di Giancarlo Pertici
Berto
e la sua Arca
Quella
scala la facevamo sempre in punta di piedi, senza accendere la luce,
al buio, a tentoni, anche se in estrema scioltezza. La scala, quella
di casa nostra, che ci portava fino alla porta della camera, mia e di
nonno Nuti, ultimo piano. Nessuno si doveva accorgere di quello che
stavamo facendo. Per gli altri dovevamo essere in Piazza o Sotto il
Ponte a giocare. Noi invece ad inizio di ogni pomeriggio, appena la
mamma di Berto s'avviava verso l'Ospedale, sgattaiolavamo lassù
verso il nostro obiettivo programmato ormai da giorni, in quella
primavera del '55. Gioco affascinante che ci stava prendendo la mano.
Gioco
bellissimo, già l'arrampicarsi sull'orinale per salire sul letto di
bandoni, e da lì sopra il canterale per arrivare a issarsi sul
davanzale della finestra. Davanzale largo oltre un metro... quanto il
muro a terrapieno, uno dei tanti in San Miniato... di quella finestra
lassù a oltre due metri da terra, affacciata sul tetto laterale.
Tetto rivolto a mezzogiorno, rinserrato sul lato opposto dalla casa
di Primetta, nonna di Berto. Tetto a copertura della sala e della
cucina di Irma, la mamma di Berto. Ecco tutte le nostre precauzioni e
la nostra prudenza per non fare rumore e per non allarmare nessuno.
Ma nessun vero pericolo! A parte qualche favo di vespe sempre in
agguato fra i tegoli, che stavamo attenti a non disturbare.
Il
gioco era cominciato quasi per caso quel giorno che Gigi del Lotti,
assieme ad un amico col babbo cacciatore, tornando da fare nidi lungo
la Via del Sasso, sopratutto tordi e merli, ci regalò un nido di
passerotti. Nidi interi, si era portato via. Li aveva portati a casa
e messi in una scatola da scarpe, lasciata al calduccio nel
retrobottega di ciabattino del suo babbo. E noi a dargli una mano per
imbeccarli. Semplici movimenti in aiuto di Gigi, tesi anche a carpire
ogni segreto, avidamente, ogni volta che ci permetteva di seguirlo in
quel retrobottega quando era il momento di governare i suoi
uccellini, per fare poi altrettanto con i nostri. Quel nostro primo
nido con tre passerottini, senza apparente reazione da parte di Irma,
era rimasto così, per diversi giorni, in una scatola, nell'antibagno
in casa di Berto. Simile reazione da parte di Giovanni, il babbo,
che, uscendo presto e rientrando sempre tardi per lavoro, sembrava
addirittura ignorarne la presenza.
Il
primo giro sul tetto era stato facile, anche se non indenne.
Riempimmo una scatola di Nidi, tutti passerotti, ben nascosti sotto i
tegoli. Facile anche individuarli e trovarli richiamati dal loro
pigolio. Ci accorgemmo di aver fatto dei danni, quando una sera babbo
e Giovanni salirono sul tetto - Ci pioveva, forse il vento ha
spostato dei tegoli. C'era anche un embrice rotto. Ma ora è tutto a
posto. - È così che scoprimmo i danni fatti e riparati subito dai
nostri babbi, i quali non manifestarono sospetti sulle cause vere. Ma
proprio per quel primo contrattempo le nostre precauzioni
aumentarono. Una uscita solo una volta ogni tanto e rimettendo sempre
i tegoli al loro posto.
Così il primo nido cavato sul tetto, andò a rifinire in un'altra scatola, accanto all'altra regalata nell'antibagno di Berto – Ce li ha regalati Gigi, lui fa solo merli e tordi – Una mezza bugia che nessuno ha mai smentito, mentre cresceva la colonia di passerotti. L'unica che forse sembrava aver annusato qualcosa sull'origine di tutti quei passerotti era la Signora Corinna, almeno da quei sorrisetti con i quali sembrava non dare troppo credito a tutta quella voglia di 'regalare' da parte di Gigi, che non proferì altro e non pose domande. Una la fece, già col primo Nido, unico e vero regalo. Memore probabilmente della passione del marito, quando era vivo, cacciatore quale era.
– Cosa
gli date da mangiare? Ci avete nulla? - Ci rifornì di farina gialla
per farne un pastoncino per imbeccare tutte quelle bocche
spalancate, e anche alcune gabbie vuote da sempre, che se ne stavano
allineate lungo una trave di cantina, attaccate a dei chiodi. Fu la
dotazione necessaria a tenere e crescere tutti quegli uccellini
nella fase successiva allo vezzamento. Non è che con Berto, dopo la
fase della cattura, ci sia stata una grossa collaborazione e neppure
che mi abbia fatto sempre partecipare alla seconda fase del gioco,
quella dell'allevamento. Sul tetto sempre insieme. Ma ad imbeccare
gli uccellini, quasi sempre da solo. - Ho già fatto! - Spesso era
la sua risposta a mia specifica domanda o era il momento mio
nell'orto con Nonno Nuti, o di qualche commissione per casa.
Ma
amici da sempre, anche se non ricordo da quando, noi che a distanza
di due anni siamo nati nella stessa casa: io al mezzanino e lui al
primo piano. Quindi amici e compagni di avventura già prima di
muovere i primi passi, ma con dei momenti esclusivi che restano nel
tempo. Come regno esclusivo di Berto diventa nel tempo proprio
quell'antibagno. Una sorta di Arca, pronta a decollare per chissà
dove, con la sua particolare liturgia, di Berto con i 'suoi'
passerotti. Liturgia che ha superato quella essenziale carpita a
Gigi, per altra, con mete inimmaginabili all'inizio, che col tempo ha
trasformato anche il carattere di Berto: da 'egocentrico' in ogni
gioco, sopratutto se competitivo, a disponibile verso quegli
uccellini, verso quelle sue creature, quasi suoi figli.
Se
varchi quella porta per la prima volta, quella dell’antibagno, e
non ha mai assistito alla sera a buio, al momento in cui Berto
accudisce i suoi uccellini - sue creature allevate e imboccate a
mano, sera per sera, con pazienza quasi religiosa - la prima
sensazione è di invidia, poi di ammirazione mentre segui la sua
gestualità. Sembra quasi che parli con i suoi uccellini. A volte
anche per me che lo conosco da sempre, l’impressione è che li
conosca ad uno ad uno, anche per nome. Non so se definirlo stupore o
ammirazione quando apre una gabbia e lascia libero quel passerotto di
uscire…
è tanto che chiama! è un po’ che lo sento cantare, ma l’impressione è proprio di un richiamo, come una parola ripetuta fino alla noia, come se quel passerotto ripetesse a modo suo il nome di Berto.
è tanto che chiama! è un po’ che lo sento cantare, ma l’impressione è proprio di un richiamo, come una parola ripetuta fino alla noia, come se quel passerotto ripetesse a modo suo il nome di Berto.
E
l’uccellino esce, ma non scappa, non cerca una via di fuga, non
cerca la luce, volteggia un po’ e si va a fermare su una spalla di
Berto, poi sulla testa, quindi sul palmo della mano, piena di miglio.
Io immobile, col timore di rompere quell’incantesimo, che si
ripete, ogni volta che mi lascia entrare nel suo regno… fin quando…
senza parole, costernato, addolorato per lui in lacrime quella volta,
l’ultima, che quel suo uccellino, in pieno giorno, dopo aver
mangiato dal palmo della mano, per una finestra dimenticata aperta,
se ne vola via lontano dal suo Berto e dalla sua Arca.
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