedale, documenti denominati «Informatione» e «Opera Pia» ).

Per poter avviare la manifattura Galgano Bonagiunti aveva predisposto un apposito edificio in Poggighisi, quindi nei pressi dell'ospedale stesso. Non sappiamo dove si trovasse esattamente. Probabilmente non si affacciava direttamente sulla strada o sulla piazza (i fronti erano già tutti occupati), ma doveva trovarsi sul retro dell'ospedale oppure lungo il vicolo di Borghizzi. D'altra parte, la lavorazione della ceramica o della maiolica, richiedeva una gran quantità di combustibile che poteva essere soddisfatta grazie alle vicine carbonarie.
Per la buona riuscita di tale operazione, il Bonagiunti si era dato un gran da fare. Chiamò addirittura maestranze “esterne” ad operare a San Miniato: dal senese, ma anche da San Marino e dal territorio dell'antico Ducato di Urbino. Evidentemente oltre agli spazi, era necessario il know how, l'arte di lavorare la ceramica e la maiolica. Inoltre, il 9 aprile 1655 inviò una supplica al Granduca Ferdinando II de' Medici, chiedendo che non venissero aperte nuove manifatture di stoviglie in ceramica bianca nel raggio di 30 miglia da San Miniato per i successivi 10 anni, in modo che non venisse pregiudicata la buona riuscita dell'operazione, che era stata avviata da poco. Il 22 aprile 1655 ottenne risposta affermativa. La cosa non era affatto scontata, anche perché nel vicino centro di Montelupo la produzione di ceramica e maiolica era molto vivace. Tuttavia, tale risoluzione non creò problemi alle manifatture montelupine perché, fu detto, utilizzavano altri “ingredienti”, ovvero materie prime diverse.

G. Milanesi, Di Cafaggiolo e d'altre fabbriche di ceramica in Toscana,
Tipografia di G. Barbera, Firenze, 1902, frontespizio.

La manifattura di ceramica e maiolica di San Miniato andò avanti per alcuni decenni, almeno fino ai primi anni del '700. Di seguito è proposto l'estratto da G. Milanesi, Di Cafaggiolo e d'altre fabbriche di ceramica in Toscana, Tipografia di G. Barbera, Firenze, 1902, pp. 367 e 375-381, in cui sono pubblicati anche i documenti inerenti la supplica e la risposta del Granduca a Galgano Bonagiunti e i nomi delle persone che vennero a lavorare a San Miniato da Siena, San Marino e Urbino.

[367] CAPITOLO SEDICESIMO

NOTIZIE DELLA CERAMICA IN PISA,
IN CASTELFIORENTINO E IN SANMINIATO.

È fuori di dubbio che Pisa abbia avuto,
sino da tempi remoti, fabbriche di
maiolica.
A. Genolini, Maioliche italiane, pag. 114.

«Raccolgo in questo capitolo poche notizie e qualche documento intorno all'arte delle terre cotte in Pisa e in Castelfiorentino, appena ricordati dagli scrittori della ceramica italiana; e in Sanminiato, la cui fabbrica di stoviglie rimase fin qui ignota.»

[…]
«[375] […] Sanminiato fiorentino. Ebbi occasione di citar due volte questa città (della cui fabbrica di stoviglie nessuno ha discorso), a proposito di quelli antichissimi piatti e scodelle murati sulla facciata della Cattedrale, da me attribuiti a Montelupo, non avendosi ricordo che [376] tale industria cominciasse a Sanminiato innanzi alla seconda metà del secolo XVII.
Nell'aprile del 1655, Galgano Bonagiunti senese, rettore dello spedale di Santa Maria della Scala di Sanminiato, che era membro dello spedale parimente di Santa Maria della Scala di Siena, presentò una supplica al granduca Ferdinando II de' Medici, dicendo che per aver introdotto la maestranza di stoviglie di lavoro bianco fine et maiolica, così intento di formare un patrimonio alle fanciulle dette Commesse istituite in detta città, domandava gli fosse fatto un privilegio che nessuno, per dieci anni, potesse lavorare né per sé né per altri del detto lavoro, dentro trenta miglia intorno a Sanminiato. Nella informazione di Alessandro Vettori auditore delle Riformagioni di Firenze, è notabile che egli aveva saputo da quanti tenevano botteghe in Firenze ed erano in corrispondenza ne' luoghi dello Stato dove si fabbricavano le maioliche, che quelle bianco fine, come faceva il supplicante, si eseguivano soltanto nel senese, e che se bene a Monte Lupo si fa certa terra bianca, nondimeno non è così fine né maiolica, né con i medesimi ingredienti. Ma è meglio che il lettore abbia sott'occhio i documenti [R. Archivio di Stato in Firenze. Riform, grand., Filza 7a di Negozi e relazioni di Alessandro Vettori dal 1650 al '55, n. 425-426].

Ser.mo Gran Duca.
Galgano Bonagionti rett.e dello Sped.e di S. Maria della Scala di S. Miniato, hum.mo sud.o di V. A, desiderando si dia principio quanto prima alla supp.ta opera pia delle fanciulle che si diranno Comesse, per costituirgli in parte il Patrimonio, [377] ha introdotto di nuovo [Non in senso di novamente, ma di cosa nuova, e infatti più sotto la dice nuova industria, e nell'appresso Informazione si legge invenzione nuova] in d.a Città, la Maestranza di stoviglie di lavoro bianco fine, et maiolica, havendo fatto fabbricare l'edifizio di pianta et proveduto quanto fa di bisogno et di comodità per il d.to esercitio, et condotti dallo Stato di Siena Maestri et famiglie et altri da S. Marino, et altri parimente sono per venire dallo Stato d'Urbino, che per incaminar bene et con credito et magg.r utile possibile, bisognano in questo principio spese gravi, sì come si sono fatte et si fanno: dalla qual Maestranza si possono sostentare comodamente per adesso sei fanciulle et la lor Matrona. Onde per assicurare la d.ta opera dell'utile che si può havere da questa nuova industria et dell'utile che d'altre che dependeranno da essa ord.te dal supp.te, ricorre alla benignità et somma pietà di V. A. S. supplicandola, stante che dentro alle trenta miglia del dominio fiorentino all'intorno di S. Miniato non vi è tal esercitio di presente, si degni per gratia concedergli che nessuna persona in pregiuditio delle dette fanciulle ardisca per lo spatio almeno d'anni dieci lavorare o far lavorare, né per sé né per altri, del detto lavoro dentro alla detta circonferenza, se tali persone non haveranno la facultà et causa dal detto Sped.e per le dette fancille (sic), sotto pena dell'indignat.ne di S. A. S. ed del rifacimento de' danni; et Dio di tal gratia gli renderà il suo merito.
L'And.re delle Riformag.ni intenda e informi.
Gio. B.ta Gondi, 9 aprile 1655.

Il Rettore dello Spedale di S. Maria Nuova della Scala di S. Miniato, che è membro dello Spedale della Scala di Siena, rappresenta d'havere introdotto in d.a Città di S. Miniato un'invenzione nuova di fabbricare lavoro di stoviglie bianco fine di maiolica della quale non si lavori altrove in questo Stato, et havere per ciò condotto d'altri Stati Maestri et fabbricato un'edifìzio di pianta, con sperare di tutto utile proporzionato a potere sostenere un'opera pia di Fanciulle che dice havere destinata in detta Città, supplicando per ciò che per mantenere [378] d.a nuova industria et l'utile per d.a Opera Pia, se gli conceda privilegio che nel Dominio fiorentino dientro a 30 miglia a S. Miniato, nessuno possa per lo spazio d'anni dieci fare lavorare né per sé né per altri di d.o lavoro se non ne harà la facultà da d.o Spedale.
Circa di che si rappresenta essere solito fare simili privilegi a inventori di cose nuove.
Et che per sapere se questa veramente sia tale, si sono sentiti diversi che fanno in questa città (Firenze) bottega di stoviglie et hanno corrispondenza ne i luoghi dove si fabbricano nello Stato; e da loro essersi saputo che di questa maiolica et bianco fine, come fa il supp.to,e veramente non ci se ne fa, ma solamente nel Senese et altrove; et se bene a Monte Lupo si fa certa terra bianca, nondimeno non è così fine nè maiolica né con i med.i ingredienti.
Onde si propone che la gratia che dimanda il supplicante sia concessibile, mentre si faccia con dichiarazione espressa che non s'intenda proibito il lavoro bianco ordinario che si fa a Monte Lupo a simiglianza di maiolica, né alcun altro simile, ma solamente la detta maiolica et bianco fine che sin hora non se ne lavori altrove nello Stato, sì che sempre che si trovasse che in esso se ne fusse sin hora lavorato del d.o. bianco fine et maiolica, non habbia luogo il privilegio. Et similmente che s'intenda spirato, [In senso di terminato, finito.] sempre che il supplicante stesse un anno senza lavorare o altrimenti dismettessi il mestiero. Et se piacerà a V.A. di gratificarlo se li farà il Privilegio nella forma solita di simil cose, per il quale si doverà da lui pagare la solita tassa al Monte; et humiliss.mo le bacio la veste.
Di V. A. S. Di casa 22 aprile 1655.
Concedesi per dieci anni e come si propone.
Gio. B.a Gondi 22 aprile 1655.

Abbiamo sentito che il Bonagiunti aveva fatto costruire l'edifìcio e chiamati maestri e famiglie da Siena, da San Marino e da Urbino; ora dalle ricerche
[379] eseguite nell'archivio degli Spedali Riuniti di Sanminiato, delle quali è mio debito ringraziare l'intelligentissimo canonico Emilio Marrucci, resulta che la fabbrica delle stoviglie era proprio in una casa dello Spedale della Scala, in luogo denominato Poggivisi, storpiatura popolare di Poggighisi. Nel Libro poi di Pigioni e Affitti [Archivio degli Spedali Riuniti di Sanminiato. Libro segnato di lett. A dal 1638 al 1709.] sono ricordati, sotto l'anno 1655, questi maestri vasai, quelli soltanto che abitavano in due case del detto Spedale e corrispondevano la pigione: Jacomo Bianciardi, Giovanni Miniati e Cintio, o Iacinto Nannetti. Del Bianciardi si ha memoria fino al novembre del 1659 [Libro cit. a c. 38.]; 2 il Miniati partì ai 3 di maggio del 1662 [Libro di Pigioni e Affitti, cit. a c. 38.]; il Nannetti v'era sempre nel 1706 [, ma andata presto male l'impresa di Galgano Bonagiunti, anche medico del Comune, pare che lo stesso Nannetti prendesse in affitto la fornace [Idem, a c. 109.], ridotta a fare stoviglie comunissime. Donde venissero questi vasai non so [II solo Nannetti si dice di Seiano o Sciano.], ma se vennero da Siena, da San Marino e da Urbino, è possibile non fossero né i soli né i migliori chiamati dal Bonagiunti nella fabbrica da lui aperta in Sanminiato. E sebbene in essa, secondo i documenti, si facessero stoviglie di lavoro bianco et maiolica, credo che quella espressione non s'abbia ad intendere in modo assoluto, e si debba riferir più specialmente alla terra bianca, anziché rossiccia, di cui le stoviglie erano formate. Nel giugno del 1899, facendosi uno sterro nell'orto degli Spedali Riuniti, furono trovati, tutti in un luogo, moltissimi frammenti di maiolica, de' quali, per [380] cortesia del ricordato canonico Marrucci, potei averne alcuni. Di essi ne do riprodotti due bianchi con semplici fiorami di cobalto sugli orli; altri pezzi di varii tempi, ornati oltre che di cobalto, di giallo, d'arancione e di zafferà, debbono appartenere a fabbriche diverse, forse a Siena e a Cafaggiolo; ma certamente sono di Montelupo quelli graffiti ed uno con parte di figura muliebre in turchino cupo. Imperocché suppongo non esser quei frammenti rimasugli della fornace di Sanminiato, ma deposito di stoviglie rotte usate nello Spedale.
[381] Queste memorie, lo ripeto, sono poche e di non molta importanza, pure nissuno vorrà negare che qualcosa aggiungono a quanto era noto della ceramica di Pisa e di Castelfìorentino, e danno notizia di una fornace in Sanminiato. M'è parso perciò non affatto inutile pubblicarle nel modesto Commentario delle fabbriche di stoviglie in Toscana.

Il disegno delle ceramiche rinvenute nel 1899
sul retro dell'Ospedale di San Miniato
G. Milanesi, Di Cafaggiolo e d'altre fabbriche di ceramica in Toscana,
Tipografia di G. Barbera, Firenze, 1902, p. 384.