lunedì 16 marzo 2015

LA FABBRICA DEI NASTRI - Racconto di Giuseppe Chelli


Nastraie, erano chiamate le ragazze e le spose che lavoravano in Borgonuovo, nella fabbrica del sor Silvio Pontanari.
È da non credere, ma Borgonuovo, negli anni tra le due guerre, era la “zona industriale” di San Miniato! In centro metri di strada c'erano il mulino del Messerini, tenuto d’occhio, dalle scale di casa sua, da Beppone, factotum nel paradiso della farina e ba-bau per i bambini che passavano in strada; il frantoio del Franceschelli, uomo fatalista, che di ogni evento incolpava le monache perché si sciancavano; la fabbrica dei nastri del Pontanari e, più avanti, il frantoio della Barnini.

In seguito, la fabbrica dei nastri era passata al Volpini. Come il cavalier Pio, uomo di gran peso nella sanminiato democristiana, fosse venuto in possesso della fabbrica del sor Pontanari, fattosi fuori con una schioppettata, era un mistero, tipo di quelli noti a tutti!
Il posto dove il Pontanari si era sparato una domenica sera, me l’avrà mostrato mille volte, mia madre, operaia al nastrificio per quasi sett’antanni, liquidata con pensione al minimo e necessariamente gratificata con l’integrazione dello Stato Italiano! Quando finalmente arrivò alla pensione, non si capacitava di come le potessero dare quella miseria:  era entrata in fabbrica che ancora l’unità d’Italia non era compiuta, ed ne era uscita che s’andava sulla luna! Ci doveva per forza essere un errore.
“Ci credo, signora, che lei abbia lavorato tutti codesti anni; è il suo padrone che se n’è dimenticato!”, si sentì dire quella volta che andò all’Inps! E a costui non venne in mente neppure alla fine: preferì chi non aveva fatto nulla per lui, alle operaie che per lui avevano fatto tutto! Ma lasciamo perdere!

Cominciai a bazzicare la fabbrica prima ancora dell’asilo di Suor Maria Pia a San Paolo, e ci tornavo tutte le volte che mia madre non sapeva a chi lasciarmi. Ero il coccolino delle operaie. Non mi perdevano d’occhio un attimo nei rari momenti che potevo gironzolare tra gli orditi e i rocchetti di cotone. Per lo più dormivo nella cassa dove finivano i nastri tessuti da mia madre; non di rado scambiando il posto con qualche topo di passaggio!
La fabbrica mi pareva immensa; tutte le stanze erano occupate da macchinari sempre in movimento, in un frastuono che cambiava ogni volta che un telaio s’inceppava, qualche arriccio si strappava o il rocchetto usciva dalla navetta.
Le fabri’ine (erano chiamate anche così) l’ho conosciute tutte: quelle che ci lavorarono poco tempo, e le altre che ci andarono in pensione. Ricordo pure Santi, il meccanico. Non aveva un attimo di respiro; c’era sempre qualche guasto da riparare. Viveva da solo dentro la fabbrica in una stanzina al secondo piano a ridosso del magazzino delle spedizioni. A stargli dietro ci pensava un po’ mia madre lavandogli i panni, ma soprattutto portandogli da casa qualcosa da mangiare. Non erano avanzi: la prima porzione era per lui.

Successe una notte di primavera del ’43 che mia madre sognasse Santi, morto qualche mese prima. Lo incontrò alla curva del piazzale, nel sogno.
“Che fai qui?” gli chiese lei.
“Sono venuto a ricompensarti. Prendi questi cinque numeri e mettili sulla ruota di Firenze”. Al momento di salutarsi, a mia madre venne in mente che era sabato e il botteghino era chiuso. Lo disse a Santi. “Mettili la settimana prossima” rispose lui, nel sogno.
Appena fece giorno, svegliò il figlio Carlo e lo spedì in bicicletta a Empoli a mettere i numeri. Uscirono sparpagliati su diverse ruote. Lei continuò tutta la vita a giocare quei numeri e mai una volta che uscissero tutti insieme sulla stessa ruota!

Mia madre, Concetta, era una specie di capofabbrica per la sua anzianità lavorativa: apriva e chiudeva la fabbrica; dava una mano alle operaie meno esperte; riparava i guasti come le aveva insegnato Santi; era un riferimento per tutte quando capitava un imprevisto.
Viene da dire che le operaie fossero una famiglia, anche fuori dalla fabbrica: né poteva essere altrimenti dato il tempo che passavano insieme sei giorni su sette, mattina e pomeriggio, a volte dopo cena, erano al telaio, alla filanda, all’ arcolaio.

Unico svago, la chiocciolata, con le marinelle e i martinoni, raccolti nell’orto della fabbrica e debitamente cotti in umido, a modo nostro, affogati nel pomodoro con un bel battuto di zenzero, una specie di pic-nic  che facevano tutte assieme sul prato della rocca, a Ferragosto.
Quando in rocca non poterono più andare, causa le macerie della torre,  le ferie le facevano al mare! Pio noleggiava il Giglioli ed il Santini per un giorno dalla mattina alla sera. Le spediva a Marina di Pisa, a sue spese. Un anno tonarono che era buio pesto, per un guasto al taxi. La mamma di Ludina, al massimo della preoccupazione, minacciava fuoco e fiamme contro la figliola. Addirittura giurava di metterla “ in una foglia di ginepro” ( sarebbe a dire:  “in un guscio di noce”), come se il ritardo fosse dipeso da lei.  Quando la vide, che era quasi mezzanotte, l’unica cose che seppe dirgli fu se aveva cenato.

Il lavoro non mancava mai, neppure negli anni delle guerre. Anzi, in quei periodi alle commesse delle ditte di Prato, si aggiungevano quelle del Poligrafico dello Stato con ordini di forniture massicce di nastri grigioverde e tricolori.
A scompigliare tutto ci pensò il passaggio del fronte bellico nell’estate del ’44. La fabbrica si salvò dalle mine, ma l’eccidio del duomo colpi duramente le persone. Mia madre perse il figlio ventenne; Pio tre familiari, tra cui la figlia Vittoria; molte operaie ebbero la casa distrutta dalle mine. A stento, il lavoro riprese a metà del ’45!

Tina Gazzarrini,  le sorelle Bonistalli, Wanda e Milia, Gina di Frillo, Riccarda, Viviana , Ardenia non rientrarono: avevano trovato lavoro altrove. Mia madre ritornò in fabbrica che già Vittoria Ciarini, Valeria di’ vValentini, la Parri con le nuove arrivate avevano ripreso il lavoro da mesi.
Non era facile ricominciare dopo quanto era successo!
Invece l’affetto reciproco, intrecciandosi con le vicende personali di ciascuna di loro, generò una sincera amicizia che durò fin quando una alla volta se ne andarono, non solo dal lavoro. Ludina di’ pParri fu la prima: non aveva compiuto cinquant’anni! Viveva con la madre nel palazzo degli Stipendiari e le “bambine”, così Concetta e Luisina chiamavano le operaie più giovani, l’assistettero giorno e notte.

Nel dopoguerra era arrivata in fabbrica anche Luisina. Nata e vissuta in Borghizzi, dagli anni ‘20 si era trasferita per qualche tempo in Sicilia e poi dalle parti di San Donnino, dove ogni anno, fino alla morte, sarebbe ritornata a trovare gli amici. Rientrata a San Miniato dopo il ’45, legò subito con tutti, specialmente con Concetta, per via dell’età. Imparò subito ad arrangiarsi a pari delle altre quando il telaio si fermava. Saliva sullo scaleo, strisciava sotto il telaio, senza far pesare il suo disagio per gli acciacchi dell’età: aveva pure un’anca semi-bloccata.  Una delle tante volte che il nipote più piccolo venne a trovarla in fabbrica, per un gelato o per qualche figurina, non la trovò. Il telaio era fermo. Nessuno ne sapeva niente. Era qui, ora; era là…., Hai visto Luisina? Ma Luisina non si trovava, mi raccontava mia madre. Qualcuna si mise a chiamarla, ma il rumore dei telai copriva la voce. Pensò di aspettarla: prima o poi da qualche parte sarebbe arrivata, nello spogliatoi o aveva la borsa e i panni. Appoggiata al muro dietro il telaio c’era una scala: Luisina - ormai aveva quasi ottant'anni, era salita lassù, e distesa sul l’orditoio sistemava il cotone da infilare con la passina nei pettini. Questo facevano le nastraie, come se il telaio fosse un'appendice del loro corpo.

Alla fine degli anni ’50 morì quasi improvvisamente Pietrino, il figlio di Pio e la sua morte segnò il destino della fabbrica. Pio, riaprendo la fabbrica subito dopo la guerra, pensava soprattutto all’avvenire di questo figlio, orfano e solo suo erede. Ora però si sentiva stanco e demotivato.
Tirarono avanti, un’altra decina d’anni, Maria Branzi – la Branzina - Giovanna di Ghiandone, Valeria, Vittoria, Luisina e mia madre, che non intendeva smettere.
Quando finalmente si decise, Pio vendé a Bighero!

La fabbrica rimase aperta ancora per qualche tempo con tre operaie più giovani a cui si aggiunsero alcune giovanissime apprendiste e la gente di casa Taddei. I telai furono sostituiti con macchinari moderni per aumentare  e diversificare la produzione. Ma i locali, gli impianti, tutto l’ambiente era fuori dalle norme di sicurezza : la fabbrica rischiava la chiusura.
Non rimase altro da fare: portare la produzione a San Miniato Basso, dove Bighero aveva un opificio in funzione da anni, e chiudere la fabbrica dei nastri.
Pio fece appena in tempo a vedere la sua fabbrica trasformata in appartamenti: morì alla Casa di Riposo Del Campana Guazzesi, ove si era ritirato, regalando tutto alla Cattedrale.

Maria Branzi, Vittoria Ciarini e Pietro Volpini
Foto Collezione Maria Branzi
Per gentile disponibilità



Da sinistra a destra: Concetta Benvenuti (madre di Giuseppe Chelli), Luidina Parri, Valeria Valentini e Maria Branzi
Foto Collezione Maria Branzi
Per gentile disponibilità

Da sinistra a destra: Tina Gazzarrini, Vittoria Volpini, Liduina Parri, Wanda Bonistalli, Pio Volpini, Pietro Volpini, Vittoria Ciarini, Santi, ??, Concetta Benvenuti, Viviana Ciarini, Emilia Bonistalli
Foto Collezione Giuseppe Chelli
Per gentile disponibilità

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