lunedì 11 marzo 2013

LE FORCHE DI SAN MINIATO BASSO

di Francesco Fiumalbi

Fino ad un paio di secoli fa, ogni territorio aveva un'area appositamente attrezzata per le esecuzioni. San Miniato era un centro giurisdizionalmente molto importante: era sede di un vicariato fin dalla conquista fiorentina del 1370. Senza entrare troppo nei dettagli, il vicario era il rappresentante dello Stato - dapprima della Repubblica, poi del Ducato e infine del Granducato - a cui erano delegate diverse funzioni, seppur con molteplici varianti a livello locale. Grosso modo a tale figura spettavano l'amministrazione della giustizia (con funzioni anche politiche, informative ed esecutive) e la sovrintendenza all'ordine pubblico (anche con mansioni militari, organizzative e logistiche). Ovviamente non faceva tutto da solo: aveva diversi uffici alle sue dipendenze e di cui era il responsabile. (1) (2).
Escludendo i reati di giurisdizione ecclesiastica di cui non parleremo, per i cosiddetti reati “minori” talvolta erano previste pene di tipo pecuniario, cioè consistenti nel pagamento di una somma di denaro da quantificarsi in base alla gravità dell'azione delittuosa, a titolo di sanzione e di risarcimento del danno procurato. Tuttavia crimini più gravi, come l'omicidio o il tradimento, erano puniti con molta più severità ricorrendo ad azioni coercitive che spesso terminavano con la “pena capitale”. L'uccisione del condannato rispondeva da una parte alla necessità di punire il delitto commesso e, dall'altra, doveva servire come monito, cioè come strumento preventivo. Siamo in epoche per certi aspetti molto lontane dalla nostra per la sensibilità verso certe tematiche. E' indubbio che l'abolizione della pena di morte in moltissimi Stati del mondo, abbia rappresentato una grandissima conquista di civiltà, ma fino a non molto tempo fa questa era considerata lo strumento più efficace per prevenire e perseguire i delitti più efferati.

Tortura e impiccagione
Angelo Ardinghi, disegno tratto dall'originale
del Sercambi, conservato all'Archivio di Stato di Lucca
Edito in Salvatore Bongi (a cura di), Le Croniche di
Giovanni Sercambi, Vol. 1, Tip. Giusti, Lucca, 1892, p. 236.

Salvo alcuni casi, tutto sommato piuttosto rari, le esecuzioni avvenivano al di fuori delle mura urbane. Questo per motivi puramente igienici ma anche di tipo ideologico. Infatti, ancor prima dell'uccisione la comunità allontanava dal proprio ambiente, ovvero la città, coloro che si erano macchiati di azioni delittuose. Era un'espulsione che da una parte rivendicava il rigetto verso la personalità criminosa e dall'altra prendeva i contorni di un rito di purificazione collettivo. La comunità puniva con il rigetto, con l'allontanamento dall'ambiente domestico del colpevole e si riprendeva il controllo sociale attraverso una dimostrazione di forza, cioè decidendo della vita del reo. Tuttavia l'uccisione doveva essere anche un momento di prevenzione e quindi era importante che avvenisse alla luce del sole, in un luogo pubblico, facilmente raggiungibile. Quindi lontano dalla città, ma non troppo.

Tipico patibolo per l'impiccagione

A San Miniato la tradizione ci riporta due località, anche se ad oggi mancano completamente riscontri documentali, necessari per dare la cosa per certa. La prima è la Valle di Gargozzi il cui nome deriverebbe da “gargherozzoli”, alludendo alla gola, e quindi all'impiccagione. L'altra è Fibbiastri, toponimo la cui origine andrebbe ricercata nel termine “fibbie”, ovvero quei lacci utilizzati per tenere i condannati immobili, in attesa di essere decapitati (3). In realtà ne sappiamo molto poco.
Certa, invece, è l'area deputata alle esecuzioni nei pressi dell'allora Pinocchio, ovvero l'odierno San Miniato Basso. Infatti, almeno fino ai primi anni del XX secolo, un'ampia zona veniva indicata con un toponimo abbastanza indicativo: “Le Forche”. Ovviamente per “forca” si intende quel tipo di patibolo “a trilite” che richiamava vagamente la forma del più conosciuto utensile ad uso agricolo (4).
Della prima metà dell'800 è la carta del Catasto Generale della Toscana, Sezione C, “Piano del Castellonchio e della Catena”, foglio n. 1 (5), grazie alla quale possiamo circoscrivere la zona con maggiore precisione. Essa era delimitata a sud dalla via Tosco Romagnola Est, a est dall'attuale viale Guglielmo Marconi, a nord dall'odierna via Ernesto Codignola e ad ovest da via Giuseppina Pizzigoni. Più in dettaglio, l'area deputata alle esecuzioni doveva trovarsi grosso modo nei pressi dell'attuale Piazza delle Fiamme Gialle, quindi nella parte meridionale della zona a verde adiacente alla Casa Culturale di San Miniato Basso. Anche un vicino rivolo d'acqua, che scorreva fra le attuali via Giuseppina Pizzigoni e via Martiri di Belfiore, prendeva il nome di “Rio delle Forche”, segno evidente che il toponimo era ben radicato e indicava una zona piuttosto estesa, anche perché, probabilmente, nei paraggi non vi erano altri elementi particolarmente significativi.

Estratto dal Catasto Generale della Toscana,
Sezione C, “Piano del Castellonchio e della Catena”, foglio n. 1
Archivio di Stato di Pisa, Catasto Terreni, Mappe, San Miniato, n. 8
Immagine tratta dal sito web del “Progetto CASTORE”
Regione Toscana e Archivi di Stato Toscani
Per gentile disponibilità. Info Crediti e Copyright


Un'interessante notizia, relativa ad una condanna a morte comminata alla fine del '600 e svoltasi proprio alle Forche del Pinocchio, ci viene fornita dal Canonico Ercole Vittorio Figlinesi, già decano del Capitolo della Collegiata di Sant'Andrea di Empoli nella prima metà del '700 (6).

Ricordo come il di 26 aprile 1682, o agosto salvo errore, un tale Salvadore di Gio. Francesco Fensi da Castelfiorentino, di età di anni sedici in circa, fu trovato essere stato ammazzato con numero diciassette ferite, in luogo detto alla Cataratta delle Volpe, in un'albereta, Popolo di Marcignana, a ore 22 del sopra detto dì 26 detto 1682, e non ebbe alcuno de' SS. Sacramenti per non aver avuto spazio di penitenza. Fu sepolto in detta chiesa dì Marcignana, nella sepoltura del popolo, colle solite essequie prescritte nel rituale; ed era curato di detta chiesa di Marcignana prete Paolo Saccenti da Cerreto Guidi; 26 aprile 1682.
Ricordo come il dì otto 8 luglio 1684, Santi di Pasquale Fensi da Marcignana, detto Cìale, livellario e contadino in detto Popolo di Marcignana del Capitolo e Canonici di S. Miniato, fu impiccato e squartato il di 8 luglio suddetto, in luogo detto il Pinocchio, lungo la via maestra pisana, da Francesco Maria Breschi maestro di giustizia, o sia boia, di Firenze, condannato alla forca e squarto dal Tribunale del Vicario di S. Miniato, per aver egli ammazzato a tradimento il sopradetto Salvadore di Gio. Francesco Fensi, ragazzo da Castelfiorentino, suo parente; e fu accompagnato al patibolo da Antonio Sorelli, allora Bargello della Corte di S. Miniato. Il detto impiccato era cognominato Ciale. (7)

San Miniato Basso e la zona de “Le Forche”
Foto di Francesco Fiumalbi

L'omicidio era avvenuto alla Cataratta della Volpe, ovvero nei pressi di quello che un tempo era il Mulino delle Volpi, sulla sponda destra dell'Elsa, che si trovava giurisdizionalmente nel Popolo di Marcignana. Quella zona, così come altre aree della sponda orientale del fiume, appartenevano da tempi remoti al territorio plebano di San Genesio prima, e del Comune di San Miniato poi. Solo alla fine del '700 con la cosiddetta Riforma Comunitativa voluta dal Granduca Pietro Leopoldo di Lorena, tutte le aree sanminiatesi della sponda destra dell'Elsa confluirono nel Comune di Empoli. Quindi, nel triennio 1682-1684, epoca in cui si svolsero i fatti, la giurisdizione amministrativa di competenza era quella del tribunale vicariale di San Miniato.
Non sappiamo come arrivò la condanna, se vi furono indagini o meno, ma conosciamo il luogo dove si svolse l'esecuzione: al Pinocchio, lungo la via pisana, con molta probabilità proprio dove abbiamo visto essere presente il toponimo “Le Forche”. Per l'occasione fu chiamato come boia Francesco Maria Breschi, che veniva da Firenze, verosimilmente per evitare che tale figura divenisse bersaglio di eventuali azioni vendicative. Il condannato fu condotto al patibolo da Antonio Sorelli, che ricopriva la carica di “bargello” (ovvero il Capitano di Giustizia o Capitano del Popolo, con funzioni specifiche riguardo la sovrintendenza all'ordine pubblico (8)).
Oltre all'uccisione vera e propria, come riporta il Figlinesi, si consumò anche lo squarto. I presenti  quindi dovettero assistere ad una scena davvero orrida e raccapricciante.


FONTI BIBLIOGRAFICHE
(1) Zorzi Andrea, La formazione e il governo del dominio territoriale fiorentino: pratiche, uffici, “costituzione materiale”, in Zorzi Andrea e Connel J. William (a cura di), Lo Stato territoriale fiorentino (secoli XIV-XV). Ricerche, linguaggi, confronti, Atti del Seminario Internazionale di Studi, San Miniato 7-8 giugno 1996, Fondazione Centro Studi della Civiltà del Tardo Medioevo di San Miniato, Pacini Editore, Pisa, 2001, 189-221.
(2) De Angelis Laura, Ufficiali e uffici della Repubblica Fiorentina tra la fine del secolo XIV e la prima metà del XV, in Zorzi Andrea e Connel J. William (a cura di), Lo Stato territoriale fiorentino (secoli XIV-XV). Ricerche, linguaggi, confronti, Atti del Seminario Internazionale di Studi, San Miniato 7-8 giugno 1996, Fondazione Centro Studi della Civiltà del Tardo Medioevo di San Miniato, Pacini Editore, Pisa, 2001, p. 83.
(3) Piombanti Giuseppe, Guida della Città di San Miniato al Tedesco con notizie storiche antiche e moderne, Tipografia Ristori, San Miniato, 1894, pp. 10-11, 140-141.
(4) Archivio di Stato di Pisa, Catasto Terreni, Mappe, San Miniato, n. 8.
(5) Bini Mario (a cura di), Rerum Emporiensium scriptores - Notizie di famiglie empolesi: Ercole Vittorio Figlinesi, in Bullettino Storico Empolese, Volume Terzo, fascicoli 2-4, Empoli, 1963-1965.
(6) Bini Mario (a cura di), Rerum Emporiensium scriptores - Notizie di famiglie empolesi: Ercole Vittorio Figlinesi, in Bullettino Storico Empolese, Volume Terzo, fascicolo 3, 1964, n. 1036, p. 192.

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