martedì 17 febbraio 2015

LA NEVICATA DEL '39 - Racconto di Giuseppe Chelli

di Giuseppe Chelli


LA NEVICATA DEL ‘39
Era nevicato per tutta la notte!

"Bada, Gigi l’aveva detto ieri sera” disse Nonzio alla cognata mentre l’aiutava a ravviare la fiamma nel focarile. “Il tempo non mi garba punto, sarà meglio chiude’ le finestre nella stalla, ‘un abbia a nevica’… ”

Da tre giorni, sulla piana ai piedi del colle, tirava una tramontana da fare il pelo e il contropelo! Le galline ferme, rannicchiate a ridosso della catasta delle fascine, avevano perso la voglia di razzolare e s’arrangiavano scansando la terra d’intorno. Solo gli storni non si peritavano a buttarsi sui campi lavorati di fresco per saccheggiarli risalendo poi in branco, con ampi volteggi, per rituffarsi di nuovo da un’altra parte.

Del via vai che di solito era intorno casa c’erano pochi segni: la massaia che infreddolita correva a governare i conigli nella stalletta e i ragazzi di ritorno da scuola, avvolti nella mantella che lasciava scoperte le gambe arrossate da mezza coscia in giù. Gli altri di casa erano a sistemare il letto alle bestie, a rifare il filo e i manici agli arnesi a intrecciare canicci e ceste con i rami rossi di salcio ancora fresco, al riparo dalla tramontana, nella stanza della segata, vicino al bindolo.

La famiglia del mezzadro era assai numerosa; per quel che ne so, era composta da diversi nuclei familiari imparentati tra loro e ogni nucleo aveva uno o più locali destinati a camera da letto. La vita, sempre all’aperto nella bella stagione, durante l’inverno i contadini la passavano al riparo dalle intemperie nel cigliere: mai inoperosi: trovavano sempre qualcosa da fare, perché “il daffare non manca mai”, come ripeteva il capoccia al fattore che chiedeva conto del loro tempo.

Quelle rare volte che nevicava, tutto si fermava e molto del loro tempo gli uomini lo passavano sul canto del fuoco a fumare il ciompone o i sigari fatti con le foglie del tabacco lasciate a seccare nella cappa del camino; le donne a sbrigare le faccende e a mettere in pari i lavori di casa.

L’ampia cucina era la stanza più frequentata. I contadini l’adopravano per mangiare, per stare a veglia o per parlare dei lavori. In mezzo, troneggiava il focarile, basso e ampio con ai lati i muretti che servivano da sedili. Agganciato a una grossa catena dentro la cappa pendeva sempre, estate e inverno, il paiolo di rame incrostato di fuliggine, ma lucente a specchio dentro, dove c’era sempre l’acqua calda.

In famiglia c’erano vecchi e bambini. Molto del tempo lo passavano insieme a raccontare e sentire le novelle, a fare cavallino ria-rò, staccia buratta o pisto pistugno. Nel periodo del Natale, poi, era usanza di fare il migliaccio, nella teglia grande che serviva anche a riscaldare la polenta attaccata al paiolo; con la farina dolce avanzata, i ragazzi si divertivano a fare gli anelli, che mangiavano tra belle litigate. Pigiavano bene la farina nell’anello per cucire della nonna, lo infilavano nella cenere del caldano, già pronto per essere messo nel letto agganciato al prete, e poi con le forbici, usate come pinze, tiravano via l’anello sbattendolo garbatamente sulla tavola per far uscire intero il panetto di farina dolce, cotta.

Il modo migliore, invece, per far star buono il figliolo piccolo, le donne di casa ritenevano fosse quello dei fagioli che non mancavano mai nella pentola annerita, lasciata in caldo sul piano del focarile. Sulla sedia di paglia versavano una cucchiaiata di fagioli; il bambino li mangiava uno alla volta, seduto per terra, guardandosi intorno soddisfatto e sorridente: batteva le mani in segno di gioia e gridava: ”Pippi, pippi!”.

La neve era caduta, come aveva previsto Gigi, nella notte tra la Candelora e San Biagio. A memoria dei vecchi una nevicata così non la ricordava nessuno! La piana lavorata a campi lunghi e larghi, fiancheggiati da prode di chioppi con le viti aggrappate in cerca di più luce e sole da assicurare all’uva, era un unico mare bianco sconfinato. Il silenzio totale. Di tanto in tanto, un muggito, un latrato di cane da pagliaio, ma non si vedevano né si sentivano uccelli e galli cantare.

Il vento si divertiva con la neve facendola mulinare, ammassandola, appiccicandola dappertutto, in un gioco di mille sagome lisce e soffici che cambiavano di continuo fisonomia sotto le folate. Sembrava una gara a chi fosse più originale tra il vento e il gelo a inventarsi le loro costruzioni e a rovinarsele subito dopo, a dispetto! I lunghi ghiaccioli che pendevano dai tetti, dai rami, lungo le calate dei docci e ovunque ce n’era l’occasione, il vento li troncava, li buttava a terra, sciupando la loro frastagliata trama trasparente; e il gelo, induriva la neve, la faceva pesante e inadatta alle ventate.

Questi erano i soli giorni che i contadini passavano in tutto riposo, come fosse una lunga veglia, rinfrancandosi dalla stanchezza che mai avevano tempo di levarsi da dosso. Nevicò per tutto San Biagio, sotto una buriana che s’infilava nelle porte e nei telai delle finestre fischiando con gemiti lunghi e strozzati, spingendo dentro lische di neve farinosa.

Non fu possibile, quell’anno, neppure “ungersi la gola” con le candele benedette: la neve aveva serrato le porte da fuori e il gelo aveva incrostato i giunti delle campane della chiesa che quella volta non suonarono, spezzando una tradizione mai interrotta a memoria d’uomo, a cui la gente teneva molto, sicura che San Biagio avrebbe protetto loro e i figli dai malanni invernali.

Gli unici coraggiosi erano i giovanottelli, pronti a tutto pur di tendere sulla neve le tagliole con l’esca adatta a chiappare ogni tipo d’uccello affamato: passerotti, frusoni, merli, pettirossi, cinciallegre… L’uscita per le tagliole era l’occasione buona per fare a pallate e per le corse con gli uscioli dei carri giù dai mucchi di neve ammassata un po’ ovunque. Le battaglie più accanite le facevano però con i pupazzi di neve: formavano due o più squadre, costruivano alcuni pupazzi negli spiazzi delle aie senza confini e al via ogni squadra cercava di abbattere alla squadra avversa più pupazzi che poteva: allo scadere del tempo stabilito la battaglia era vinta dalla squadra cui erano rimasti più pupazzi in piedi.

Da alcuni giorni Toppina, la vacca a chiazze bianche e nere aveva finito il tempo, e secondo i calcoli del bifolco avrebbe dovuto sgravare da un momento all’altro. “Non ci voleva proprio questa nevicata” disse il capoccia al Moro “senza veterinario c’è il rischio di perdere vacca e redo”. Il dottore abitava lontano e non c’era modo di andare a prenderlo né lui che venisse da solo; bisognava far fronte con l’esperienza di tutti, specialmente del Moro . Altre volte lui se l’era cavata da solo, ma erano sempre state bestie alla terza e quarta figliatura.
A turno tutti quelli di casa badavano la bestia notte e giorno, pronti a intervenire.
"Che sgravi di giorno!”, si auguravano tutti, per via della luce!
Con quel freddo la stalla però era calda: si capiva dalla neve che appena toccati i vetri delle finestre subito struggeva e non faceva in tempo a depositarsi sui davanzali.
Per fortuna, per andare da casa alla stalla non importava uscire: in cucina c’era una grossa botola e con la scala a pioli si scendeva direttamente di sotto, nella stalla.
Accesero anche il lumino a sant’Antonio del porcello davanti al quadro appoggiato sul canterale di Gigi, il più devoto della famiglia. Ogni anno voleva che la massaia infornasse un paio di pani in più per farli benedire il 17 gennaio e darli a mangiare a tutti, cristiani ed animali.
Le bestie nella stalla davano segni d’impazienza sbattendo gli zoccoli sul cemento, raspando via la paglia del letto con vigorosi lunghi muggiti. Avvertivano forse che stava per succedere qualcosa di inaspettato.
Passarono due giorni e una notte di attesa con le bestie sempre più agitate, attente a guardare a lungo incuriosite, muggendo e scuotendo la testa con impazienza.
"E’ stata una faticaccia, ma è andata bene” disse il capoccia ai fratelli alla fine del parto durato meno del previsto e senza i rischi paventati.

Alla neve di San Biagio si aggiunse quella caduta fino a Sant’Agata, recando disagi e grosse preoccupazioni per le colture che rischiavano di bruciare a causa del ghiaccio formatosi sui rami, sui tralci e sui tronchi delle viti.

Che Pia, la moglie di Mero, fosse morta improvvisamente la sera della Candelora si venne a sapere quando smise di nevicare. All’infuori delle famiglie del vicinato nessuno era andato a trovare Mero il carraio, che aveva dovuto fare la cassa alla moglie lui stesso, con le tavole adoprate per i carri; ma non sapeva come portarla al camposanto, con quella stagione.

Mero era un carraio che pochi o nessuno gli stava alla pari. I suoi carri erano richiesti dalle fattorie e di più dai contadini a conto diretto. Quando aveva finito di costruire un carro, lo metteva nel punto più asciutto e sicuro della bottega; lo copriva con teli cerati e aspettava che stagionasse bene: non avrebbe mai consegnato un carro con qualche imbarco o con la vernice screpolata. Teneva ai suoi carri più che alla moglie, la quale gli rimproverava: “Ma che sono, cose sante!”

L’unico ad avere un paio di buoi in grado di affrontare quella stagione era il Moro, geloso di quelle bestie maestose e potenti che curava e accudiva come figlioli, più di quanto Mero non facesse coi carri. Ci pensò il Priore a convincere il Moro; e con il carro nuovo di zecca Mero accompagnò Pia al camposanto.

La neve rimase per molti giorni; la scuola riaprì quando la maestra Luigina poté raggiungere il paese a piedi, come faceva ogni giorno.

Per noi ragazzi più piccoli, (non avevo ancora sei anni!), furono giorni di grande divertimento fuori e dentro casa: gli scivoloni lungo l’argine della Dogaia; le corse sulla neve con i bandoni dei pollai; le pallate senza tregua; la gara a tendere le tagliole e a chi chiappava più passerotti, rifatti poi in umido con la polenda; i migliacci col ramerino zeppi d’uva secca e noci; gli anelli dolci; i pippi; i ceci abbrustoliti che saltavano dal caldano, scoppiettando; le tombole che non terminavano neppure quando la polenta dolce o gialla, affettata con il refe, era finita.. Tutte queste cose si concentrarono in quei giorni in una follia di piaceri, che cominciava già dalla mattina a colazione quando ci si buttava sugli attaccaticci della polenda riscaldati con lo strutto dei fegatelli, nella teglia del migliaccio.

Mai come in quell’anno il detto sulla Candelora si rivelò più azzeccato: alla buriana di neve che si scatenò dalla Candelora fin quasi a Sant’ Agata, s’affilarono giorni freddi, asciutti e soleggiati, di quelli appunto che ci volevano per i lavori di stagione: “Se per la Santa Candelora piove o gragnola dall’inverno siamo fora; se c’è sole o solicello siamo sempre nell’inverno!”

E fu così, nel ’39.


Cavallino arri-arrò

Cavallino ria-rò
prendi la biada che ti do
prendi i ferri che ti metto
per andare a San Francesco
a San Francesco c’è una via
che ti porta a casa mia
a casa mia c’è un altare
con tre monache a pregare
ce n’è una la più vecchietta
è santa Barbara benedetta

Staccia buratta

Staccia buratta
Martin della gatta
la gatta andette a Colle
andò tutt’asciutta
tornò tutta molle
fece un bel ciaccino
con l’olio e col sale
con la pipì del cane
buttalo buttalo in mare

Pisto pistugno

Pisto pistugno
di maggio e di giugno
la bella luminara
che sale la scala
la scala e lo scalone
con la penna del piccione
gioia bella
tira su questa
ciancherella

Cipressi sanminiatesi coperti di neve nel 2009
Foto di Francesco Fiumalbi

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