domenica 5 settembre 2010

LE FONTI ALLE FATE - LA NOVELLA

di Francesco Fiumalbi
La storia, l'affetto e la curiosità, che legano le persone che abitano a San Miniato e dintorni, al luogo delle Fonti alle Fate, passano anche per questa semplice, quanto suggestiva, "novella" scritta dal Prof. Cornelio Rossi negli anni '50 e pubblicata nel Bollettino dell'Accademia degli Euteleti n. 28, del 1954.
Si tratta di un piccolo capolavoro che ha contribuito, come poche altre cose, a costruire il mito di questo luogo "magico". Del racconto esiste anche un'illustrazione poco conosciuta: un quadro, firmato dal pittore sanminiatese Sauro Mori, che viene proposto unito al brano integrale. Tale pittura ha il grande pregio di trasporre il testo in immagine, con quel sapore fanciullesco, fatato, che arricchisce la novella di quello spirito di ingenua meraviglia che, appena un po' più creciuti, siamo portati a nascondere.
Prima di passare alla novella, occorre porgere un ringraziamento particolare a Sauro Mori, che ha gentilmente messo a disposizione la sua opera. Una sentita riconoscenza va anche a Mario Caponi, membro dell'Accademia degli Euteleti e amico del Prof. Rossi, e a Luciano Marrucci per il contributo nella stesura di questo intervento.

 
LE FONTI ALLE FATE
In questa novella, scritta con l’aiuto di un antico cronista si racconta una curiosa leggenda che si innesta alla storia medioevale: non c’è obbligo di leggerla e tanto meno di crederci.
Quando la vallata dell’Arno inferiore era una regione squallida e paludosa e, come racconta Marziale, nutriva pochi schiavi vaganti di giorno per le campagne col suono delle loro catene, anche più su, verso Empoli, pochi e miseri villaggi di pastori languivano nella miseria di una servitù che stringeva il cuore.
Venne il Cristianesimo e allora, anche se non scomparve, molto diminuì la schiavitù di questa regione; i fedeli poterono liberamente riunirsi per udire la Messa e compiere gli altri uffici di pietà; sorsero in tutto il Valdarno numerose e piccole chiese dedicate ai primi martiri e ai primi santi e, attorno ad esse, abitazioni dove si cominciò a vivere con maggiore serenità e con minore miseria.
Il primo di questi borghi fu quello di San Genesio situato alle falde di una serie di colline che degradano fertili fra l’Arno e l’Elsa; esso divenne presto un piviere che sovrintese anche ad un altro piccolo borgo sorto più tardi sopra un’altra serie di colline che piene di verzura guardano liete e silenziose la valle dell’Arno; questo piccolo borgo ebbe il nome di Samminiato.
Scese Ottone I dalla Germania e procedè alla conquista di molti feudi; siccome prima di partire voleva lasciare nel cuore della Toscana un luogo forte che testimoniasse la potenza dell’Impero, munì Saminiato di torri e fortezze e sovrappose così un feudo imperiale ad un possesso ecclesiastico, riducendo San Genesio in una immeritata oscurità.
Nel castello di Saminiato indigeni e longobardi vissero in forzata amicizia predando e riducendo in soggezione i contadi vicini finché i guelfi fiorentini non si opposero a questa lenta invasione, e costrinsero i sanminiatesi in più ridotti confini; quando più tardi passò il Barbarossa, Sanminiato riebbe i castelli perduti ma dovette subire i vicari imperiali che si insediavano per rendere giustizia, a modo loro, agli antichi diritti.
Così nacque il comune di Sanminiato che ebbe una parte importante nella minuta storia medioevale perché provocò e fomentò tante piccole guerre, dove signorotti e contadini, ora amici, ora nemici, risolvevano le loro quistioni a colpi d’alabarda e a punta di coltello.

Sauro Mori, Le Fonti alle Fate, 1981, particolare

Vivevano entro il Castello di questo comune, insieme a tante altre che la storia ricorda, la famiglia dei Mangiadori e quella dei Pallaleoni entrambe di sangue germanico, che non riuscivano a trovar pace fra loro, perché ogni giorno o per colpa di un Mangiadori o per colpa di un Pallaleoni nascevano motivi di rivalità e di discordia. Quando i Pallaleoni più potenti, ricorsero ai diritti di giustizia, i Mangiadori ebbero la peggio e dovettero abbandonare Sanminiato per rifugiarsi come esuli nel vicino comune di Fucecchio (e di Montaione) nel tempo in cui l’ambizioso Castruccio si avviava verso una singolare ma pur troppo caduca grandezza. Il Castracani li ebbe certamente dalla sua nella guerra contro i fiorentini, perché, a quanto si legge nelle storie, sembra che fossero proprio i Mangiadori quelli che, quantunque forestieri, riuscirono con segrete intelligenze a farlo entrare in Fucecchio.
I terrazzani fucecchiesi avevano opposto inutilmente disperata difesa; i fuochi accesi sulla rocca, in richiesta di aiuto non valsero a salvare il castello. Castruccio ormai si insediava da signore, e con taglie e balzelli arruolava uomini e accumulava rifornimenti per continuare la guerra contro Firenze.
Intanto organizzava scorrerie anche nel territorio di Sanminiato e ne nascevano zuffe sanguinose, perché i Sanminiatesi intendevano difendere il loro contado.
Eravamo nel mese di agosto del 1320; a Castruccio mancava il grano perché la piena dell’Arno, allagando nell’inverno i campi del fucecchiese, aveva distrutto le semente; non c’era altro da fare che rifornirsi in quel di Sanminiato; troppo scomodo e lontano sarebbe stato provvedersi nel lucchese, anche se quel guelfo territorio avesse accondisceso alle sue richieste.
Una notte 50 armigeri furono messi da Castruccio agli ordini di un giovane della famiglia Mangiadori, già esperto nelle armi, e mandati in scorreria per i dintorni di Sanminiato. Grato fu l’incarico per il giovane guerriero che poteva così vendicarsi dell’oltraggio inflittogli con l’esilio. Verso la mezzanotte partì con la decisione in cuore più che di razziare del grano, di porre guasto e disordine a danno dei Pallaleoni e di passare con la spada chiunque gli si opponesse.
Poche acque e lente scorrevano in Arno e fu facile il passaggio all’altra riva; divisi i suoi in gruppi capitanati dai più arditi, attraverso la buia e silenziosa campagna, arrivò fin sotto il castello di Sanminiato senza incontrare ostacolo alcuno. Ma fatto che si fu ai piedi della collina, udì i rintocchi delle campane che dentro il castello di Sanminiato chiamavano a raccolta per l’iminente pericolo; già rumore di armati si sentiva anche nella valle che discendeva precipitosa al piano fra i due speroni di San Martino e della Pieve. Sostò allora per radunare gli sparsi soldati e mosse incontro ai difensori deciso alla strage.
Il cozzo avvenne e fu tremendo; grida di eccitamento e lamenti di feriti riempivano la valle; fra lo scompiglio e la confusione della lotta si colpivano tra loro, difensori e offensori.
Giancarlo Pallaleoni, disceso da Sanminiato alla testa dei suoi, nel buio della notte, menava colpi dovunque vedesse muovere persone; Alamanno Mangiadori lo riconobbe alla voce e mosse contro di lui deciso.
E si colpirono a vicenda finché entrambi, stremati a feriti, caddero al suolo avvinghiati in un amplesso mortale. E così rimasero; intanto la mischia si spostò e non molto tempo dopo le due schiere, prive dei loro capi, si dispersero. I soldati di Castruccio avevano già preso il largo verso la sponda dell’Arno, quando quelli di Pallaleoni, dopo aver cercato invano gli altri avversari, ritornavano al Castello.
I due capi mancavano. Ogni schiera credé che l’un fosse stato fatto prigioniero dall’altra schiera, e la triste notizia fu portata a Sanminiato e a Fucecchio.
I due avversari giacevano invece al suolo sanguinanti e senza forza né per offendersi né per aiutarsi; Giancarlo aveva una coscia trapassata dalla spada di Alamanno, Alamanno gemeva per una grave ferita al petto.


Sauro Mori, Le Fonti alle Fate, 1981, particolare

Venne la luce del giorno; nessun soccorso giungeva; Gian Carlo più fiero di Alamanno ebbe la forza di togliersi la spada dalla coscia e di cingersi con una benda la ferita dalla quale ormai non usciva più sangue; si sollevò e cercò di sollevare Alamanno che si abbandonava riverso e finito tra le sue braccia; lo trascinò su per la collina, ma per breve tratto, che le forze gli mancavano, e si diede a chiamare aiuto; lo tormentava una terribile sete provocata da tanto sangue perduto. E l’acqua non era lontana; sentiva il rumore di una piccola vena e l’impossibilità di raggiungerla gli dava spasimo ancora maggiore. Se nessuno si fosse accorto di loro, sarebbero morti prima di sera.
D’un tratto un rumore di gente che cercava gli arrivò all’orecchio; rinnovò allora i suoi richiami, e due fanciulle bionde entrambe belle come due angeli gli si avvicinarono.


Sauro Mori, Le Fonti alle Fate, 1981, particolare

- Oh! Fate benedette – esclamò in suo linguaggio – vi manda Iddio; aiutateci perché moriamo.
Erano quelle Aloisa e Matelda, due gemelle figlie di Ghio dei Portigiani che vivevano in un modesto abituro a metà della collina. Lo zio Antonio padre di quel Marcovaldo che per umiltà ed esempio di San Francesco rimase sempre diacono, alla morte di Ghio le aveva affidate fuor delle mura ad uno del suo contado, e quivi erano cresciute in serenità e in florida salute.


Sauro Mori, Le Fonti alle Fate, 1981, particolare

Aiutarono i feriti a sollevarsi e a trascinarsi lì presso alla fonte; poi facendo giumella somministrarono loro l’acqua salvatrice e presso loro rimasero finché non giunsero aiuti.
Giancarlo ed Alamanno si riconciliarono e, ritornati in florida salute, le trassero in spose; Giancarlo sposò Aloisa, Alamanno Matelda.
E da questi due matrimoni nacquero tanti figli. La cronaca narra che nove ne avesse Giancarlo da Aloisa e undici Alamanno da Matelda. Le famiglie dei Mangiadori e dei Pallaleoni divennero così le più potenti famiglie del comune.
Questi avvenimenti sulla bocca del popolo presero proporzioni leggendarie; le fonti, presso le quali i primi fatti si svolsero, furono allora in poi chiamate “Le Fonti alle Fate” e anche oggi portano quel nome.
Alle acque di queste fonti venivano a dissetarsi le spose che dopo il matrimonio non avevano figli; correva la voce che molte di queste spose dopo aver bevuto quell’acqua avessero avuto figlioli in quantità.


Sauro Mori, Le Fonti alle Fate, 1981, particolare

Si racconta di una sposa dei Ciccioni che dopo aver bevuto quest’acqua ebbe tre figli ad un sol parto.
E quando Sanminiato, volto in decadenza, passò ai fiorentini, essendo quella gente ancor più disposta alle credenze, maggiormente, si avvalorò il potere di quelle acque. Durante tutto l’anno e specialmente nella stagione estiva non passava giorno che qualche coppia di sposi, che non aveva ancora la consolazione della prole, venisse anche da lontane contrade a dissetarsi con l’acqua fresca e cristallina della “fonti alle fate”.
La piaga dei matrimoni senza figli aveva trovato in quelle fonti il suo farmaco risanatore.
Sei secoli e più sono ormai trascorsi da quei tempi nei quali Sanminiato, meta di Imperatori e possesso agognato di papi, scriveva la sua storia e forse la storia più interessante fra quelle dei comuni toscani. Ancora oggi vive la famosa sorgente; sotto due arcate vecchie e mezze dirute, coperte di muschi e di edera, zampillano ancora da due scaturigini con voce flebile ma argentina, fili di acqua frasca e leggera; all’intorno delle robuste acacie e dei prosperi cipressi procurano nell’estate un’ombra desiosa che ristora ed allieta.
Da quell’ombra godi la vallata dell’Arno che si stende ai tuoi piedi come una città continua; dove prima era silenzio e trama di guerra, ora suona il lavoro dell’artigiano e fumano, rivelatrici di vita, le lunghe ciminiere.
Verso le ore vespertine troveresti ancora presso le Fonti coppie di innamorati che nascosti fra le betulle nascenti si dicono tante cose. Ma le mamme non vogliono queste passeggiate augurali; le acque forse hanno aumentato la loro potenza taumaturgica, forse hanno perduto ogni scrupolo, perché con questa passeggiate potrebbero nascere qualche volta figli, senza matrimoni.

Prof. Cornelio Rossi


Sauro Mori, Le Fonti alle Fate, 1981

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