domenica 8 gennaio 2017

GIOSUE' CARDUCCI A SAN MINIATO NELLE MEMORIE DI GIUSEPPE CHIARINI

a cura di Francesco Fiumalbi

INTRODUZIONE
Giosué Carducci non dimenticò mai quell'anno trascorso ad insegnare al Ginnasio di San Miniato, dall'ottobre 1856 all'agosto 1857. Furono mesi difficili: la frustrazione per un lavoro privo di stimoli e scarsamente ricompensato, la lontananza dagli amici e dall'ambiente culturale cittadino.
I sanminiatesi, dal canto loro, si trovarono davanti ad un giovane esuberante, dal carattere irrequieto e mai pago, certamente sopra le righe e fuori da tutti gli schemi a cui erano abituati. Fu una convivenza “complicata” e non mancarono momenti di tensione, culminati nel cosiddetto “processo” di San Miniato, una vera e propria indagine subita dal giovane Carducci. Ma di questo ne parleremo in un'altra occasione. In realtà i sanminiatesi, a distanza di circa un cinquantennio, cercarono di porre rimedio commemorando solennemente l'illustre Premio Nobel [si veda il post CARDUCCI COMMEMORATO A SAN MINIATO NEL 1907 ].
In questa pagina è proposta una selezione di brani tratti dalle Memorie redatte da Giuseppe Chiarini, grandissimo amico del Carducci ed una delle persone a lui più vicine. Nel testo, pubblicato in prima edizione nel 1903, ritroviamo alcuni episodi sanminiatesi della vita del giovane Carducci, ma soprattutto il suo stato d'animo, le sue aspirazioni e le sue frustrazioni.

E. Ceccarelli, Giosué Carducci,
busto in bronzo, San Miniato, Giardini Bucalossi, 1907
Foto di Francesco Fiumalbi

GIUSEPPE CHIARINI E GIOSUE' CARDUCCI
Giuseppe Chiarini [Arezzo, 17 agosto 1833 – Roma, 4 agosto 1908], trasferitosi a Firenze nel 1850, studiò Filosofia presso il Collegio di San Giovannino dove ebbe modo di conoscere Giosuè Carducci [Pietrasanta, 27 luglio 1835 – Bologna, 16 febbraio 1907].
Assieme al Carducci, a Ottaviano Targioni Tozzetti e a Giuseppe Torquato Galgani, fondò il sodalizio letterario denominato Amici Pedanti, in aperta polemica contro i “romantici” e per un recupero “purista” della tradizione classica. Non va tralasciato il riflesso di carattere politico, con la contrapposizione fra tendenze culturali esterofile e desiderio di italianità. D'altra parte sono gli anni immediatamente precedenti all'Unità d'Italia (1861) e il sentimento patriottico, declinato in chiave letteraria nel recupero della tradizione classicista italiana, era particolarmente sentita dai quattro.
Quando a Carducci fu assegnata la cattedra a San Miniato, Chiarini non mancò di far visita all'amico e di condividerne passioni, ambizioni e frustrazioni. Successivamente ebbe incarichi presso il Ministero dell'Istruzione (prima a Torino e poi a Firenze), prima di essere nominato preside al Liceo Niccolini di Livorno (1867) dove rimase per 17 anni.
Democratico, anticlericale e repubblicano, si affiliò alla massoneria presso la loggia Propaganda Massonica di Roma, dove si trasferì nel 1884. Ebbe una vasta produzione letteraria, sia come curatore che come autore. Non mancò nemmeno di mettersi in “cortese polemica” con l'amico Carducci, di cui scrisse le Memorie date alle stampe nel 1903 (quando era ancora in vita).

G. Chiarini, Memorie della vita di Giosuè Carducci
(1835-1907) raccolte da un amico,
G. Barbera Editore, Firenze, 1907 (1a ed. 1903), frontespizio.

LE MEMORIE DI GIOSUE' CARDUCCI A SAN MINIATO
Nella selezione di brani proposti di seguito, ritroviamo il ventunenne Giosuè Carducci a partire dagli espedienti utilizzati per ottenere la cattedra di Rettorica al Ginnasio di San Miniato: le varie raccomandazioni, perfino quella dell'allora Proposto della Cattedrale Can. Giuseppe Conti. Sappiamo poi che l'anello di congiunzione fra il Canonico Conti e il Municipio fu il prof. Augusto Conti, filosofo e politico sanminiatese d'area cattolica. Tale circostanza è assai buffa, se pensiamo che Carducci è considerato uno dei massimi esponenti dell'ambiente anticlericale del tempo.
Carducci si scontrò subito con il problema della “distanza”, ovvero la difficoltà nel mantenere vivi i contatti con gli amici, specialmente quelli “pedanti” e con i circoli culturali cittadini. Senza considerare poi le ristrettezze economiche dettate dal magro stipendio, tanto che Carducci descrisse la sua vita in quei primi mesi trista e goffa assai.
Piano piano, tuttavia, Carducci legò con i suoi colleghi e coinquilini. Una convivenza che si arricchì anche della presenza dei giovani rampolli della San Miniato “bene” del tempo, certamente incuriositi e affascinati dai tre maestri, così vivaci e sopra le righe. E poi le provocazioni, su tutte la “bergamascata” in Duomo durante una funzione religiosa. Tutto ciò valse l'avvio di una vera e propria indagine (Carducci parlò di “processo”) che tuttavia finì in una bolla di sapone.
Con l'arrivo della primavera, gli amici da Firenze andavano spesso a trovare il Carducci a San Miniato, il quale, nel frattempo, si era impegnato nella stesura delle Rime (Tip. Ristori, San Miniato, 1857) con le quali contava di poter saldare alcuni debiti. Il libro non sortì le vendite sperate e il clima era ormai diventato troppo pensante per il giovane Carducci all'ombra della Rocca di Federico II. E così, alla fine d'agosto abbandonò San Miniato […] deciso di non ritornarci.

L'epigrafe apposta alla “casa dei maestri”
in ricordo del soggiorno di Giosuè Carducci
San Miniato, via Giosuè Carducci
Foto di Francesco Fiumalbi

Di questo e di altro, possiamo leggere nella selezione di brani, trascritti di seguito, del libro G. Chiarini, Memorie della vita di Giosuè Carducci (1835-1907) raccolte da un amico, G. Barbera Editore, Firenze, 1903:

[…]

[054] Per la nomina del Carducci al Ginnasio di San Miniato si adoperarono anche il Rettore della Scuola Normale e il Provveditore della Università, i quali pur non potevano ignorare il carattere forte e indipendente del giovane; ma anch’essi erano vinti dalle prove d’ingegno e di dottrina ch’egli avea date, le quali naturalmente dovea parer loro che tornassero ad onore della Scuola e della Università. Per questa ragione anche i professori gli volevan [055] bene e lo portavano, come si dice, in palma di mano, perdonando alla singolarità dell’ingegno le sue capestrerie.
Uno di essi, il professore di pedagogia e direttore della Scuola Giuseppe Pecchioli, scrisse nell’agosto da Livorno al proposto della cattedrale di San Miniato, da cui principalmente dipendeva la nomina degli insegnanti del Ginnasio, raccomandando come ottimo il Carducci, insieme a due altri, l’un dei quali buono e l’altro mediocre, e dicendolo: «Attissimo alla cattedra di letteratura latina e greca, benché il suo forte, a vero dire, sia piuttosto la letteratura italiana.» Proseguiva la lettera dicendo: « Sulla moralità non debbo far gradazioni, perché, in tutto il tirocinio universitario e normalistico, la loro condotta è stata esemplare, come si conveniva a giovani iniziati ad una carriera delle più delicate e importanti.» [1]
Quei professori non erano aquile, ma avevano abbastanza comprendonio da capire che il Carducci non era un allievo come gli altri; e forse speravano, nella loro ingenuità ed ignoranza del mondo in mezzo al quale vivevano, che quei giovani usciti dalla rigida disciplina scolastica ed entrati nella vita, avrebbero, per il bisogno di assicurarsi il tozzo, smorzato a poco a poco i loro ardori giovanili, e finito col diventare uomini seri e posati. Povera [056] gente! come ci vedevano poco! Il Carducci e il Cristiani (nominato con lui al Ginnasio di San Miniato) prima che finisse l’anno doverono fuggirne; e l’uno di lì a poco divenne il poeta della rivoluzione, mentre l’altro era andato a combattere le battaglie per la liberazione d’Italia.
Ma non anticipiamo.

[1] Vedi lo scritto di Guido Mazzoni, Giosue Carducci e Gaspero Barbèra, nel citato fascicolo della Rivista d’Italia, pag. 59.

[...]

[077] Il giorno dopo il mio arrivo, il Dottore [il padre di Carducci, n.d.r.] mi menò a fare una passeggiata per la campagna, facendomi da Cicerone. Parlammo di molte cose, e naturalmente anche di Giosue, ch’era rimasto a casa, della sua malattia, del suo ingegno, de’ suoi studi, della sua prossima nomina a maestro nel Ginnasio di San Miniato al Tedesco. Si capiva che il padre conosceva il valore del figliuolo, che gli voleva bene, e in cuor suo n’era anche orgoglioso; ma non lo dava affatto a divedere; parlava di lui come d’uno che quasi non gli appartenesse, e manifestò anche l’opinione che avrebbe avuto corta vita. Se era un presentimento, fortunatamente fu falso.

[...]

[078] Ai primi di novembre tornammo a Firenze per dare l’ultima mano e l’ultima spinta alla pubblicazione della Giunta alla derrata; ma ci trovammo dinanzi un ostacolo impensato, che durammo molta fatica a vincere: le sùbite paure del Targioni, che nientemeno voleva sopprimere il libro, per risparmiare, diceva, a sé ed a noi un processo e la prigione. Finalmente, come Dio volle, il libro uscì; ma il Carducci non poté assistere alla pubblicazione e al chiasso che doveva suscitare, perché, venutagli appunto allora la nomina di maestro a San Miniato, dové subito recarvisi a cominciare [079] la scuola. Gli mandammo là il libro, ed egli rispondendomi dolevasi che non gli avessi detto niente dell’accoglienza fattagli dai giornali. «E che tacciono questi canterini dalle golette fangose? Che il libro fu forse l’offa tremenda? Oh, oh, oh, direbbe Macbeth. Scrivimi subito, per Iddio Apollo. Non imitar me tristo annoiato infelice.» Mandava tre paoli per il libro, scusandosi di non potere di più perchè diceva: «Ho solamente 77 lire il mese
Era questo il suo stipendio di insegnante, che ridotto dalle lire codine alle italiane, fa 64,68; cioè poco più di due lire al giorno, la paga di un onesto facchino. In quei primi giorni si trovò male a San Miniato: «Non ho voglia, mi scriveva, di parlarti della mia vita, ch’è trista e goffa assai.» Ma non era il misero stipendio che lo angustiava: era la novità del luogo, l’aver lasciato Firenze, le biblioteche, i banchetti dei librai, gli amici. Tanto è vero che qualche giorno dopo mostravasi più sereno, e scusandosi del non aver risposto ad una lettera del Targioni, mi scriveva: «Gli dirai che mi perdoni: ma in quel tempo che mi scrisse era impossibile mi distornassi dalla mia scuola. Insegno greco: evviva: FACCIO SPIEGARE LUCREZIO AI MIEI RAGAZZI: evviva me.»
Io non gli avevo scritto niente dell’accoglienza fatta al nostro libro dai giornali, perché questi non ne avevano ancora parlato. Ma non tardarono molto; e le accoglienze, come era da aspettarsi, furono [080] tutt’altro che oneste e liete; ci fu però una notevole differenza fra queste e quelle fatte alla Diceria.

[...]

[082] Della sua vita a San Miniato il Carducci ha dato da sé uno specimen tale, che non permette ad un [083] suo biografo, chiunque ei sia, di dirne altro. Chi non ha letto in Confessioni e battaglie le Risorse di San Miniato al Tedesco? Se qualcuno non le ricordasse, vada e le rilegga. Io qui mi limiterò a rammentare da quello scritto qualche fatto più notevole, usando, quanto mi sarà possibile, le parole stesse dell’autore.
Insieme col Carducci andarono al Ginnasio di San Miniato gli altri due normalisti raccomandati dal professore Pecchioli al proposto Conti, Pietro Luperini e Ferdinando Cristiani. Pietro, il più anziano dei tre e il più positivo, dice il Carducci, insegnava umanità (terza ginnasiale); Ferdinando grammatica (seconda e terza); il Carducci retorica (quarta e quinta); cioè faceva «tradurre e spiegare a due ragazzi più Virgilio e Orazio, più Tacito e Dante che potessero; e buttava fuor di finestra gl’Inni sacri del Manzoni.» [1] ([1] Carducci, Opere, vol. IV, pag. 19.)
Appena arrivati, i tre maestri «si accontarono con una brigata di giovinetti, piccoli possidenti e dottori novelli, che passavano tutte le sante giornate a mangiare e bere, a giocare, amare, dir male del prossimo e del governo.» [2] ([2] Ivi, pag. 20) Questi giovinetti andavano spesso a trovare i maestri, che abitavano, tutti insieme e tutta loro, una casetta nuova subito fuori Porta fiorentina, appigionata ad essi da un [084] oste, detto Afrodisio, il quale provvedeva ai maestri anche il mangiare. La casa dei maestri, come il vicinato la chiamava, cominciò presto ad aver «mala voce all’intorno per i molti strepiti che vi si udivano di notte e di giorno, ogni qualvolta l’allegra compagnia la invadesse. [1] ([1] Carducci, Opere, vol. IV, pag. 20, 21.)»

«Qualche volta, scrive il Carducci, andavamo anche alla méssa, in domo; e una di quelle mésse m’è ancora in memoria per la lieta illustrazione di certi quadri o affreschi, che il capo più ameno della brigata recitava, menandomi in giro per le navate, in istil bergamasco, contraffacendo il parlare d’una venditrice di castagne compatriotta del poeta Bernardino Zendrini, e con un sistema critico di perpetua comparazione tra la figura di san Giuseppe e quella del sotto‒prefetto, che, tutto in nero, ascoltava il divino ufficio nella prima panca.

Hinc mihi prima mali labes. Da cotesta bergamascata e dalle mie smargiasserie di antimanzonianismo mi si levarono intorno i fumacchi, e ben presto mi avvolsero e tinsero tutto, d’una leggenda d’empietà e di feroce misocristismo. Assai prima che l’imperatrice Eugenia avesse a inorridire su i grassi venerdì santi del principe Girolamo Napoleone e dell’accademico Sainte‒Beuve, corse per Valdarno una spaventosa voce, che io il venerdì santo del ’57 fossi sceso da San Miniato alla [084] taverna del piano, e all’oste sbigottito avessi fieramente intimato: Portami una costola di quel p.... di Gesù Cristo. È vero che in quell’anno io andava pensando o andavo dicendo di pensare un inno a Gesù con a motto un verso e mezzo di Dante, Io non so chi tu sie nè per che modo Venuto sé quaggiù; ma è anche vero che quel venerdì santo io era a Firenze, e quei mesi studiavo appassionatamente Iacopone da Todi e annunciavo a tutti la sua gran superiorità su ’l Manzoni e lo salutavo Pindaro cristiano, e composi una lauda al Corpo del Signore. Il che tutto non impedì che non mi fosse avviato un processo; e un processo di tal materia a quegli anni in Toscana poteva menar lontani. Per fortuna che del ’57 anche c’era in Toscana, pur all’ombra della cappamagna di santo Stefano, del buon senso parecchio e dell’onestà.» [1] ([1] Carducci, Opere, vol. cit. pag. 21, 22.)

***

Il Carducci parla poi delle visite che nelle belle domeniche d’aprile, di maggio e di giugno gli andavano a fare da Firenze il Nencioni, il Gargani e il Chiarini, del chiasso e delle bizzarrie che facevano, lui specialmente e il Gargani; d’un suo amoretto, che non durò, dice lui, cinque giorni; e finalmente della proposta di stampare le sue poesie, [086] fattagli un bel giorno dal Cristiani, per potere col guadagno ch’ei ne sperava pagare i loro debiti all’oste e al caffettiere.

«Le poesie, scrive il Carducci, massime allora, io le faceva proprio per me: per me era de’ rarissimi piaceri della mia gioventù gittare a pezzi e brani in furia il mio pensiero o il sentimento nella materia della lingua e nei canali del verso, formarlo in abozzo, e poi prendermelo su di quando in quando, e darvi della lima o della stecca dentro e addosso rabbiosamente. Qualche volta andava tutto in bricioli; tanto meglio. Qualche volta resisteva; e io vi tornavo intorno a sbalzi, come un orsacchio rabbonito, e mi v’indugiavo sopra brontolando, e non mi risolvevo a finire. Finire era per me cessazione di godimento, e, come avevo pur bisogno di godere un poco anch’io, così non finivo mai nulla.» [1] ([1] Carducci, Opere, vol. cit., pag. 35.)

La risposta del Carducci al Cristiani aspettante, e che pur tacendo parlava, fu un bel no; e il Cristiani se ne andò, scrollando la testa. Ma l’oste e il caffettiere tempestavano coi loro conti; il tipografo, messo su dal Cristiani, offeriva un’edizione economica e trattamento da amico; e così andò a finire che il Carducci cedè, e la stampa delle sue poesie fu deliberata.
Se gli amici nelle belle domeniche d’aprile, di maggio e di giugno andavano a San Miniato a [087] trovare il Carducci, anch’egli, quando avea due o tre giorni di vacanza di seguito, andava a Firenze a trovare gli amici. Il 19 febbraio mi scriveva da Santa Maria a Monte, dove fino dal giovedì grasso era andato a cercare della caccia da portare a Firenze per fare un desinaretto cogli amici: «Sabato il giorno sarò a Firenze con quattro grossi e belli uccelli di palude, dei quali tre moriglioni e un’arzavola da farne un umido stupendo. Voi preparate, se si deve fare il pranzo domenica.» Mentre scriveva era di così cattivo umore, che neppure l’idea del pranzo bastava a rasserenarlo. «La inerzia mia, proseguiva, è grande: la noia della vita è giunta a tal grado che io non posso sopportare più me stesso: io non faccio più nulla: non farò più nulla: tutto è vanità, anche la letteratura e la gloria. Perché perdere il mio tempo e la mia salute a far commenti e poesie? No, non faccio più nulla e non farò più nulla: e faccio bene.» Era uno di quei momenti di scontentezza da cui il Carducci non di rado era preso, ma che fortunatamente passavano presto: e contribuiva sopra tutto a farli passare lo studio e il lavoro. Venne, si fece il pranzo, che fu lietissimo, e passammo insieme lietamente gli ultimi giorni di carnevale. Tornato a San Miniato, scrisse nel marzo l’ode alla beata Diana Giuntini, e attendeva a correggere e finire le altre poesie che voleva stampare.
Il primo d’aprile, mandandomi il manifesto per la pubblicazione del volumetto mi scriveva: «Jacta [088] est alea! Il manifesto per le mie Rime toscane è stampato: né posso più ritrarmi. Pensa a persuadere il Targioni che la cosa non è fatta male, avuto riguardo a' debiti grandi ch’io mi ritrovo. Per l’amor di Dio, non mi fate rimprovero ora perché altramente troppo pensiero me ne piglierebbe ..... Il libro sarà composto di una prefazione in prosa lunga assai, di una prefazione in versi: poi, 1° libro, sonetti: 2° libro, odi: 3° libro, ballate: 4° libro, canti. ‒ Due altri sonetti ho fatto, e finito secondo il costume pagano l’ode alla beata Diana, che è la più di gusto antico fra le mie odi oraziane. Il tutto sentirete a Firenze, che ora non ho voglia di scrivere più oltre.»

***

Nel maggio lavorò moltissimo a compiere e correggere le poesie da mettere nel volumetto, del quale aveva già cominciato la stampa, e a comporne delle nuove. Prima del 20 aveva finito l’ode Agli Italiani, e aveva scritto, fra altri versi, il principio del Canto alle Muse, che, mi scriveva, « per l’anima d’Omero, sono i migliori versi ch’io abbia mai fatto.» E anche a me quando poi me li mandò manoscritti, parvero bellissimi, e glie ne scrissi lodandoli entusiasticamente. Ho voluto ora rileggere il lungo frammento intitolato Omero, ch’egli accolse poi nelle edizioni successive delle poesie; e (perché [089] non dirlo?) ho trovato giustificabile e giustificato il mio giudizio entusiastico di quarantacinque anni fa. Quei versi mi paiono ancora belli quanto i più belli del Foscolo; ma si capisce che, se non ci fossero stati prima il Foscolo, il Monti e il Leopardi, il Carducci forse non li avrebbe scritti, certo non li avrebbe scritti a quel modo. Il 26 mi mandava le prove di stampa dei sonetti, che allora erano 28, e furono ridotti a 25; il 6 giugno avea finito l’ode A Febo Apolline, cominciata il 25 novembre 1851 a Firenze, e ripresa soltanto a San Miniato nel dicembre 1856.
Nel luglio ebbe per un momento l’idea di prender parte al concorso allora aperto per la cattedra di eloquenza italiana nell’Università di Torino. «Se vi fossero nomi famosi, mi scriveva, non avrebbero aperto il concorso: io avrei caro di sapere se vi paresse audacia il presentarmi anch’io.» Io non so che cosa gli rispondessi; ma probabilmente l’idea gli passò via subito ed egli non ne fece altro.
Mentre attendeva alla stampa delle poesie, che fu compiuta in poco più di due mesi, dal maggio al luglio (il volume fu pubblicato il 23), era agitato da sentimenti diversissimi, ora di eccessiva depressione, ora di esaltazione non meno eccessiva. L’8 di giugno mi scriveva: «Poco importami vedere il mio nome stampato in cima a una ventina di componimenti, che pochissimi intenderanno, due o tre leggeranno sbadigliando senza intendere, tutti [090] disprezzeranno, e più quelli che meno li avranno intesi! Ahi stoltezza stoltissima tutto, e lo studiare e il credere alla fama e il desiderarla, e più grande stoltezza stoltissima il credere e pretendere di pensare bene soli fra milioni che ridono o compatiscono, e dirlo in faccia a cotesti milioni, e pigliarci il maledetto sdegno. Ragazzaccio impertinente, avrebbon ragione di dirmi gl’italiani, e chi se’ tu che col latte ancor su le labbra pretendi sedere a scranna e insultare noi venticinque milioni? Degna tua punizione il sorriso e lo scappellotto. Sta bene! E io, siccome quegli che fo un gran gridare con picciolette forze, a mo’ della rana e della cicala, dovrei pigliarmi lo scappellotto, e buci. Presunzione da ragazzi: per dire a un secolo intero, tu fai male, altre faccie voglionsi che la mia, altri studi, per Dio! Or sia così, e gl’italiani mi deridano e mi piglino a scappellotti; bene sta: né io fiaterò. Orgoglio! come se gl’italiani volessero curarsi del librettuccio mio, il quale dalle mani di pochi ragazzi e giovanetti passerà, come dicea fra Gargani, a formare aquiloni a’ fanciulli, e anime a dipanar gomitoli alle signorine.»

***

Con una lettera successiva, annunziandomi che la stampa del libretto era finita, e giurando e spergiurando che, salvo il Mamiani, il Gussalli, il [091] Ferrucci, il Mordani, il Tommaseo e il Thouar (solo tra' fiorentini), nessun altro dovea averlo in regalo, diceva tra le altre cose: «belve di trecentomila capi, Giosue Carducci non vi presenterà il libretto suo, perchè gli diciate che è un giovane di buone speranze, se si converte alla buona filosofia. No, bestioni, io sputerò in faccia alla vostra filosofia: e vo' credere nelle Muse e in Apollo sempre: e quando sarò per morire mi farò leggere Omero: e non sia vero che intorno a me siano preti. Mi farò bruciare sopra un rogo di legna di pino, a cui sottostaranno tutti i miei libri. Sì, sì, viva Apollo Febo lungioprante, Patareo, Delio, Cinzie, e moia chi dice di no... . Per Iddio Apollo, di’ch’io credo assolutamente nella religione d’Omero, e che io non iscrivo di mitologia per imitazione o perchè sia uno scolaretto, ma perchè credo che vera poesia, hai inteso, vera poesia non è che là.»
All’ultim’ora il Carducci dimise il pensiero delle due prefazioni, una in prosa e l’altra in versi, della divisione delle poesie in quattro libri e d’una piccola introduzione esplicativa dei saggi del Canto alle Muse, che doveva essere indirizzata al maestro suo Michele Ferrucci; e il libretto uscì composto soltanto di venticinque sonetti, di dodici Canti e dei detti Saggi di un Canto alle Muse. Tra i Canti erano comprese due ballate di stile antico e la Lauda spirituale per la processione del Corpus Domini. Una delle ballate, La bellezza ideale, era [092] dedicata al Padre Barsottini, l’altra, Ultimo inganno, a Francesco Donati delle Scuole Pie, la Lauda spirituale a Giulio Cavaciocchi; alcuni sonetti e la maggior parte dei Canti erano indirizzati o dedicati ad amici (Chiarini, Tribolati, Nencioni, Targioni, Buonamici, Pazzi, Cristiani, Gargani, Panicucci); i saggi del Canto alle Muse erano dedicati a Michele Ferrucci. Era premessa alle poesie questa dedicatoria: «A voi | Giacomo Leopardi e Pietro Giordani | viventi | queste mie rime | come ad autori e maestri | offerto avrei vergognando | le quali parmi ora superbo | consecrare | alla memoria di voi grandissimi | io piccolissimo. | »
Inutile dire che lo scopo del libro, quello cioè di pagare i debiti, non fu raggiunto. «I debiti, scrive il Carducci, anzi che estinguere, dilagarono,» tanto che dovettero intervenire i babbi e le mamme a pagarli; «e le Rime rimasero esposte ai compatimenti di Francesco Silvio Orlandini, ai disprezzi di Paolo Emiliani Giudici, agl'insulti di Pietro Fanfani. » [1] ([1] Carducci, Opere, vol. IV, pag. 86, 87).
Alla fine d’agosto il Carducci abbandonò San Miniato, per andare a passare alcuni giorni in famiglia a Santa Maria a Monte, e di lì si recò nella prima metà di settembre a Firenze.

[…]

[093] Lasciando San Miniato, il Carducci era deciso di non tornarvi, e perciò aveva concorso ad una cattedra nel Ginnasio municipale d’Arezzo. Vinse il [094] concorso, e fu nominato; ma le accuse d’empietà e di liberalismo, che dalle autorità politiche di San Miniato erano giunte al Governo granducale contro il giovane insegnante, furono cagione che la nomina di lui non fosse approvata. Era allora impiegato al Ministero della istruzione Pietro Fanfani, furibondo contro il Carducci e gli amici pedanti, che non gli avevano risparmiate e non gli risparmiavano critiche e canzonature.
Il Fanfani era stato fino allora in Toscana una specie di dittatore nelle cose della lingua; e gli amici pedanti, mettendo in mostra gli errori che, appunto nel fatto della lingua, si trovavano nei suoi libri (la maggior parte dei quali commenti e postille ad opere altrui), erano stati cagione che l’autorità e la fama di lui ne erano rimaste un po' scosse.

[…]

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