mercoledì 21 dicembre 2011

BUONE FESTE 2011-12


La pubblicazione dei post riprenderà sabato 7 gennaio 2012

domenica 18 dicembre 2011

IL CROCIFISSO AI CAPPUCCINI

di Francesco Fiumalbi
APSM-ISVP-003
IL CROCIFISSO AI CAPPUCCINI

SCHEDA SINTETICA
Oggetto: Edicola votiva
Luogo: San Miniato, Loc. I Cappuccini, via Calenzano
Tipologia: Edicola
Tipologia immagine: Pittura murale
Soggetto: Gesù Crocifisso
Altri soggetti: No
Autore: Antonio Luigi Gajoni
Epigrafe: No
Indulgenza: No
Periodo: Pittura primi anni '60, edicola più antica fine '700-inizio '800
Riferimenti: Antonio Luigi Gajoni

Id: APSM-ISVP-003

Fondato nel 1609, l’ex convento dei Frati Cappuccini si trova lungo la strada di crinale che dall’antica, e distrutta, porta di Poggighisi conduce alla frazione di Calenzano (1). E’ oggi sede del Centro Studi “I Cappuccini” della Cassa di Risparmio di San Miniato.
La facciata della chiesa e, più in generale, l’antico convento, sono orientati a nord, ovvero verso coloro che, uscendo da San Miniato, percorrono la strada per Castelfiorentino. Si rivolgono quindi non tanto a chi viene, ma soprattutto a chi va. All’ingresso del sagrato della chiesa è situata una grande edicola (150x280 cm circa), inserita all’interno della cinta muraria del convento, contenente una Crocifissione dipinta da Antonio Luigi Gajoni attorno al 1964 (2).
Antonio Luigi Gajoni (Milano, 1889 – San Miniato, 1966) è stato un pittore molto attivo a San Miniato, dove si stabilì a partire dal 1940. Anche se della sua ricca biografica tratteremo in un apposito post, vale la pena ricordare la sua imponente produzione pittorica per la Diocesi di San Miniato (3).

Ex convento dei Padri Cappuccini a San Miniato
Foto di Francesco Fiumalbi

Come nelle altre sue opere d’arte sacra, anche per questa Crocifissione, Gajoni utilizza un linguaggio espressivo che trova ideale fondamento nella grande tradizione pittorica manierista e barocca, mutuata, però, da soluzioni compositive decisamente moderne. Anche l’utilizzo di colori accessi, forti, contrastanti, dotati, però, di una complessità tutta interiore, con la ricerca di cangiantismi e gradazioni tonali (4) segue la medesima direzione.

Antonio Luigi Gajoni, Crocifissione
Ex convento dei Padri Cappuccini a San Miniato
Foto di Francesco Fiumalbi

Come possiamo vedere dall’immagine, la figura del Cristo Crocifisso è perfettamente aderente alla tradizione iconografica. Della figura spicca il volto, contratto, sofferente, ma che ha la forza di volgersi verso l’alto, verso Dio, quasi a pronunciare le parole: “Padre, perdonali perché non sanno quello che fanno” (Gv, 23,34).
Ma la cosa davvero insolita è il sipario, dipinto ai lati della croce. Non si tratta del velo del tempio che si squarciò al momento della morte di Gesù: è un sipario; Gesù è ancora vivo. Interessante è notare anche la posizione della croce: la base sembra posizionata oltre il sipario, mentre la parte superiore è chiaramente davanti. E’ un’illusione.
Il telone è rosso, come quello dei teatri, che apre, ed al tempo stesso chiude, la rappresentazione. Una visione degli ultimi momenti della vita terrena di Gesù, quindi un sipario che si chiude, ma anche il nuovo che porterà la morte e la resurrezione, e quindi è anche un sipario che si apre.
Il tema del sipario non è nuovo nella pittura del primo novecento, basti pensare al Sipario per Parade di Pablo Picasso (1917). Tema che verrà sviluppato fra le due guerra, ma che verrà recuperato alcuni anni più tardi da altri grandi maestri della pittura del ‘900, fra cui De Chirico, con le opere Orfeo trovatore stanco (1970) e Orfeo solitario (1973), e da Savador Dalì con Il sipario della memoria (1983).

Antonio Luigi Gajoni, Crocifissione
Ex convento dei Padri Cappuccini a San Miniato
Foto di Francesco Fiumalbi

E’, quindi, una Crocifissione “spettacolare” quella di Gajoni, è uno spettacolo. E’ l’evento al culmine della vita di Cristo, la scena finale del primo atto, quello terreno. Il sipario è ormai pronto a chiudersi, ma anche a riaprirsi con la morte e resurrezione di Gesù.
La figura del Cristo emerge chiara e luminosa rispetto al “cielo oscurato” dello sfondo. Il terreno su cui poggia la croce diventa un palcoscenico. Infatti non è collinare, come vorrebbe la tradizione, bensì piatto.
La composizione è contraddistinta da forti contrasti cromatici: il rosso morbido e denso del sipario, il bianco luminosissimo del perizoma, il giallo composto dell’aureola che, legati da tonalità  più cupe, caratterizzano la fervida attività pittorica di Antonio Luigi Gajoni.

Antonio Luigi Gajoni, Crocifissione
Ex convento dei Padri Cappuccini a San Miniato
Foto di Francesco Fiumalbi

Anche se, probabilmente, non si era ancora concluso, Gajoni con questa opera dimostra certamente di respirare quella ventata di aria nuova proveniente dal Concilio Vaticano II e che, proprio nei messaggi conclusivi, riserverà agli artisti un posto speciale.



NOTE BIBLIOGRAFICHE
(1) Piombanti Giuseppe, Guida della Città di San Miniato al Tedesco, Tipografia Ristori, San Miniato, 1894, in Matteoli Anna (a cura di), Guida storico-artistica di San Miniato, Bollettino dell'Accademia degli Euteleti, n. 44, 1975, pag. 127-129.
(2) Macchi Luca, Immagini sacre per le pubbliche vie di San Miniato e del suo territorio comunale, in Bollettino dell’Accademia degli Euteleti, n. 61, 1994, San Miniato, pag. 200.
(3) Per le notizie biografiche su Antonio Luigi Gajoni si rimanda a Fagioli Marco, Antonio Luigi Gajoni pittore. Da Parigi a San Miniato, Aion, Firenze, 2001.
(4) Fagioli Marco, Roberta Roani (a cura di), Anton Luigi Gajoni, artista tra Italia e Francia. Pitture e bozzetti dal 1904 al 1966, Catalogo della Mostra tenutasi a Palazzo Grifoni – San Miniato (Pisa), Bandecchi e Vivaldi, Pontedera, 2002, pag. 79.

sabato 10 dicembre 2011

LA DIRUTA PIEVE DI BARBINAIA (quarta parte) COME POTEVA ESSERE

di Francesco Fiumalbi e Alessio Guardini

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Dopo aver trattato del contesto geografico entro cui si collocava la Pieve di Barbinaia, analizzato le testimonianze documentarie e aver fatto un’analisi architettonica di ciò che ne rimane, siamo ora a cercare di capire come poteva apparire all’epoca del suo massimo splendore.

Porzioni murarie dell’antica e diruta Pieve di Barbinaia
Foto di Francesco Fiumalbi

“Grazie alla bontà misericordiosa del nostro Dio, per cui verrà a visitarci dall'alto un sole che sorge per rischiarare quelli che stanno nelle tenebre e nell'ombra della morte e dirigere i nostri passi sulla via della pace”
Luca 1, 78-79

Fin dagli inizi del Cristianesimo si era diffusa la pratica di orientare i luoghi di culto verso la direzione est-ovest. Questa prassi verrà sancita in maniera ufficiale nel Concilio di Nicea: le chiese dovevano essere Versus Solem Orientem, condizione confermata più e più volte dai pontefici susseguitisi fino al medioevo (1).
Nella figura di Gesù sono molti gli aspetti legati al sole (Sol Justitiae, Sol Invictus e Sol Salutis); inoltre la direzione orientale richiamerebbe il simbolo della croce, a sua volta simbolo della vittoria di Cristo sulla morte. La condizione per cui l'ingresso principale era sul lato occidentale, faceva sì che i fedeli entrati nell'edificio, avvicinandosi verso l’altare, ripercorressero idealmente il percorso di Cristo (2).
Realizzare un edificio con un orientamento perfetto, per i mezzi dell’epoca, non era facile, ma nemmeno impossibile. Tuttavia gli sforzi potevano essere vanificati dalla conformazione orografica del territorio circostante; l’orientamento poteva variare verso una precisa direzione fisica nell’orizzonte orografico dove fisicamente sorgeva il sole. E’ questo il caso anche della Pieve di Barbinaia: la valle del Torrente Chiecina forma un angolo di circa 25°, in senso orario, rispetto all’ideale asse est-ovest. Quindi se la chiesa fosse stata orientata esattamente verso oriente, la finestra absidale avrebbe guardato verso la collina. Per ovviare a questo problema l’edificio doveva presentare un orientamento inclinato di 20° in senso orario rispetto all’asse equinoziale (est-ovest): i due setti paralleli di muratura seguono infatti tale angolazione.


Cosa rimane dell’antica Pieve di Barbinaia
Schema di Alessio Guardini

Nel 1860, Ignazio Donati affermava che la pieve era “tutta in rovina non restando in piedi che poche braccia di mura laterali e molta parte della muraglia sovrastante il coro. All’intorno è tutto ingombro il terreno di pietre quadre e sassi fra spine e dumi, ma questi avanzi fanno giudicare soltanto a vederli, che questa chiesa doveva esser bella e assai spaziosa e forse distinta in tre navate, poiché, oltre le grosse pietre di cui erano costruite le mura, si vedono fra le macerie alcuni capitelli di colonne, larghi più di un metro atti a sostenere un peso molto rilevante, e che fosse destinata a contenere una popolazione assai numerosa” (3).

I due setti murari paralleli che sono giunti fino ai giorni nostri, sono distanti fra loro circa 11,50 metri e dovrebbero costituire il lato minore. Il lato maggiore, secondo i canoni dell’epoca (4), doveva essere circa il doppio (5). Considerando una struttura a tre navate e prendendo per buona l’idea che la facciata fosse in linea con la parete che presenta resti di strutture in laterizio, possiamo tentare di ricostruirne l’aspetto a grandi linee.
La pianta, schematicamente, doveva essere costituita da due grandi quadrati, di lato 20 braccia (o 4 canne agrimensorie, circa 11,60 m). La suddivisione interna doveva essere in rapporto 1:2, ovvero la navata centrale doveva misurare 10 braccia (o 2 canne agrimensorie, circa 5,80 m) e le navate laterali 5 braccia ciascuna (pari a 1 canna agrimensoria, circa 2,90 m). E tutto questo per 4 moduli o campate. Da questo se ne ricava il seguente schema compositivo:

Schema compositivo della pieve di Barbinaia
Disegno di Alessio Guardini

E’ assai probabile che la pieve avesse anche una torre laterale, costruita attorno al XII-XIII secolo, forse ad uso di torre campanaria (6), un po’ come la pieve di Corazzano, la Pieve di Cojano, la Pieve di Casole d’Elsa. Di seguito proponiamo la ricostruzione ipotetica della pianta:

Pianta della Pieve di Barbinaia, ipotesi
Disegno di Alessio Guardini

Sicuramente la facciata doveva in qualche modo corrispondere all’organizzazione interna dei volumi. Per cui doveva essere tripartita secondo lo schema interno e doveva presentarsi idealmente in questo modo:
Sezione della Pieve di Barbinaia, ipotesi
Disegno di Alessio Guardini

Facciata della Pieve di Barbinaia, ipotesi
Disegno di Alessio Guardini

Con questo post si conclude il viaggio alla scoperta della Pieve di Barbinaia, di cui ancora molto rimane da capire. Sicuramente attorno alla Pieve dovevano esserci delle sepolture, ma anche una comunità. E’ assolutamente inconcepibile una pieve di queste proporzioni isolata: doveva esserci un villaggio, magari non molto grande, ma qualcuno doveva abitarvi nelle vicinanze. In attesa che l’archeologia faccia la sua parte, per ora dalla Pieve di Barbinaia è tutto (forse).

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NOTE BIBLIOGRAFICHE:
(2) Ibidem.
(3) Donati Ignazio, Memorie e documenti per la storia di Montopoli, Montopoli, 1860, pag. 445.
(4) Si veda la Collana Chiese medioevali della Toscana, Ed. dell’Acero.
(5) Dilvo Lotti, San Miniato nel tempo, SAGEP, Genoca, 1981, pag. 56.
(6) Dini Francesco, Dietro i nostri secoli, Centro Editoriale e Grafico, Santa Croce sull’Arno, 1979, pag. 43.

sabato 3 dicembre 2011

15 MINUTI CON… ALEXANDR STAL’NOV

di Francesco Fiumalbi

Questa puntata della rubrica “15 MINUTI CON…” è dedicata ad Alexandr Stal’nov, iconografo russo, che ha realizzato l’apparato pittorico della chiesa dedicata alla Trasfigurazione del Signore di San Miniato Basso. Le icone di Maria, Madre di Dio della Tenerezza e il trittico della Trasfigurazione del Signore sono opere maturate da un artista proveniente da un contesto socio-culturale molto lontano dal nostro. Durante una sua recente visita a San Miniato Basso, abbiamo colto l’occasione per intervistarlo a proposito della sua esperienza, artistica e religiosa insieme.

Sig. Stal’nov, lei che è un iconografo, potrebbe spiegarci quale rapporto intercorre tra arte e icona?
L’arte, in generale, è come una porta molto larga, attraverso la quale può entrare di tutto. L’arte religiosa è un qualcosa di più stretto, e l’icona è una porta ancora più piccola, nella quale il pittore si esprime preservando l’ortodossia. Fare un’icona è mettersi al servizio di Dio, un po’ come il sacerdozio. L’icona non è solo un dipinto, come nella tradizione artistica e religiosa occidentale: è la “Scrittura” che si fa immagine, che si manifesta e l’iconografo è l’intermediario. Per questo, durante la sua realizzazione l’iconografo prega; può aiutarsi ascoltando musica sacra, recitare salmi, oppure restare in silenzio, mettendosi in ascolto. L’icona non è frutto della sola mente, o della sola tecnica, ma anche del cuore, del cuore che sta in ascolto di Dio.

 Alexandr Stal'nov

Per diventare iconografi occorre, quindi, aver maturato una vera e propria vocazione. Qual è stata la sua storia?
Inizialmente pensavo di fare il pittore o il restauratore. Abito in una città, San Pietroburgo, che è moderna, molto occidentale, costruita grazie anche a numerosi architetti italiani. Facendo il mio percorso di studi sulla pittura, ad un certo punto mi recai nella città di Novgorod, a circa quattro ore di viaggio da San Pietroburgo. E’ una città molto antica, fondata oltre mille anni fa, famosa per la sua importantissima scuola di pittura di icone. Su consiglio di una amica, mi recai in un vicino monastero, tuttora esistente. All’epoca non funzionava più come tale, ma il regime sovietico lasciava che gli spazi del monastero fossero utilizzati come ateliers di pittura per icone. Io studiavo, guardavo, mi colpiva la bellezza dell’arte di queste icone. Per me fu una vera e propria scoperta, anche come riscoperta di una tradizione antichissima. L’interesse fu così forte che quando tornai a San Pietroburgo non mi interessava più la pittura “laica”, ma cominciai ad approfondire le icone, che non sono solo opere da guardare, come fatto artistico, magari in un museo, ma sono proprio un collegamento con Dio. Hanno un senso più grande, servono per qualcosa di più. Avevo 22-23 anni, e di lì a poco avrei ricevuto il Battesimo nella Chiesa Ortodossa Russa.

Alcuni anni dopo è iniziata la sua esperienza anche in Italia.
Sono stato chiamato, nel 1991, dal Centro “Russia Cristiana” di Seriate, vicino Bergamo, che ha lo scopo di far conoscere la ricchezza artistica, culturale e liturgica del patrimonio ortodosso russo, nonché di favorire il dialogo ecumenico fra Cattolici e Ortodossi Russi. Nel frattempo insegnavo Iconografia alla Scuola Teologica di San Pietroburgo e una delegazione della scuola venne a trovarmi al mio laboratorio. Nello stesso anno ho conosciuto Giancarlo Pellegrini, noto iconografo italiano, col quale ho cominciato a collaborare intensamente dal 1993. Abbiamo realizzato opere a Padova, a Castel Gandolfo, a Mestre.

Per l’icona della Trasfigurazione di San Miniato Basso è stato scelto il modello a mosaico della Cappella Palatina di Palermo. Quali difficoltà ha incontrato nell’esprimere il tema?
La Cappella Palatina di Palermo è un vero tesoro, forse più importante addirittura della Cappella Sistina, anche se molto meno conosciuta. Stilisticamente non ci sono particolari differenze con il linguaggio iconografico orientale. Cambiano la sensibilità, alcuni particolari elementi della tradizione, ma non il messaggio, che è il messaggio di Cristo. Non ci sono state difficoltà: la proto-immagine italiana ha concesso un po’ più di libertà, proponendo, quello che a Palermo è un mosaico, in chiave pittorica. Ho comunque cercato di rimanere nel solco tracciato dalla tradizione, poi ognuno ha la propria sensibilità. Non si tratta di copiare un modello, bensì di esprimerlo. Riguardo al tema della Trasfigurazione c’è il racconto scritto nel Vangelo, e poi c’è la tradizione iconografica: possiamo accentuare leggermente un dettaglio, ma non possiamo stravolgere la tradizione.


Alexandr Stal'nov


Ha trovato difficoltà ad esprimersi nel contesto italiano, lontano da quello russo?
Nessuna difficoltà. In Italia ho trovato persone con grande fede e questa fede non può che andare di pari passo con l’arte. In Italia c’è la concentrazione di arte e di architettura più grande del mondo. Vengo da lontano,  ma qui ho percepito una sensibilità diffusa per la religione e per l’arte, innata, c’è una sorta di dimensione interiore collettiva.

Grazie Sig. Stal’nov, il tempo a nostra disposizione è terminato.
E’ stato un piacere.