giovedì 30 aprile 2015

L'ORTO DI NONNO NUTI - Racconto di Giancarlo Pertici

↖ RACCONTI DALLO SCIOA

di Giancarlo Pertici

L'ORTO DI NONNO NUTI

Doveva essere uno dei primi "Racconti dell'orto". Invece è venuto solo ora, anche se è pronto da un po' di tempo. Dedicato a coloro che gradiscono il mio stile, anche se il racconto non è certo breve. Le foto che lo accompagnano sono proprio dell'orto di “oggi” e alcune di fine anni '40.

Io non li conto mai quei primi scalini. I primi... così alti! li devo scendere, per forza, mano nella mano a nonno, che con estrema prudenza si sorregge alle pareti che “strozzano” quasi quella rampa, talvolta a marcia indietro, mentre con una mano mi guida, scalino per scalino. Nonno Nuti dice che sono più di cento. CENTO!? Sono veramente tanti! Non li so neppure contare io. – Non guardare giù! Stai attento a dove metti i piedi e a questo scalino rotto – Mentre, mi solleva quasi – Stasera lo dico al tu' babbo, che domenica venga con un po' di calcina ad aggiustarlo – Ce n'è sempre qualcuno rotto ed è così che mi introduce nel suo mondo esclusivo, il suo orto, di cui è geloso. Né Corinna, né mia madre osano avventurarcisi senza il suo consenso. Solo mio padre, qualche volta, alla domenica, l'aiuta a vangare o a zappare, il Nuti oramai ben oltre gli 80, come oltre cento sono quegli scalini, che sembrano anche di più, quando si scendono tutti fino in fondo, senza prender fiato.

Così è, quando è la volta di raccogliere “carciofini”, fine primavera o inizio estate, per farne “sottaceti”, iniziando proprio dall'ultimo campetto, ultimo livello prima del muro che separa dalla valle di Gargozzi. Quasi un rito, che si ripete ogni anno, perlustrando ogni terrazza per quei carciofi che crescono sul bordo esterno, sull'orlo del ciglione. Una sottomisura, buona solo per sottaceti, riserva per l'inverno, che Corinna, mamma, Livia e Irma, preparano, un carciofo alla volta, scartando le foglie dure, scorciandone il gambo, mondandoli dei filamenti, tagliandone le punte fino a lasciare solo “anima tenera”, pronta ad un tuffo nell'aceto in ebollizione. Pochi minuti, mentre nell'aria si espande quel profumo, invitante a smuovere l'appetito, che l'aceto emana, in infusione con pepe, chiodi di garofano e altri aromi ancora: ricetta segreta di Corinna. Ce n'è sempre per tutti, in vasi di più grandezze e più misure, compressi e ricoperti in olio o in aceto. Poi tappo in sughero se c'è, o carta oliata fermata a cappio doppio con filo cerato, vanno ad arricchire ogni anno le nostre tavole nei giorni delle feste, iniziando già dai Santi per finire a Natale. E non solo sulla nostra tavola ma anche su quella di Livia, la mia nonna Livia, e su quella di Irma.

Quando si è alla fine di settembre, sono cestini di vimini, piccoli panieri, ma anche secchi e mezzine, colmi di ciocche d'uva, quelli che noi bambini portiamo, uno per volta, su per quelle scale, fino al giardino da dove ci si affaccia, appoggiati ad una ringhiera in ferro, sull'orto di Nonno Nuti. È il contributo di noi bambini di casa – mio, di Berto, di Anna, di Maurizia e di Giancarlone –  ad accompagnare le stesse rituali gesta che, ogni anno, fanno da cornice alla vendemmia. È la raccolta dell'uva da quella pergola che adombra l'intera rampa delle scale, e che costeggia e adorna l'altissimo muro di cinta che separa tra loro, gli orti, quello delle Suore di San Paolo e quello di Casa Vannini: l'orto di Nonno Nuti. Orti generosamente esposti al sole di mezzogiorno, verso la valle di Gargozzi, in quella parte di San Miniato conosciuta come "Sciòa". Catena umana su per quelle scale ripide in mattoni, di cui noi bambini, mai soli, facciamo parte, mentre il mi' babbo, nonno Lillo e nonno Musolino, raccolgono le pigne penzoloni.

Tutta uva nera o quasi, maturata anzitempo, esposta com'è a “pomatta”, al riparo dai venti di tramontana e dai rigori dell'inverno. Pergola vecchia, che abbisogna di decisa potatuta a ridurre volume e legno, e che, proprio per questo, dona uva in quantità, ma di gradazione minima, buona solo per “acquetta” o per “mezzone”, secondo i gusti delle donne, del Nuti e di noi bambini. Rito, quello della vendemmia, che, da un orto all'altro, da una vigna all'altra, attira e riunisce le braccia disponibili, in un aiuto reciproco che si rinnova di anno in anno come succede per la battitura del grano. Ma per il resto dell'anno, niente intrusioni! Nonno Nuti non lo dice apertamente, ma non ci vuole né nipote, né bisnipote tra i piedi. Nessuna donna a "pesticciare", come invece, in ogni momento e senza limiti, è consentito al suo “puttero”. È così che mi chiama, quando si riferisce a me.

Ed è così che, passata la vendemmia, l'Orto torna libero da intrusioni o invasioni anche se di aiuto. Ma mai soli ci sentiamo. Assistiti, a volte osservati, altre spiati a distanza da sguardi, da ammiccamenti; talvolta raggiunti da commenti, da consigli dispensati attraverso quelle finestre, spesso spalancate, che si affacciano sull'orto.
Tetta, già in su con gli anni, figlia e nipoti che vivono a Roma, non si vede quasi mai. Quando si affaccia alla finestra della cucina, ultimo piano, l'avverti subito quel suo borbottio indistinto. Certamente sta dicendo male di qualcuno! Ma non ti fa capire di chi, neppure quando sputa sentenze o sparge accidenti a destra e a manca. La senti anche se sei in fondo all'orto. Quando poi, alla sera in quelle aiuole del giardino, è il momento di dare l'acqua all'insalata, ai fiori e agli odori, diverso il suo accompagnamento, quel suo... Tata tata tarata, tata tata tarata, tata tata tarata... ben scandito e ripetuto all'infinito, frutto della percussione di un mestolo vecchio, manico lungo a mo' di "bacchetta", sulla vecchia tavola di cucina, chiamata a fungere da "gran cassa". Suono sottolineato e accompagnato da un residuo verso labiale – oramai sdentata – dapprima flebile, poi sempre più sonoro, come a voler sottolineare la giusta tonalità e scandire il tempo, per una melodia che, ignota, frulla solo nella testa di Tetta. "Musica" che può durare anche fino a tarda notte.

A me... lì con l'annaffiatoio in mano... detta i tempi e anche la giusta dose per ogni vaso, per ogni aiuola. A nonno Nuti suggerisce invece accidenti e convenevoli che mi fanno sempre sorridere. Solo il mi' babbo, brandendo un manico di scopa contro il soffitto di cucina, riesce a ridurre Tetta al silenzio, non al primo tentativo ma con pazienza ed insistenza. Altra musica quella di Primetta che si capisce bene contro chi si scaglia ogni giorno, dall'ultimo piano, da quella soffitta, come fosse un pulpito. Ce l'ha con i suoi nipoti maschi. Sembra che abbiano combinato sempre qualcosa di male. Peste e corna per tutti e due: Berto e Giancarlo. E siccome non basta, interviene anche Gina, la zia, a rincarare la dose. Mentre per Anna, la femmina, lodi, benedizioni, e non solo, sempre cercata e invocata... come un disco rotto che gira all'infinito... "Annaaa... Annaaa... Annaaa... ". Richiamo insistito che si interrompe solo quando Anna si fa vedere, alza la testa dal gioco del momento, e saluta o risponde. Iole, invece, dalla finestra posta al mezzanino a ridosso casa Vannini, quando si affaccia lo fa con garbo. Mai alza la voce, sempre gentile, non solo verso Corinna e il Nuti, ma anche verso noi bambini. Io l'ho sempre avuta in simpatia, non solo per la sua altezza minima, ma anche per le ricette che insegna anche a mia madre, e per il suo giardino, che lo si nota per la cura quasi maniacale dei fiori, i suoi gerani sempre in fiore. Livia, dall'altro lato, oltre a chiacchierare con Corinna del più e del meno, evita di rispondere alla cognata (Primetta) mentre si preoccupa invece di sapere e verificare se noi bambini siamo a portata di voce, se stiamo bene o se abbiamo bisogno di qualcosa e se abbiamo fame. E' solo dopo, che scende nell'orto a governare le sue nane.

La domenica, quasi sempre, è il mi' babbo, che armato di zappa e vanga prepara il terreno per la semina, rincalza le patate, zappetta cipolle, baccelli, pomodori. Compito questo, quasi esclusivamente suo, mentre mi insegna e lascia che l'aiuti; Nonno Nuti a fare altro. Se è tempo dei pomodori, dopo la messa a dimora delle piante, iniziano i lavori che contano. È il mi' babbo che prepara le canne. "Prendi quei giunchi che sono a bagno in quella conca!" Io eseguo alla lettera, mentre nonno Nuti, lentamente, mi mostra come legare le canne fino a formare una capanna "Vedi come si usano i salci! Non ci sono nodi da fare, bisogna avvolgere le punte di questo salcio, nei due versi opposti utilizzandone l'elasticità: gli estremi si stringono a vicenda" – Quando è la volta di fissare i pomodori alle canne, prende una matassa – "Questa è rafia, me l'ha portata il tuo babbo. L'ha fatta lungo l'Enzi in fondo a Gargozzi. Ci vuole la rafia per legare i pomodori e non danneggiarli". A volte un semplice nodo, altre una sorta di cappio a tenere la pianta stretta alla canna. Quando è la volta della stallatura, un po' ci pensa nonno, un po' la fa fare a me perché impari. "È in questo punto, tra il fusto e il ramo, che spuntano i polloni. Sempre e solo negli stessi punti. Appena sono maneggevoli, vanno tolti, altrimenti la pianta fa solo frasca, magari tanti fiori ma non pomodori." Imparo facile, sono anche svelto, come dice nonno. La prima volta, credo, avrò avuto forse 7 anni, veramente fiero del lavoro imparato e fatto. Il giorno dopo a dare il ramato, preparato apposta in un conchino dove la sera prima nonno Nuti spegne delle zolle di rame, la macchina in spalle e io a seguire come un'ombra, da una proda all'altra, fino anche alla pergola.

Nei pomeriggi d'estate, se non siamo in giro da qualche parte, siamo nell'orto. Se scocca l'ora della merenda, il sole alto nel cielo, troviamo rifugio e refrigerio all'ombra della pergola, a ridosso dell'ultimo campetto, i pomodori già maturi. Un rito il farne "pane & pomodoro", sale ed olio nascosti in un anfratto del muro, la nostra dispensa. Nonno Nuti preferisce i pomodori “imposti”, è così che li chiama, e se li mangia "a salino". Un cantuccio di pane in mano a fare da piatto e sopra un pomodoro, di quelli grinzosi, diviso in due con sopra una spruzzata di sale. Con il coltellino a serramanico, incide un triangolo di pomodoro e pane, per un morso alla volta. Organizzate come sempre, le formiche sembrano darsi appuntamento a quell'ora nel punto che oramai hanno imparato a memoria. In fila indiana a raccogliere anche la più minuta briciola di pane, il granello di sale. Non ricordo di aver mai sprecato nulla. Un peccato solo la tentazione di buttar via anche un solo morso! E le formiche, in quegli anni, fedeli alleate a recuperare anche l'impossibile. Ed è seduti su per le scale, in quel silenzio assordante che sembra sovrastare ogni altro suono, che diamo ascolto al lamento delle cicale. Si nascondono ogni dove! Non riesco mai a vederle. Eppure sono tante! Sentenzia nonno mentre furtive e silenziose le lucertole e i ramarri, sfrecciano tra le crepe del muro di cinta, a rimpiattino tra la vetriola che in estate sembra ornare a festa il muro di cinta. Se le cicale si zittissero per un attimo... A volte succede! potresti anche percepire il lor sfrecciare veloce, il loro scalpiccio sui mattoni a bollore. Quando è il momento di riprendere il cammino, l'impressione è quasi di pestarle.

Ed è sempre sotto la pergola, che ci rifugiamo, quando a fine estate, vogliamo starcene tranquilli lontani da sguardi curiosi e gelosi, seduti sull'ultimo scalino, appena prima di un pianerottolo, muretto basso di lato come piano d'appoggio, con la Scusa di sgranocchiare qualcosa di buono. C'è sempre qualche scalino sconnesso, un pezzo di mattone smurato che non vuole stare al suo posto. A quell'ora fa comodo per schiacciare le noci di quella pianta che sta sul confine di nonno Musolino. Accanto anche un “fico dottato”. Noci e fichi. Nonno, che tiene sempre il suo coltellino in tasca, apre i fichi. Ripieni non smetteresti mai! Ma alla fine quel mattone ritorna scalino, fino alla volta dopo.

Il giorno che piove e che nell'orto è tutto bagnato, appena spunta il sole, si va a fare chiocciole. Un bel paniere con coperchio, e su e giù per i ciglioni dell'orto. Sono tutte lì a prendere il sole abbracciate ai fili di paleo, tra le foglie dei carciofi, tra la scarola e la lattuga, a fare scorta in quella mensa a cielo aperto. Scorribanda veloce la nostra, dapprima per tutto l'orto, poi anche fuori. Passando dalla porticina di fondo che dà in Gargozzi, ci si immette, lungo il muro perimetrale degli orti, nel vicolo Carbonaio che porta allo “sdrucciolo” vicino alle scuole, accanto al comune. Anche se c'è già passato Musolino e non solo, ce ne sono sempre per tutti! Le chiocciole, appena ha smesso di piovere, sono in libera uscita, a famiglie intere. C'è chi fa solo quelle grosse i Martinoni, e chi invece quelle piccole dal guscio chiaro. Noi raccattiamo tutte quelle che troviamo fino a riempire il nostro paniere: destinazione cantina, alla “purga”, almeno tre giorni. Tocca a Nonno o a Corinna farle in umido.

"L'orto vuole l'uomo morto" – ripete spesso nonno, quando “sente” che è il momento del riposino, sotto la pergola, al fresco, magari schiccolando una ciocca d'uva, la prima che comincia a cambiare, mentre ci raccontiamo. È la volta delle storielle di Tonino o dei ricordi di un bambino di nome Adolfo, di tanti anni fa a Firenzuola. Tonino è un vero disastro! combina sempre qualcosa, a volte mi fa anche ridere. Mai mi lascia senza sorriso coi suoi malestri. Non ho mai capito quanti anni abbia. Ma le storie più belle sono quelle vere, che mi proiettano in quel mondo così lontano di fine '800, tra credenze, usanze e superstizioni. Storie talvolta suggestive ripetute a richiesta. A letto, al buio per volare con la fantasia a quei giorni; ripetute sotto la pergola, ad occhi aperti, a riesumare le immagini formatesi la prima volta, per provare identiche sensazioni, mentre Nonno parla di suoni, di rumori, di odori, di gesta che fanno da cornice e da colonna sonora al racconto e ai fatti .

Questo, me lo raccontò la prima volta a letto; non l'ho mai dimenticato. Ripetuto più volte, a richiesta. È Nonno Nuti che narra: " - Quando ero bambino si viveva in paese, in una casa vecchia, in parte disabitata. Quella parte, al piano superiore, era chiusa da anni. Il mio babbo neppure sapeva chi ne aveva le chiavi. La nostra casa era fatta di sole due stanze, oltre ad un sottoscala con una porticina che dava sulla strada. Era la bottega di "Ciabattino" del mio babbo. Io imparavo il mestiere quando tornavo da scuola. La cucina a piano terra, camino e due fornelli per il carbone, la camera di sopra. Per il gabinetto bisognava scendere in campo; proprio accanto allo stanzino del maiale: il gabinetto con la buca, e un tappo di marmo con una maniglia in ferro. La notte si andava a letto tutti assieme, io nel mezzo a babbo e mamma. Dopo le devozioni, si spegneva sempre la candela per dormire. Ma a una certa ora, una notte mi sveglio destato da strani rumori che provengono dal piano di sopra. Rumore come il rotolare di qualcosa di pesante, poi un colpo sordo, lo schianto contro la parete opposta, infine grida di giubilo. Rumori e grida a ripetizione, con ogni variabile come si conviene ad una partita a Bocce. È proprio questa l'impressione che suscitano quei rumori in me, come pure in babbo che li aveva già avvertiti qualche notte prima, anche se deboli. Quella notte invece durano a lungo, confermati anche dal tintinnare dei vetri della finestra. L'impressione è che qualcuno sia tornato di casa in quella stanza che noi crediamo vuota da anni. Solo nei giorni successivi, qualcuno viene ad aprire quella porta al piano di sopra, dopo che anche quella notte avevamo sentito a lungo le bocce rotolare. Ci sono anche io con babbo! entrambi sorpresi e allibiti davanti a quella stanza stracolma di tutto: vecchi letti, materassi, balle piene di cenci e tante fascine, il tutto ricoperto da un dedalo di ragnatele. Sono anni che non c'entra qualcuno. - " Ora che sono più grande mi racconta anche il finale.

"- Sembra che tutti lo sappiano, ma non noi. In quella casa ci "si sente" da quando, tanti anni fa, proprio lì dentro, è successo una disgrazia. Morto un bambino di pochi giorni, sembra soffocato nel sonno, la mamma si è impiccata ad una trave di quel basso soffitto. Nei giorni successivi arriva il prete; sono preghiere e benedizioni per quello spirito “irrequieto”, per quello spirito “senza pace” di mamma - "che mi riportano a quella volta che, nella chiesa dei Cappuccini, io e nonno Nuti, nascosti dietro ad una bussola, assistemmo all'esorcismo di un indemoniato per mano di padre Giorgio.
Ed ecco! si leva come una "voce", succede spesso prima dell'imbrunire quando la luce calante sembra reclamare silenzio, quasi a voler chetare sensazioni sgradite, per riportare la mente al quotidiano. E Nonno si zittisce. È tensione che si allenta perché, ecco! quella “voce”, improvvisa e gradita, invade l'aria. Suono dolce e melodioso, struggente melodia che sale di tono e di volume. La melodia la riconosco; non sempre è la stessa. È una di quelle che Caponero esegue al violino, di nascosto, in camera sua, finestra spalancata sulla valle a inondare di musica il nostro e gli altri orti, adagiati a più livelli fin verso Gargozzi. È così che quel racconto si interrompe, anche se mancano dei “se”, dei “ma” e dei “perché”.

È la Mimosa che, come musica, nell'aiuola centrale del nostro giardino, attira già a fine febbraio non solo api e vespe, ma anche chi vi si affaccia per aspirare a pieni polmoni profumi e fragranze di primavera e per catturare il tepore del sole generoso di quel versante della valle di Gargozzi. Irma se, prima del rientro in servizio ad inizio pomeriggio, non è così impegnata, a “spiare”, a persiana accallata, chi transita per la strada, mentre aspetta che il caffè passi, si affaccia spesso dall'ampia finestra di cucina sul retro. Le stesse chiacchiere con Corinna. Ma se c'è la mimosa in fiore è la scusa per scendere e coglierne un mazzetto per il centro della tavola. È in quell'aiuola che io, “piccino”, passavo tanti pomeriggi, tra giocattoli o bambole, anche se ricordo ancora con terrore quella volta che, di passaggio, troncai un tulipano o forse un gladiolo. Il primo in fiore di quelli piantati dalla mi' mamma. Mi frizza ancora la mano al ricordo! Me la fece nera! Avrò avuto forse due anni, o anche meno.

Solo in seguito imparo ad usare le mani in modo “utile” e aiuto nonno Nuti, come quando è il momento di raccogliere i capperi. Nel muro a mattoni che delimita la prima terrazza e anche in alcune fessure di quello a confine con le monache, dove crescono indisturbate vecchie piante, alcune anche tra i commenti dei muri a secco. Quasi un rito la raccolta, invocata e guidata da Corinna che partecipa all'operazione, quando c'è da arrampicarsi dove a me non è permesso e neppure a nonno Nuti, per l'età. Con un paio di forbicine, eseguo con precisione il taglio, secondo le istruzioni di Corinna, lasciando intatto il “picciolo”, quella sorta di gambo. Capperi destinati ai giorni di festa, quelli solenni attorno a Natale e a Pasqua, ingrediente insostituibile per crostini, assieme ai fegatini di pollo e di coniglio. Le acciughine sotto sale bisogna comprarle a bottega.

È nello stesso periodo che sbocciano le prime rose. Vanno in boccio presto, molto presto quelle rampicanti che fanno pergola alla terrazza. Profumo intenso. La mi' mamma ne coglie sempre e le tiene a centro tavola, dentro ad una vaso di vetro che gli ha regalato zio Magnino per Natale. E intorno alle rose imparo da subito un gioco facile che mi diverte. È la caccia ai “calanzini”; scarabei dal colore verde dorato che si fanno catturare con facilità. Un po' recalcitranti quando lego loro un filo ad una delle zampe, l'altra estremità ad un polso. Il “calanzino” tende il filo, volteggiando in cielo nel suo girotondo. Ronzio come di un elicottero in miniatura, o così me lo immagino mentre vola fin quando, lui stanchissimo, gli rendo la libertà. Il giorno dopo lo riprendo e lui si lascia di nuovo catturare, vuol dire che anche lui si diverte, se è lo stesso calanzino.

Giardino, quello di casa Vannini, palestra per i nostri primi giochi, liberi di gattonare sul mattonato o sopra una coperta. Ci siamo passati tutti, noi bambini di Casa Vannini, in quello spazio “polivalente” a seconda delle stagioni. Pilloni e conche per lavare a mano il bucato, sotto il sole. L'acqua quella piovana della cisterna, a ridosso dei pilloni. Siamo spesso noi bambini chiamati a fare acqua, con la carrucola a tirare su un secchio per volta. Estate anche tempo di un bagno, immersi nella conca, quella più piccola. L'acqua messa a riscaldare al sole. Sapone bianco di quello bono. È un ricordo il mio senza un inizio, come se i primi bagni li avessi fatti sempre in quell'orto, dentro quella conca, non solo io ma anche tutti gli altri bambini di Casa Vannini. Iniziando da piccolissimi, per finire grandicelli, sotto la pergola - senso minimo del pudore – e seduti sul muretto della veranda, ad asciugare al sole rinvolti in un asciugamano. Solo da grande, il sabato prendevo lo zaino in spalla, la salita del Bagagli per andare ai bagni pubblici “sotto i chiostri”: altra storia.

Immancabile ad inizio di pomeriggio, di ogni pomeriggio, come fosse musica, se sono nell'orto, le sento quelle risate. Si rincorrono divertite, gioiose. Erompono dal di là del muro di cinta, provenienti dall'orto delle suore di San Paolo. Sono le giovani “novizie”, se io sono in giardino le vedo anche, saio leggero, capelli al vento che sfuggono da sotto la cuffia, correre e rincorrersi lungo i vialetti, tra filari di viti e di rose in un bellissimo connubio tra utile e futile. Loro che giocano e si rincorrono, le altre a lavorare. Alcune a governare i maiali, altre a cogliere la verdura, chi a zappare, chi al forno per il pane. Quasi sempre un cenno di saluto furtivo scambiato con la moglie di “Polpino”, in giardino a prendersi cura delle rose che fanno da cornice al muricciolo che si affaccia sul loro orto. Per il resto del giorno quell'orto è avvolto dal più completo silenzio. La Notte abbandonato al suo destino invaso da una miriade di lucciole, nessun bambino ad inseguirle sotto lo sguardo vigile di Civette e cuculi. Il giardino accanto invece è sempre spoglio, “occupato” da decine di gatti appollaiati ogni dove, senza regole, un po' selvatici, come le loro padrone le Bricciche.

Di notte, in estate, l'orto di Nonno Nuti, talvolta si anima, se c'è la luna piena, se il mi' babbo ha la “luna storta” e non riesce a dormire. Allora lo senti e lo vedi, pila in mano, scendere alle ore più impensate quegli scalini armato di zappa e falcino. Lo capisci dal rumore in quale lavoro è impegnato, e dal tono delle “resie”, scherzoso o incazzato, se tutto procede come previsto oppure no! Di regola gli dà di zappa o di vanga attorno ai carciofi, alle patate e alle viti. Ma una notte, di quelle con la luna storta, in un pigiama rosso fiamma, con ai piedi un paio di ciabatte di plastica lo si vede e lo si sente scendere “incazzato”, cristi e madonne, colonna sonora, che ti fanno capire in che punto dell'orto è. Il fruscio del falcino e lo sbattere contro i mattoni, come il cono d'ombra formato dalla pila serrata in bocca, ti fanno intuire che sta falciando lungo le scale, forse erba, mentre il cuculo si zittisce e le lucciole fuggono lontane. Sembra che abbiano paura di lui, fino a quel richiamo... "Edaaa Edaaa Edaaa", alle prime luce dell'alba, che costringe mia madre ad affacciarsi e a soccorrere il mi' babbo che non riesce nemmeno a vedere dove mette i piedi. Tutto gonfio, anche gli occhi "Allergia alla vetriola" la diagnosi del dott. Tozzi, accorso dall'ospedale, lui di turno e amico di famiglia: cortisone la cura efficace.

Generoso e ricco comunque il nostro orto. Tra i primi frutti, quando si è appena affacciata la primavera, i primi che ti danno la sensazione di fresco e che richiedono un lungo periodo di incubazione i Baccelli, arrivano quasi all'improvviso, anche se attesi con ansia. Primizie che nonno Nuti nasconde gelosamente agli altri, per destinarli a me. Un fagotto nascosto sotto il panciotto, una fetta di pane e due fette di prosciutto, anche questo preso di nascosto da "Pietro", per rifugiarsi sotto la pergola, il più lontano possibile, in fondo all'orto, per una merenda esclusiva che manteniamo, come liturgia immutata negli anni. Anche se gli ultimi anni, quelli del mio diploma, non c'è più bisogno di nascondersi. Baccelli che rappresentano, quasi il pegno di un affetto, segno sacro di reciprocità, quale è l'amore sincero tra nonno e nipote. Baccelli che per primi varcano la soglia del Seminario, quasi una gara a chi li porta in anticipo. Il Nuti sempre in vantaggio di alcune settimane con gli altri, con chi ha l'orto in collina a favore di sole, distanziando di settimane quanti l'orto l'hanno in piano. Vantaggio che si riduce sensibilmente con i primi piselli che, a ridosso del muro, quasi bisticciano spazio e aria ai capperi, che crescono sovrani in quell'angolo. Baccelli e piselli, primissimi ricordi dell'orto e dell'inverno, anche se al sole, in compagnia di Nonno Nuti.

Quei primissimi ricordi, sono immagini precise, nitide che accompagnano gesti e “paramenti”, in quel "Santuario a cielo aperto": il mio orto. Il Nuti, come è conosciuto da tutti, “serba” con cura i vestiti da festa, mentre quelli da lavoro sono ben distinguibili nei colori indotti, nella foggia riflessa e negli aromi. Il suo è sempre intero, a tinta unita, scuro o di color grigio tendente in primavera ad assumere i colori della campagna. Prevalente il verde, di tonalità diverse; a richiamare i toni dell'insalata, dei carciofi, dei pomodori, dei baccelli. Quasi una tavolozza al naturale che si forma solo in alcuni punti. Attorno al bavero, a richiamare la forma dei polpastrelli, pollice e indice. Alle tasche dei pantaloni, per un verde sfumato. Il panciotto... non l'ho mai visto una volta senza il suo panciotto, tutti i bottoni ordinatamente abbottonati, la catena ancorata all'occhiello in alto, pendente fin nel taschino di sinistra con dentro la “cipolla”... è quasi lindo. Solo quella porzione attorno al taschino, sghembo verso l'esterno, a forza di mettere e levare quella cipolla, fa la spia quale sia il verde “di moda”, nell'orto, in quel periodo. Non ho mai capito, se vezzo o necessità ad ogni rintocco del Duomo, il bisogno di estrarre la cipolla, di controllarne l'ora, di verificarne il battito, di completarne la carica, per poi riporla nuovamente nel taschino. Il cappello poi, ha tutto un suo carattere espressivo nei colori, dalla tesa al dietro. Colori riprodotti anche nella bombatura, nella sagomatura anteriore, per il ripetuto maneggio ad ogni cambio di vento, ad ogni saluto da vicino o da lontano, ad ogni scappellamento e anche ad ogni gesto a detergere sudore o fronte.

Ed è così abbigliato quando ci apprestiamo alla semina dei baccelli e dei piselli, io a seguire come un ombra mosse e comande di nonno Nuti. - Il seme va fatto sempre usando i baccelli più bassi, quelli della prima “messa”; così la pianta che nascerà comincerà a mettere i primi fiori e quindi i baccelli iniziando dal basso, fino a riempire tutta la pianta – Questo l'insegnamento di cui conservo gelosamente il “segreto”. Intanto lui, lungo un solco ideale appena segnato, a 'buco ritto', armato di una mestolina a punta, accenna appena una buca minima, nella quale io, carponi, pronto, inserisco i semi. – Metticene quattro o cinque – Li riconto mentre nonno leva la punta dal terreno, che si richiude e va a ricoprire i semi. Una buca accanto all'altra, a un palmo di distanza; è così che misura gli intervalli. Pendo dalla sue labbra, non mi perdo una mossa, affascinato da quella liturgia che mi spiega nei dettagli e che io assorbo avido. Siamo ai primi di Novembre, appena passato Ognissanti, a terreno preparato dal mi' babbo, stiamo seminando i Baccelli; seme messo da parte dall'estate, in cantina, in quella vetrina vecchia, piena di barattoli di ogni tipo. Stesse modalità, appena la settimana successiva, per la semina dei Piselli. Diversi gli intervalli tra le buche, due palmi, maggiori i semi da porre nella buca – Almeno 7 o 8 bene ammucchiati - Ed io ad eseguire alla lettera ogni comando, ogni raccomandazione. Ogni tanto una sosta, un riposino sul muretto più vicino o sulle scale; occasione per ciucciarsi una caramella, intatta nel taschino di destra nonno conserva sempre una scorta robusta, di menta o di orzo.

L'anno in cui la semina dei piselli, forse per il maltempo, viene rimandata più volte, io sono oramai al penultimo anno delle superiori. Nell'orto talvolta in aiuto a nonno Nuti, ben più che novantenne, c'è Vestro, un “giovane appena 80enne” già contadino in un podere nei pressi dei Cappuccini. Io accorro in aiuto solo se c'è bisogno di forze giovani. Con Rosario, compagno fisso di scuola e di studi, scendiamo nell'orto per portare in casa ceste varie di verdure, o per pesi o lavori faticosi, secondo necessità. Forse, anche per l'aiuto di Vestro, quell'anno i piselli trovano spazio anche nelle terrazze più basse, a ridosso del ciglione. Produzione eccezionale quell'anno. – Quando avete tempo, dovreste levare le piante dei piselli assieme alla frasche e farne un mucchio. A bruciarle ci pensiamo noi. – È questo il messaggio preciso, a inizio estate, al quale non possiamo dare seguito immediato, a causa degli impegni di scuola. – Nonno, nell'orto ci andiamo sabato! – la nostra promessa mentre facciamo la solita partita a 21.

Il venerdì torniamo da scuola come al solito verso le 14, forse un po' prima. Troviamo nonno Nuti a letto. C'è già stato anche il dott. Braschi. – Non dovrebbe essere nulla di grave, anche se alla sua età è pur sempre una caduta – Impaziente, in attesa del nostro intervento, quella mattina girottolando per l'orto, inizia a sbarbare le piante di piselli. Poche, forse due o tre di quelle a ridosso del ciglione nel penultimo campetto, invisibile da casa. – Ho cercato di sbarbare una pianta ma ho perso l'equilibrio andando a rifinire a capo in giù nel campetto sottostante (forse meno di 2 metri), tra il ciglione e il filare delle viti, restando a capo in giù e a gambe ritte, senza possibilità di muovermi. Ho provato a chiamare. Forse mi sono addormentato, perché non ho sentito subito Vestro che mi ha aiutato a rizzarmi. Poi sono rimasto seduto finché non sono arrivate Eda e Corinna che mi hanno aiutato a tornare su – Lucido il suo ricordo, mentre col passare dei giorni sembra non recuperare le forze, accusando dolori e malanni nuovi ogni giorno. Con l'arrivo dell'autunno e dell'inverno, l'alzarsi da letto quasi un rituale... solo ogni tanto, il venir meno delle forze. A volte riesce a stare alzato fino a mezzogiorno, per poi ritornare a letto stanchissimo. Solo voglia di chiacchierare, sempre interessato ai miei risultati a scuola. Non chiede solo dei voti, ma di cosa ho scritto se è un tema, il perché dei risultati scadenti. Degli insegnanti chiede nomi ed età, come se li potesse conoscere, per sentirsi vicino a me comunque. Fino alla primavera e alle ultime settimane trascorse a letto, in attesa... consapevole della fine, in quelle settimane di Quaresima del '67, fino a quel giorno...

"...era all'inizio del pomeriggio, ero da poco tornato da scuola, vicino al suo letto c'era la figlia Corinna e mia madre. – “Eda! Corinna!” – ha chiamato. – “Ci siamo” – ha sussurrato. Ha allungato loro le mani, e le mani strette tra quelle di sua figlia e di mia mamma, è spirato" *
(* dai Racconti dell'Orto – 'Nonno Nuti, un nonno di 'stoppa' tutto speciale)

L'orto che fu di Nonno Nuti
Foto di Giancarlo Pertici

L'orto che fu di Nonno Nuti
Foto di Giancarlo Pertici

Le scale per scendere all'orto
Foto di Giancarlo Pertici

Giancarlo Pertici da piccolo nei pressi dell'orto
Foto Collezione di Giancarlo Pertici

Giancarlo Pertici da piccolo nei pressi dell'orto
Foto Collezione di Giancarlo Pertici

domenica 26 aprile 2015

[VIDEO] SAN MINIATO E LE SUE LAPIDI A "DRIBBLING" SU RAI 2 IL 25 APRILE 2015

Nella puntata di sabato 25 aprile 2015 del programma “Dribbling” su RAI 2 è andato in onda un breve servizio dedicato a San Miniato e all'episodio che ha caratterizzato il dibattito cittadino nelle ultime settimane. Ovvero la questione della rimozione delle due lapidi, legate alla Strage del Duomo, dalla facciata del Municipio. Un dibattito che ha avuto anche un'eco nazionale per l'intervento di Renzo Ulivieri (e della successiva querelle col Sindaco Gabbanini), come dimostra il servizio andato in onda su RAI 2.
Tuttavia nella trasmissione non è stato direttamente coinvolto, e nemmeno citato, il noto allenatore sanminiatese. A parlare sono stati Giuseppe Chelli e Gabriello Bertini, discutendo (nonostante i fatti siano stati ormai chiariti da tempo) su cosa avvenne, o non avvenne, quella tragica mattina in Cattedrale. Poi il servizio è sfumato sulla match di calcio fra il San Miniato Basso e il Perignano, valevole per il Campionato di Promozione Toscana, Girone C.

Di seguito è proposto il video del servizio di “Dribbling” trasmesso su RAI 2 il 25 aprile 2015 alle ore 13:50 circa.





Le "Lapidi della discordia" quando ancora erano al loro posto
sulla facciata del Municipio di San Miniato
Foto di Francesco Fiumalbi

martedì 21 aprile 2015

LA BELLA GIGOGIN - Racconto di Giancarlo Pertici

↖ RACCONTI DALLO SCIOA

di Giancarlo Pertici

"La Bella Gigogin" – Sanremo '54

Il dottor Bellini gliel'ha detto a mamma – Il bimbo è particolarmente nervoso! Non lo portare al mare quest'anno, mandalo in montagna – Ma io, per la verità, non mi sento nervoso, non faccio le bizze, ubbidisco... quasi sempre. Cerco anche di stare attento a scuola... finché posso. Ma tutte quelle ore non ce la faccio a stare fermo lì, dietro a quel banco, senza potermi muovere! Non è che mi addormenti! È come se sognassi ad occhi aperti. Mi fisso oltre la finestra che dà in Gargozzi, tanto che mi sembra di essere laggiù, tra i campi, a correre sull'erba, e mi passa tutta la stanchezza. È in quel momento che il maestro si arrabbia, perché, o mi chiama o mi fa una domanda, e io non rispondo.

Quante volte, durante l'anno, il maestro glielo ha detto a mamma – Non sta mai attento! Ha sempre il capo da qualche altra parte! – Ma io non lo faccio apposta a non rispondere! È solo che non lo sento subito. - Ma non dormivo mamma. Forse ero solo distratto. – E quella sera, che per me viene decisa la montagna al posto del mare, nonno Nuti mi racconta della sua montagna. Di quando, da ragazzo, assieme al suo babbo, andava a Scarperia passando per il Passo del Giogo, inerpicandosi anche per sentieri e viottoli per scorciare la strada. Almeno una volta all'anno durante la Fiera Annuale, giusto la scusa per comprare trincetti e forbici nuove, ma anche lesine. Un ricordo il suo carico di nostalgia, quando per le castagne raccolte in bosco, quando a fare 'avvio' per il fuoco, quando a fare funghi assieme al babbo. Ricordi uniti ai profumi d'inizio autunno, al gorgoglio dei ruscelli in primavera, che mi fanno compagnia fin nel sonno, fino a invadere anche i sogni. E così fino all'ultimo giorno prima della partenza per la montagna, la scuola oramai chiusa per le vacanze estive, sempre o quasi in compagnia di Nonno Nuti, o nell'orto, o in giro per San Miniato o a passeggio per la campagna fin verso l'ora di cena.

Ed è così che parto per la colonia, parto per la montagna in quell'estate del '54. Non ricordo il particolare della partenza da San Miniato. Ricordo solo la sala d'attesa e il loggiato antistante la Piazza della Borsa, in quel palazzo sede della Provincia, a Pisa. La riconosco bene, anni dopo, in età adulta, dai pavimenti e dai rivestimenti bianchissimi in travertino. Poi l'arrivo della corriera per Mammiano, il momento dei saluti, mamma che resta a terra, mentre io mi ritrovo seduto accanto all'autista e a una signorina sorridente che mette a posto la mia valigia.

Neppure una lacrima! Attratto, anzi! Quasi ipnotizzato da quanto scorre di là dal finestrino... i prati, gli alberi, i fiori, case, uccelli... e anche cullato da salite e da curve, accompagnato da canti sconosciuti, mentre il tempo vola. Fino alla fine di quel primo giorno, dopo aver ubbidito a quella signorina, che non mi ha lasciato mai un momento, lavandomi denti e piedi, riponendo la valigia sotto il letto e la biancheria minuta dentro il comodino, e mettendomi il pigiama. Nessuno quella sera a rimboccarmi le coperte, mamma e nonno lontani. Nessuno a rammentarmi le 'devozioni', solo in quel lettino da una piazza, giusto accanto a quello della 'signorina', dalla quale mi separa appena una tenda.

Pensieri interrotti da una carezza e da un bacio sulla fronte. È la signorina che mi rincalza le coperte – L'hai fatta la pipì? Qui in Montagna fa freddo! – Ad occhi chiusi, cerco di ricordarmi la preghiera a San Giuseppe. Ma non mi viene!!... mi basterebbe l'inizio... ci vorrebbe nonno! Si spengono le luci, mentre si ode una musica. Viene dall'alto. È una canzone per bambini, diffusa a bassa voce in ogni camera – gli altoparlanti, quasi invisibili – che mi accompagna nel sonno e fino alla mattina dopo.

Per me è la prima volta lontano da casa, senza mamma e senza nonno, in un posto sconosciuto. La prima volta in montagna. L'anno il '54 al termine della prima elementare. Il mese forse quello di luglio in una colonia bellissima, a mezza collina, su due piani. Con due piazzali disegnati seguendo la pendenza della montagna: uno ogni livello. Al piano basso le camere nostre dei maschi, a quello superiore le camere delle femmine. Al refettorio tutti assieme. Poi in giro a piedi, a fare camminate anche lunghe, come quando con nonno Nuti si va fino in fondo a Via del Sasso o a Calenzano. E proprio dietro alla Colonia, appena fuori il muro di cinta, un enorme prato verde intervallato da cespugli di castagni, lungo un ripido pendio rivolto verso una profonda valle dove, in lontananza, si ode il borbottio di un torrente che scorre. È La Lima. Bellissimo quel prato, per rincorrersi, per lasciarsi scivolare rotolandosi sull'erba lungo quella discesa.

Che divertimento! E quanti giochi nuovi! Belli, inimmaginabili con compagni nuovi, tutti più grandi di me, nessuno di San Miniato. A inizio pomeriggio, una leggera brezza mi riporta, con la fantasia, agli aquiloni in volo: San Miniato - Pian delle Fornaci. Con tutto questo spazio, quanta corda ci vorrebbe, per far volare lontano quegli aquiloni, presenti solo nella fantasia! Verso sera, folate gelide salgono fin sul piazzale della Colonia a dettare i tempi per il rientro, prima che sia buio. Quel prato ho continuato a sognarlo per anni e l'ho anche cercato in età adulta, senza successo, contrassegnato da un enorme traliccio in ferro, alto più di tutte le case e della collina accanto, a sostenere, lassù in lato, i fili dell'alta tensione. E dai piedi di quel traliccio ben visibile il "Ponte Sospeso" sulla Lima, nella parte ancorata sull'altra sponda della vallata. Quando tira vento lo si vede anche oscillare. Sopra il paese di Popiglio.

A distanza di così tanti anni ho ancora impresso con chiarezza nella memoria il percorso tra il paese e la colonia collocata a metà collina, in basso, verso la valle della Lima. Un vicolo sterrato, stretto tra le case, percorso interamente pedonale, che si apre a ridosso di una curva, scendendo dal paese di Mammiano verso la Colonia, di cui ho sempre ignorato il nome, se ce l'aveva. A finire, oltre la Colonia, una scalinata, intagliata nel ciglione, a scendere a ridosso di una doppia curva. E da quella scalinata, perché a ridosso della colonia e più breve, in sosta a bordo strada, i camion dei fornitori, a scaricare a spalla vivande varie, mattina e sera. Per me spettacolo del tutto nuovo che diventa meraviglia, sorpresa, appena due giorni dopo, probabilmente di domenica. Anzi!

Certamente di domenica, appena dopo messa in quella Chiesa ad inizio del vicolo e ad angolo con la strada maestra. Lo spettacolo quello di tanti bambini affacciati alla ringhiera, a guardare in basso verso quella scalinata presa d'assalto dalla prima Corriera fermatasi ai suoi piedi. E' il giorno del Passo, come ogni domenica in quella colonia. E per quelle scale, con borse e pacchetti, in cerca di occhi conosciuti, giovani coppie in visita. Il Pullman, il primo, è in arrivo da Pistoia.

– Vieni a vedere Giancarlino chi c'è! – Riesco a malapena ad infilarmi con la testa dentro un colonnino mozzo della ringhiera. È la signorina che chiama, ha riconosciuto mamma. Sorpresa inattesa, imprevista. È zio Magnino che ha prestato a babbo la moto Guzzi nuova fiammante. Bellissima mamma, pantaloni e giacchetta di pelle, mentre vola su per quegli scalini, tutti d'un fiato, verso di me. Dietro babbo. Borsa della spesa in spalla, appena messo il cavalletto alla moto. Ed io per mano alla Signorina. – Attento, fermati, potresti cadere – Ma poi, liberi!!! di vivere tutto il giorno insieme, ed io a fare da 'guida'. Quasi non ci credo! Come sta nonno Nuti? Corinna? La mia sorella? – Maurizia è rimasta da nonna Livia – è mamma che risponde, mentre mi stringe a se, forte forte.

E per pranzo, una grande coperta sul prato, proprio quello dietro la Colonia, per conigliolo e carciofi fritti. Dolce, quello di nonna Livia, le pesche, quelle dell'orto di Nonno Nuti. E il pomeriggio fino in paese, a Mammiano, per viottoli e scorciatoie, a percorrere le passeggiate pomeridiane, fino anche alla stazioncina del trenino e a quel magico tornante, dove il trenino si annuncia alla stessa ora di ogni pomeriggio, passando sul ciglione sovrastante. Una sorta di giardino segreto, quasi un labirinto magico. Due panchine di legno, una staccionata a fare da parapetto al vuoto sottostante, un'altalena e tanti tubi di cemento, allineati in più file dove rincorrersi, dove rimpiattarsi, dove sgattaiolare e da dove saltare in quel prato spesso e soffice. Pomeriggio a perdifiato fino al rientro in colonia, che è quasi l'ora di cena, mentre babbo e mamma in sella alla Guzzi ripartono per casa.

Anno delle meraviglie quello! Sorprese sempre in agguato a segnare quell'anno come unico, non solo nei ricordi, proprio in quel "magico tornante" che si fa inatteso castello incantato in un giorno inatteso, forse un martedì o forse un mercoledì, non certo di festa. È durante la consueta passeggiata del pomeriggio, verso Mammiano, che passiamo proprio da quel "tornante", nel momento in cui il trenino annuncia il suo passaggio. Impossibile non fermarsi ad ammirarlo nel suo sferragliare, tra sbuffi di fumo e vapore; e tutta quella gente affacciata ai finestrini!! Tra queste.. sorpresa! Zia Adriana assieme al suo amico Duilio (da grande imparerò che erano fidanzati). Visita inattesa e ripetuta più volte, a distanza di pochi giorni, l'una dall'altra, e che si consuma proprio in quel magico 'tornante' tra chiacchiere, in attesa del passaggio del gelataio col suo triciclo, a respirare aria e storie di casa, ad aprire pacchetti, quelli di mamma e di nonno Nuti. Solo da grande capirò che quelle erano anche occasioni per Zia Adriana e Duilio, di stare insieme, senza suscitare scalpore o sguardi maligni, loro coppia 'irregolare': zia Adriana già sposata e separata. In quel momento rappresentavano per me il massimo dell'attenzione. Sensazione di essere considerato, di essere importante, di essere unico, che mi ha condotto fin da grande.

Sorprese destinate a raggiungere il culmine con lo spettacolino di fine turno, allestito su un palco improvvisato. A turno, tutti attori o cantanti. Per me è la prima volta, se si esclude quella volta che, per Natale, mi trovai in una culla di legno piena di paglia a fare la parte di Gesù Bambino. Ricordo sfocato, alimentato più che altro dal racconto ripetutomi più volte da mamma. Questa volta, ed è la prima, sarò cantante. È al ritorno dalla passeggiata pomeridiana che vengo circondato e circuito da più signorine. Canterò in coppia con una bambina, di cui ricordo solo quel musino dispettoso, grazie all'unica foto che conservo di quell'occasione. È 'La bella Gigogin' successo del Festival di Sanremo che devo imparare in fretta e bene, inseguito per tre giorni, in ogni dove, durante un qualsiasi intermezzo, rinunciando anche alla passeggiata del pomeriggio, con un'ultima ripassata prima di andare a letto. Comunque sia andata è stato un successo, ripetuto a richiesta anche di ritorno a casa, e non solo in casa, ma dalla Monache di San Paolo, a scuola, ogni dove. Il mio primo successo!!

Nel corso degli anni, di passaggio nella valle della Lima, mi sono soffermato più volte a Mammiano alla ricerca di quella colonia, la cui immagine non mi ha mai abbandonato. Mi sono fatto la convinzione che quell'edificio non ci sia più e che il posto deve aver subito modifiche importanti.
Poi, quasi il miracolo, pochi anni fa. Forse era il 2008. Stavo percorrendo la strada che dalla valle della Lima porta a Mammiano, quando ad una curva ho notato un ciglione ben rasato dall'erba, con, intagliata, una scalinata. Proprio quella scalinata, anche se rinforzata da alzate e pedate di pietra, e a pochi metri più in alto, semi nascosta dalla vegetazione la Colonia, proprio quella Colonia. Non ha subito modifiche se non quelle inferte dal tempo e dall'incuria. Non ho osato scavalcare la recinzione, fare il giro del piazzale, affacciarmi a quelle finestrelle dove, a quei tempi, stando a cavalluccio i maschietti più grandi spiavano le femmine a fare la doccia, oltrepassare la recinzione verso quel prato per scoprire... ho preferito mantenere fedele quell'immagine che conservo dentro, Graziella e Tiziana in attesa paziente, in religioso silenzio, evidente e palpabile la mia commozione, anche ora a distanza di così tanti anni.

Giancarlo Pertici durante la recita di fine turno a Mammiano
Foto Collezione Giancarlo Pertici

sabato 18 aprile 2015

OMAGGIO A DILVO LOTTI - PRESENTAZIONE SAN MINIATO 18 APRILE 2015

di Francesco Fiumalbi

Sabato 18 aprile 2015 si è tenuta, presso la Sala Consiliare del Comune di San Miniato, la presentazione della pubblicazione Omaggio a Dilvo Lotti, che accompagnerà lo stand sanminiatese presente in autunno alla prossima Expo 2015. Presenti, oltre al Sindaco Vittorio Gabbanini, la moglie Giuseppina Lotti, il Prof. Marco Moretti e Pier Giuseppe Leo.

La pubblicazione si compone di quattro cartelle contenenti altrettante riproduzioni di opere di Dilvo Lotti:
San Miniato al Tedesco, incisione su carta
San Miniato – Polignano a mare, litografia a colori su cartone
Il campo stregato, litografia a colori su carta
Autoritratto, acquerello e tempera a colori su carta

Omaggio a Dilvo Lotti

Partecipare a queste iniziative è sempre molto interessante perché, tutte le volte, dagli interventi dei relatori emergono aspetti, particolarità, episodi, che sono sempre nuovi e diversi, e certamente sempre utili a comprendere un personaggio, un artista, formidabile e complesso come è stato Dilvo Lotti.
Il Prof. Moretti ha ricordato il suo primo incontro col pittore sanminiatese e della successiva collaborazione che ne scaturì. Ha ricordato episodi, momenti e situazioni legate alla vita di Lotti e della sua frequentazione di personalità di spicco dell'ambiente artistico italiano del '900. In tutto questo è stato supportato anche dalla moglie Giuseppina, che non ha fatto mancare il proprio contributo personale, testimone e compagna di vita di Dilvo Lotti.
Pier Giuseppe Leo ha invece sottolineato la necessità di procedere ad una vera e propria operazione di valorizzazione di Dilvo Lotti, la cui produzione pittorica è intimamente legata alla città di San Miniato. Dilvo Lotti si è davvero identificato con la propria città, e ha fatto sì che sia arrivata, essa stessa, ad identificarsi con l'artista. E questo è certamente uno dei grandi meriti del pittore che, nel primissimo dopoguerra, si prodigò affinché la città di San Miniato, la “sua” San Miniato, rimanesse quasi indenne dalla feroce speculazione edilizia che invece investì molti altri centri storici italiani in quegli anni. Interventi anche da parte di Luca Macchi e Roberto Milani.

Di seguito è proposto il video della presentazione.


Presentazione della pubblicazione Omaggio a Dilvo Lotti
Video di Francesco Fiumalbi


Presentazione della pubblicazione Omaggio a Dilvo Lotti
Foto di Francesco Fiumalbi


G. LASTRAIOLI - LA POLEMICA SULLE LAPIDI DI SAN MINIATO STA PRECIPITANDO NEL RIDICOLO

Di seguito è proposta la nota inviata dall'Avv. Giuliano Lastraioli, autore di innumerevoli ricerche storiche, molte delle quali incentrate sul passaggio del fronte bellico dal Valdarno Inferiore nell'estate del 1944.

La polemica sulle lapidi di San Miniato sta precipitando nel ridicolo.

A sui tempo non mancai di rilevare quanto fosse falsa quella del professore Luigi Russo e quanto fosse moscia quella del presidente Scalfaro.

Mi onoro di avere servito più volte la messa al canonico Enrico Giannoni e di averne più volte ascoltato le sue puntuali filippiche in merito alle cause dell’eccidio del 22 luglio 1944.
Sono stato un pioniere della ricerca storica.
Monsignor Stacchini e don Luciano Marrucci mi hanno dato una mano e confortato nell’impresa.
Nel Luglio del 1988 scrissi il primo pezzo sull’argomento. Il lavoro fu sbriciolato in varie puntate e pubblicato di malavoglia da una redazione allora impaurita dalla verità. I tempi non erano ancora maturi per far digerire la storia a chi la negava per partito preso.

Nel luglio 1991 uscì “Arno-Stellung”, scritto in collaborazione con Claudio Biscarini. Fu quello un vero siluro contro la tesi del misfatto tedesco.
Ne fece tesoro anche il professor Paoletti nel suo successivo volume, supportato da varie perizie tecniche.

Si può affermare che, a quel punto, i fatti siano rimasti stabiliti.
Non basta, perchè nel 2001, sempre con Biscarini, pubblicai l’ammunition record della batteria americana che aveva sparato il colpo micidiale con l’ora e l’indicazione delle coordinate topografiche esatte. Si dava la prova “per tabulas” della responsabilità americana.
Da quel momento non c’è stata più requie.
Gli irriducibili sono insorti con le più bislacche teorie. Ne misi a posto uno stampando nel 2007 una brossura intitolata “De bilia”, che conteneva anche i vecchi interventi del canonico Giannoni e l’ordinanza di archiviazione del Tribunale Militare della Spezia.

Altri irriducibili continuano a negare l’evidenza (Bini e Cintelli), ma sono stati zittiti e confutati su ogni aspetto delle loro riserve da una chilometrica precisazione del colonnello Cionci, che fu tra i consulenti del professor Paoletti.
Ultimo ma non minimo è stato il professor Pezzino, autorevole ordinario dell’Università di Pisa, che però mette le mani avanti pur adombrando dubbi e incertezze tanto per tenere in vita la polemica.

Pezzino insiste sulla circostanza del concentramento di persone civili in duomo, ma dimentica che l’analoga operazione adottata in San Domenico non ebbe alcuna funesta conseguenza.
Non sussiste un diretto nesso causale fra tale iniziativa e l’esplosione omicida. Infine il cattedratico pisano dà credito allo scoppio di un ordigno tedesco presso il balaustro dell’altare maggiore, ma afferma di non esserne sicuro. E allora ?
Questi sterminazionisti farebbero meglio a farla finita.

Tempo addietro sfidai a contraddittorio, ma non hanno mai accettato un sereno confronto di vedute e di indagine.

Sono tuttora a disposizione.

16 Aprile 2015

GIULIANO LASTRAIOLI

La Cattedrale di San Miniato, dove avvenne la strage il 22 luglio 1944
Foto di Francesco Fiumalbi

giovedì 16 aprile 2015

G. RONDONI - UN CRONISTA POPOLANO AI TEMPI DELLA DOMINAZIONE FRANCESE IN TOSCANA

INTRODUZIONE a cura di Francesco Fiumalbi

Giuseppe Rondoni (San Miniato, 17 novembre 1853 – 16 novembre 1919), già Direttore della Miscellanea Storica della Valdelsa e Presidente dell'Accademia degli Euteleti, è senza dubbio una figura molto importante per i suoi contributi sulla storia sanminiatese.

In questo post è proposto un suo articolo dedicato ad un periodo molto particolare della vita all'ombra della Rocca, ovvero al tempo della dominazione francese in Toscana. Rondoni coglie l'occasione della ricerca partendo da un manoscritto raccolto da Antonio Vensi, cioè la narrazione prodotta da Niccola di Tommaso Gagliardi (San Miniato, 1777 - 1856). Il "diario" abbraccia il periodo compreso fra il 1799 e il 1809, e rappresenta un documento molto interessante poiché risulta essere una testimonianza diretta, seppur influenzata dal punto di vista particolare dell'autore, di un momento significativo della storia toscana e sanminiatese in epoca moderna.

Vale la pena di ricordare che sull'argomento sono stati pubblicati anche due testi più recentemente. Il primo, collegato ad una mostra, è il volume San Miniato giacobina e napoleonica (1796-1799), curato da Valerio Bartoloni, Comune di San Miniato, Bandecchi & Vivaldi, Pontedera, 1997. Il secondo è quello curato da Manuela Parentini, San Miniato fra illuminismo, rivoluzione e conservazione, FM Edizioni, San Miniato, 2001.

«Archivio Storico Italiano», Serie Quinta, Tomo X, Anno 1892,
G. P. Viesseux, coi tipi di M. Cellini e C., Firenze, 1892, frontespizio

Trascrizione di G. Rondoni, Un cronista popolano dei tempi della dominazione francese in Toscana, in «Archivio Storico Italiano», Serie Quinta, Tomo X, Anno 1892, G. P. Viesseux, coi tipi di M. Cellini e C., Firenze, 1892, pp. 64-87. [AVVERTENZA: con il colore blu è indicato il numero della pagina; le note, a piè di ogni pagina sono proposte tutte in fondo al testo].

[064] UN CRONISTA POPOLANO DEI TEMPI DELLA DOMINAZIONE FRANCESE IN TOSCANA

I
Il recente libro di Apollo Lumini La reazione in Toscana nel 1799 (01), ed un bello studio del Masi Il 1799 in Toscana (02), confermando quanto siano importanti e desiderate le ricerche intorno a quel tempo memorabile, e richiamandovi l'attenzione degli studiosi, m'inducono a sperare che non riuscirà affatto inutile ed inopportuna la notizia di questa Cronaca, o piuttosto Diario delle cose occorse in S. Miniato al Tedesco (03), anche perché rappresenta le opinioni ed i giudizi non di un uomo addottrinato e partecipe de' pubblici affari, di un prete, di un nobile, di un professionista; ma di un popolano comodo ed operoso, che vive oscuramente in un angolo di una piccola città di provincia, e che ha poca o punta cognizione precisa degl'ideali e de' grandi fatti contemporanei. Indi gli effetti della grande rivoluzione sono apprezzati da un punto di vista esclusivamente popolare, toscano, provincialesco e samminiatese. Ed è curioso, o m'inganno, udir quasi la parola viva di questo popolano narrare le impressioni genuine dell'animo suo, ed è importante conoscere in modo schietto ed immediato che cosa pensarono nei [065] più umili centri, nella quiete sonnacchiosa delle più piccole città, nelle borgate, nelle campagne i più umili sudditi di Ferdinando III, e cioè il maggior numero, sebbene il più trascurato dagli storici ed il meno illustrato dai documenti, dinanzi allo spettacolo di vicende che turbavano spesso gl'ingegni più vasti, gli uomini più esperti e potenti; vedere partitamente il concetto che il popolo fra noi si era formato della grande rivoluzione.
Poiché a questo proposito il materiale è assai scarso, dacché se conosciamo a sufficienza quanto accadde ne' centri principali, ignoriamo quasi totalmente ciò che avveniva nei secondari (04), valda questo tenue contributo almeno come eccitamento ad investigare con miglior successo nelle memorie e fra i documenti dei piccoli comuni, talora così neglette pur troppo, anche nella colta Toscana, dalle stesse autorità municipali, che sembrano perfino ignorarne la importanza per la storia della nazione. La storia non sdegna o respinge alcuno fatto, verun particolare: «non ci sono piccoli avvenimenti nella umanità, né foglie piccine nelle vegetazione» (05).

II
I Ricordi del nuovo governo francese in Toscana, o anche Notizie di San Miniato (così l'autore l'intitola), vanno dal febbraio 1798 al 9 luglio 1809; e sono preceduti da una breve notizia, della quale or ora diremo.
Dal 22 luglio 1799 al 25 agosto dello stesso anno, per la mancanza di un foglio, esiste una lacuna nel manoscritto, del quale ci limitiamo a porgere notizia possibilmente accurata [066] riportandone i passi più notevoli, con qualche parola di spiegazione e di collegamento, e resecandone il troppo ed il vano. L'autore, avversissimo ai giacobini, non si palesa; ma sappiamo per altro che fu Niccola di Tommaso Gagliardi, nato e vissuto in S. Miniato dal 1777 al 3 gennaio 1856, giorno della sua morte. In gioventù tenne dalle 50 alle 100 filatrici, ed impannava mezzelane, frustagni, eppoi cotoni; si pose anche a vender cera, ed in ultimo fu paratore di chiese. Vivono ancora i suoi figli (06).
Un cenno sulla venuta in S. Miniato del generale Buonaparte fa quasi da proemio al lavoro, e merita proprio qualche osservazione preliminare. E' noto che durante la immortale campagna del 1796 Napoleone, colla divisione Vaubois, per Parma, Modena e Reggio calava in Toscana, e, toccata Pistoia e traversato l'Arno a Fucecchio, si recava a Livorno. Di qui andava a Firenze, proseguendo per Bologna. Appunto nel viaggio da Livorno a Firenze si fermava a pernottare a S. Miniato, ed anche di questo gli storici han voluto dire e saper le ragioni. Il Marmont, che gli era compagno, nelle sue Memorie scriveva: «la famille Bonaparte est originaire de Toscane; une branche y ètait restée a S. Miniato, petite ville entre Pise et Florence; nous, nous y arretàment de l'éclat que son cousin donnalt à son nom; mai il voyait d'un autre oeil que nous cette gloire de la terre, et il aspirait à la voir prendre ses racines dans le ciel. Un Bonàparte avait été déclaré bien-heureux par je ne sais quel pape, e' était le premier pas vers la canonisation; la chanoine aspirait à le voir sanctifié; il prit le général en particuller poir le suppller d'employers son influence, supposée sans borne, pour obtenir ce titre de gloire pour la famille. Bonaparte rit beaucoup du desir de son cousin, qu' il ne satisfit pas, et il aima mieux obtenir du pape, dans le négociations postérieures, quelquels milions et quelques tableaux de plus, que le droit de bourgeolsie dans [067] le ciel pour un homme de sa mason» (07). Dal granduca però ottenne pel canonico una commenda di S. Stefano, che molto lo soddisfece (08). Il Marmont narro questo aneddoto samminiatese del Buonaparte per dimostrare ch'egli serbò sempre affezione per i fatti e le persone che gli ricordavano i principli della sua grandezza. «Tutti i nomi di quel tempo, e di un'epoca anteriore (così il maresciallo) non hanno mai perduta la loro efficacia sopra di lui». Ne inferisce che la natura gli aveva dato un cuore riconoscente e benevolo, ed anche sensitivo, e che ingiuste sono le opinioni contrarie. Invece il Michelet insinua che il padre di Napoleone scoprisse il ricco e credulo canonico di S. Miniato, e lo persuadesse a riconoscerlo per parente, procacciandosi in tal guisa patenti di antica nobiltà fiorentina. Poi Napoleone, «puor faire sa cour aux prêtres, alla voir ce bonhomme de chanoine dont il disalt êtres parent, et comme lui descendu d'un saint du moyenâge. Cela pouvant avoir un bon affet en Italie, en France, dans tout le parti retrograde» (09).
L'anonimo Samminiatese, autore di una Storia Genealogica dei Buonaparte, aggiunge che il canonico di nome Filippo si trattenne a lungo coll'illustre parente, «mostrandogli tutte le carte e diplomi gentilizi dell'agnazione, dei quali Napoleone mostrò di fare gran conto; ma quelli sopra cui il rispettabile canonico maggiormente mostrò il suo particolare interesse, furono i comprovanti le virtù eroiche cristianamente praticate dal venerabile Fra Bonaventura cappuccino, loro antenato, che viveva col declinare del secolo decimosesto... soggiungendogli ch'esso generale doveva le sue vittorie, i suoi trionfi, la sua salvezza all'intercessione di questo servo di Dio» (10). Secondo lo Zobi, i Samminiatesi avrebbero pubblicamente festeggiato il Bonaparte; ma di feste nei [068] documenti non trovo menzione alcuna, se non vuolsi ammettere come tale lo stanziamento della somma di 871 lire, fatto dal Comune il dì 28 luglio del 1796, per il passaggio delle truppe francesi la sera del 29 giugno, mentre di lì a poco, essendo frequente il passo di quelle milizie, si elegge un Commissario comunale, il sig. Prospero Badalassi, per provvedere ai danni dai (11). Infine la tradizione orale, ormai languidissima, ricorda solo che il Bonaparte, di notte, con molti generali, fra i quali il Murat, smontò alla casa del canonico, essendo la piazza tutta piena di soldati. La casa, ora Gazzarrini, sorge presso la piazza Bonaparte, già S. Sebastiano, e vi fu apposta ai giorni nostri un'epigrafe.
Tornando al nostro Diarista, pel quale i giacobini sono poco meno del diavolo, el si compiace tuttavia che la famiglia Buonaparte o Bonaparte sia originaria del suo paese. «Era oriunda samminiatese, perciç nel ritorno che il generalissimo fece da Livorno (son sue parole) passò di S. Miniato che fu nel fine del mese di Giugno del 1796, circa le ore 11 della notte (29-30 giugno) con carriaggi e cassa militare, accompagnato da alcuni generali, e da circa 50 soldati a cavalo, e andò a smontare al palazzo del molto reverendo Sig. Canonico Buonaparte, suo parente; nel giorno dopo ripartì, e andò a Firenze». Questa testimonianza circa la origine del Bonaparte, data come cosa nota e certa in S. Miniato, assai prima che si accendessero le dispute intralciatissime dei genealogisti, ha certamente un valore, e conferma le conclusioni dell'Anonimo, che pur non la conobbe, e che sostenne samminiatesi di origine i Bonaparte di Corsica (12), contro il Gerini ed il Passerini, che a dir vero almanaccò molto, con poco o nulla concludere, perché li vuol derivati dai Cadolingi conti di Fucecchio, eppoi da Sarzana, negando o interpretando un po' arbitrariamente memorie autorevoli. Anzi ricordo che il [069] compianto Cesare Guasti, da me interpellato sull'argomento, notava che il Passerini stesso finì per non essere molto persuaso delle sue stesse osservazioni, e che negli ultimi tempi si era quasi affatto ricreduto. Certo si è che in S. Miniato abbiamo una serie di documenti comprovanti la esistenza dei Bonaparte, dal 1272, anno nel quale Guidoletto notaio del fu Ildebrandino di Buonaparte, sindaco del Comune di S. Miniato e capo dei ghibellini fa la pace col vicario angioino, fino al secolo XVIII ed al canonico Filippo. Le tombe poi della famiglia erano nella cattedrale fino dal secolo XIV (13), e nel convento di S. Francesco. Gli stessi Bonaparte, come risultava dalle carte domestiche, si ritennero sempre originari di Toscana (14), e più [070] specialmente di S. Miniato e di Firenze (avvertiamo che molte famiglie nobili samminiatesi vennero fatte partecipi della nobiltà fiorentina e viceversa), e Napoleone, se da generale visitò il canonico, da Imperatore a Gino Capponi, che gli veniva presentato a Parigi, disse tra francese ed italiano: «ch'egli aveva toscana origine, e che i suoi erano signori di Samminiato. Trovarono, soggiunse, alla biblioteca una commedia scritta da un mio antenato, e volevano ripubblicarla; ma io non volli per esser lubrica» (15). Il figlio della rivoluzione francese teneva forse a discendere da una famiglia di giudici, legisti e sacerdoti, di antica e provata nobiltà? Ripensò egli talora con affetto, come vuole il Marmont, a que' suoi oscuri parenti, e forse nell'isola sconsolata del suo esiglio ricordò le verdi colline ov'ebbe il suo nido la tragica prole?

III.
Mi si perdoni la digressione, e passiamo al vero principio del Diario ed alla sua prima notizia importante: «Il dì 26 Marzo 1799 nel Salone del Sig. Carlo Gucci furono incominciate dai giacobini e le sessioni e le adunanze, dove si trattava di soppressioni di conventi, o vendette degli uni contro degli altri, e l'ingrandimento dei giacobini colle sostanze delle chiese, e conventi e possidenti». Nove erano in S. Miniato i principali giacobini, fra i quali un Simone Cardi Cigoli, discendente del pittore, del quale il Bracciolini scriveva: «tuo pennel parla, e la mia lingua tace». Il dì 31 marzo ognuno «si messe con gran sollecitudine la coccarda di tre colori, rossa, turchina e bianca. Alcuni di S. Miniato del partito francese proposero di piantare l'albero prima che [071] alcun francese venisse. Infatti il 2 Aprile, giorno di mercato, fecero cavare nelle grotte presso il convento di S. Martino un alloro colle barbe e frondi; e lo piantarono in mezzo alla piazza di S. Domenico, dove piantato che fu il cittadino Michele Buonfanti fece al popolo, che vi si era affollato per la curiosità, un breve discorso in lode della libertà ed eguaglianza, e del suddetto albero, chiamato da quelli scellerati giacobini l'albero rigeneratore, con molte altre cose contro dei principi chiamati col nome di tiranni». Preparato debitamente il terreno a dì tre aprile, ecco apparire cinque ufficiali francesi, fra i quali un Giuseppe Buonfanti di S. Miniato, ed un certo Canesi di Livorno, che aveva parenti nel paese, ed eccoli ordinare che s'innalzasse un altro albero sulla piazza del Seminario. «Lo stesso giorno fu mandato ai conventi l'ordine che il dì appresso, in occasione dell'alzamento dell'albero facessero delle generose elemosine ai poveri, come pure che si atterrassero e che si mettessero in pezzi tutti gli stemmi ed armi... ed il tutto fu atterrato in poche ore, e questo fu fatto subito dopo attese le minaccie e terrore che avevano incusso ad ognuno i suddetti francesi e giacobini». Innanzi si erano aboliti anche i titoli «che però o poveri o ricchi tutti egualmente erano cittadini».
«Inoltre fu da Michele Vannini ed altri giacobini, sotto la presidenza dei cittadini Simone Cardi e Dario Mercati, atterrata e messa in pezzi la statua di marmo che stava in mezzo alla piazza del Seminario: la legarono per il collo con una grossa fune, e la tirarono a terra con gran forza». Rappresentava Maria Maddalena d'Austria, moglie di Cosimo II dei Medici, generosa benefattrice dei Samminiatesi. Erasi infatti adoperata affinché la terra, ch'era di suo appannaggio, divenisse sede di un vescovado, e fosse dichiarata città. L'avea visitata amorevolmente, ricevuta ed ossequiata dai nobili e dal popolo, mentre il Gonfaloniere, certo Anchise Seragoni, che avea preparato un fiorito discorso, soffocato dalla commozione, ruppe un un pianto dirotto, né seppe pronunziar parola. Vi si era trattenuta due giorni, dimorando nel palazzo Grifoni (ora Catanti), concedendo udienze, erogando sussidi in opere di beneficenza, e liberando carcerati. La statua, opera della riconoscenza, era stata scolpita dal fiorentino susina, il quale effigiò la granduchessa collo scettro nella [072] mano destra, e colla sinistra posata su di un leone, emblema della città, sostenente colla zampa levata lo scudo mediceo (16). Ora qual mutazione di tempi! La immagine della benefattrice fu spezzata a ludibrio di popolo, ed i rottami rimasero poi lungamente buttati in un canto, entro una specie di cantina o di magazzino, né so bene se vi si trovino ancora. «Fu messa in pezzi anche la colonna della Berlina, situata in fondo alle scalinate che conducevano al Tribunale», dove sorgono adesso la Sottoprefettura e la Pretura. La sera vi fu «illuminazione per tutta la città». Dov'era la statua, si attese il dì 4, al piantamento dell'albero «ordinando che ognuno adornasse le finestre e gli usci di rame di alloro, e che ognuno ne portasse un ramo al cappello; ed infatti in meno di due ore tutta la città sembrava un bosco di alloro, poiché ognuno andò nelle ragnaie de' padri Agostiniani e dei Grifoni, a tagliare senza discrezione, né i padroni potevano impedirli perché dicevano che tutto era in comune, e ch'era libertà di fare ciò che volevano. Finalmente, alle 10 del mattino, fu piantato un grosso e lungo albero tinto a tre colori, ed in cima vie era un berrettone alla militare, con due bandiere e lance tricolori, al suono di violini ed altri strumenti, ed al canto di alcune canzonette chiamate patriottiche», mentre «tutti i giacobini, ed altre poche persone che per timore figuravano di essere giacobini, si davano dei baci, e ballavano molto intorno al detto albero, come tanti matti». In tale occasione il cittadino Giuseppe Buonfanti «fece al popolo un energico discorso in lode della nuova repubblica e della libertà ed eguaglianza e dell'albero chiamato da quelli scellerati e sacrileghi albero sacro, col quale discorso inculcava odio alle monarchie». Fu tanto energico, che l'oratore «per essersi tanto affaticato stette 24 giorni il letto colla febbre». Verso mezzogiorno terminava la cerimonia dell'albero, ed il popolo si affollò alle porte dei conventi per l'elemosine. De' conventi in S. miniato ve n'erano tanti, nonostante la soppressione di Pietro Leopoldo, che debbono essere state copiose. [073] Alcuni conventi fecero una distribuzione di pane, ed altri dettero ai poveri una crazia a testa: spesero 15 scudi per ciascuno. La sera «gran festino nella Cancelleria, e generale illuminazione con gran concorso di popolo». Né basta. I giacobini vollero anche il Te Deum, e già fino dai giorni innanzi gli ufficiali francesi, fra i quali (così il diarista) un ebreo, erano stati dal vescovo affinché lo facesse cantare in Duomo, «col suono di tutte le campane», sempre in onore e gloria dell'albero, ed «in ringraziamento» della sua erezione; dell'albero, che dovea certamente stupire, americano di originai e giacobino di costumi, in tutte quelle feste e pompe cattoliche. Strani e curiosi contrasti! Mentre da noi certi rivoluzionari del popolo (il Vannini ed altri erano popolani) ragionavano presso a poco come il Babbeuf e i Comunardi, gridando «che tutto era in comune, e ch'era libertà di fare, ciò ce volevano», non sapevano poi fare a meno di mendicare, secondo le inveterate abitudini alle porte dei conventi, e volevano, come la plebe napoletana, far giacobini i Santi, il Duomo e le campane, piuttosto che rinunziarvi. Se non che il pio scrittore si affretta ad osservare «che questi Francesi entrarono in chiesa al Te Deum, celebrato il dì 5, e andarono al posto destinatogli (sic) senza aver fatta alcuna genuflessione; ma appena si cavarono il cappello, poiché vi vennero per una pura apparenza esterna».
S'intima la consegna delle armi «sotto la pena pei disobbedienti di esser fucilati come nemici della patria»; eppoi mescolando sempre le prepotenze, le minaccie e le provocazioni colle feste, un altro festino in Cancelleria, dove «un uffiziale francese di nazione ebrea (sic) s'innamorò di Elisabetta Gori samminiatese, tanto che, terminato il ballo, andarono a sposare attorno all'albero della libertà all'uso della nuova repubblica francese, e senza veruna cerimonia della chiesa, e la mattina partirono tutti i Francesi insieme colla detta Gori». E forse fu quello il solo matrimonio repubblicano in S. Miniato. «Tutta la facciata del muro esterno del Tribunale era ripiena di stemmi dei vicari che vi erano stati, all'uso antico. Perciò il magistrato detto dei Francesi la Comunè (il Municipio riformato da loro) messe la mattina del 6 Aprile cinque muratori... e levarono tutti li stemmi ed armi, risarcirono il tutto e lo imbiancarono. [074] Per fare il detto lavoro vi messero quindici giorni (17). A tutte le piazze fu dato un nuovo nome», e così «la Piazza del Seminario si chiamò Piazza Nazionale, quella di S. Domenico della Rigenerazione; quella del Grifoni della Libertà; quella di S. Sebastiano della Eguaglianza; e quella di S. Agostino dell'Ospedale». Si aprirono le inscrizioni volontarie «alla truppa nazionale»; ma, se diamo retta al Diarista, molti si dettero in nota «con animo, quando fossero chiamati a prender le armi, di scappare per le campagne e boschi».
E' innegabile che in S. Miniato la baraonda e le provocazioni dei giacobini furono assai gravi, e che alcuni credevano o dettero appigli a far credere ch'eguaglianza e libertà suonassero licenza e facoltà di appropriarsi l'altrui. E' tradizione che uno di loro, un popolano, già vagheggiasse di prendersi una villa, ed a questo allude la strofa di una canzone riazionaria riferita dal notro:

Libertà lui la gradìa
Perché ben gli convenìa
Villeggiare alla Bastia;
Ma sbagliò proprio il furfanto
Il disegno, l'andò errante
Sui villaggi in Paesante (18)

Ora è più facile immaginare che descrivere l'effetto di simili provocazioni sugli animi di persone, nate e vissute nelle pacifiche casette fra una chiesa ed un convento, e sui contadini, tenaci conservatori de' sentimenti e delle pratiche avite; in un paese quieto, agricolo, raccolto, devoto, com'era Samminiato co' suoi nobili ed i suoi frati. Qual meraviglia che, trovandosi a disagio, e come fuori dell'ordine suo naturale, fra quei tripudi e scenate liberalesche, alla minima occasione, ad ogni più lieve indizio, anche senza ammettere una cospirazione riazionaria, [075], insorgesse, e direi quasi ritrovasse se stesso? Se cospirazione in quei moti della Toscana vi fu, com'è accertato dai documenti; in molti luoghi, in buona parte i moti furono anche l'effetto del sentimento popolare, spontaneo, irrefrenabile, e questo mi pare che si dimentichi un po' troppo negli ultimi studi su quegli avvenimenti, tutto o quasi attribuendo ai preti, ai settari, e perfino a Pio VI, ch'era, o m'inganno, in condizioni tali, nella dimora a Siena, da non volere, né potere, e forse da non avere interesse di farsi centro di agitazioni e d'intrighi. Il Brigidi, credo pel primo, affermò le mene pontificie, senza darne prove concludenti, ed altri, non so come, lo seguirono; ma torniamo a S. Miniato, dove la sollevazione contro i Francesi fu più che altro moto spontaneo di popolo e soprattutto dei campagnoli.

IV
Se prestiam fede al diarista, la sommossa avvenne due giorni prima di quella celebre di Arezzo. Sia un errore, una svista? Dal contesto e dal seguito del racconto non mi sembra, talché può ritenersi il primo sintomo de' fatti gravissimi che si andavano maturando. Ebbero dunque S. Miniato, o meglio il suo contadiname e tutta la regione circostante il primato cronologico dei moti riazionari del '99 in Toscana! (19) Il fatto si è che «in sera del 4 maggio la campagna che si scorge da S. Miniato pareva un'illuminazione... si sparse la voce che l'imperatore colla sua armata era vicino a Firenze, perciò, nata una sorprendente sollevazione contro i Francesi, in meno di un'ora si adunarono in S. Miniato più di 6000 contadini tutti armati, chi con forconi, chi [076] con accette, pennati, bastoni ed alcuni schioppi ch'erano stati sotterrati, allorché i Francesi fecero la requisizione delle armi, ed in tre colpi di accetta atterrano i due alberi della libertà, quali furono con fischiate trascinati per tutta la città, e ridotti in pezzi ed abbruciati sulla piazza dell'Ospedale». Poi nuove illuminazioni, e fuochi di gioia fin sul poggio della ròcca, «e per tutta la notte un continuo girare al suono dei tamburi e violini, gridando: – viva l'imperatore, viva Ferdinando III, viva l'armata austriaca –». Si corre alle case dei giacobini «per ucciderli ed abbruciarli i loro beni; ma essi al primo lampo della rivoluzione scapparono, e si rifugiarono alcuni per le macchie di campagna come le volpi, ed alcuni che non furono a tempo a scappare si rifugiarono sopra i tetti, e i palchi morti delle case». Il popolo «non potendo sfogare la sua rabia contro di essi, si pose ad abbruciare usci e finestre, tavolini, seggiole e quanto trovava», talché «non restarono che le muraglie delle case ed i tetti». Al Cardi però, per le preghiere di due sacerdoti della famiglia, non ruppero che le vetrate; né grave danno fecero alla casa Buonfanti. Insomma anche in questo caso i ricchi furono risparmiati, ed i poveri ebbero la peggio.
«Non può descriversi a pieno lo spettacolo ed il gran fuoco ch'era per le piazze e per le strade, e la quantità grande del popolo con fiaccole e granate accese, talmenteché non si poteva passare per le strade; vero le ore 10 della sera cominciò a calmare un poco il chiasso ed il tumulto per un accidente... entrarono cioè 25 dragoni a cavallo, e si schierarono in piazza del Seminario». Simili per la montura ai Toscani, il popolo li credé austriaci, e si serrò loro attorno, acclamandoli: essi rispondevano agitando il fazzoletto, e gridando evviva. Chi sa quanto durava l'equivoco, quando «un certo marchese Alli-Maccarani nizzardo, stanziato da qualche anno in S. Miniato, e che si credeva sospetto di giacobinismo», si accostò ai dragoni, e in francese disse loro che partissero, perché potevano correre pericolo di esser fatti a pezzi. Non se lo fecero dir due volte, e fuggirono. Quando il popolo gridò: «son francesi, ammazziamoli», e corse loro dietro, essi «fuggivano disperati». Sotto Cigoli smarrirono la strada; infine la ritrovarono; ed era troppo tardi per inseguirli.
[077] I contadini reclamavano le armi, già consegnate ne' giorni precedenti; dapprima non si volevano rendere; ma bisognò cedere. Nella notte molti di loro rimasero a guardia di S. Miniato, e il dì seguente (5 maggio) ingrossati di numero, tornarono alle case dei giacobini, e finirono di saccheggiarle. Se non seppero fare a meno del vescovo e delle sacre funzioni i giacobini, immaginate questi altri! Anzi il vescovo fece scuoprire l'immagine del Crocifisso, la più venerata dai Samminiatesi, nella chiesa di questo nome, e acese sul baluastro della chiesa predicando «la pace, la religione e la mansuetudine». Era monsignor Brunone Fazzi, dotto e pio veramente, e che, fra tanti preti faziosi ed intolleranti, seppe rimanere al suo posto, presso i suoi altari, intento solo al suo divino ministero ed all'opera benedetta della conciliazione. Tra gli spari di moltissimi schioppi ed il suono delle campane, dié la benedizione, e i contadini meno inferociti cominciarono a girare per la città con stemmi e bandiere granducali, e «con gran festa e gioia». Abbruciate tutte le coccarde francesi, uomini e donne si misero coccarde gialle e nere, e anche granducali, bianche e rosse.
Il 6 maggio, mentre in Arezzo faceva la fatale comparsa la carrozza misteriosa, occupata Empoli dai Francesi, il Vicario vescovile, ch'era un Migliorati, il can. Cardi, il cav. Giuseppe e il sig. Filippo Morali, trepidanti per la città natale, andavano a chieder perdono pel popolo, insinuando ch'erano stati i contadini, e non i samminiatesi autori del tumulto. Il comandante di Empoli rispose netto che non poteva perdonare, e che si rimettesse l'albero. Si affrettarono ad obbedire, innalzando però «un puro stile e piccola bandiera». Si riprese anche la coccarda di Francia, e i giacobini tornavano a farsi vivi, fra i quali il Buonfanti, che andava dicendo: «dove sono questi guerrieri della fede, dove sono questi ladri della religione, che rubano per la fede e per la religione! I Francesi non fanno queste cose». Il vicario di governo, certo Leoni, fu destituito «perché non era andato a calmare il popolo la sera della rivoluzione». I Francesi, esasperati dal vacillare della fortuna, non rispiarmarono a S. Miniato contribuzioni, requisizioni e processi. Presero in ostaggio il vicario vescovile Migliorati, un dott. Caponi ed i signori Giuseppe e Filippo [078] Morali (20); «né si può descrivere il rincrescimento ed i pianti di tutte le persone dabbene per la perdita dei suddetti signori». Né basta; da S. Miniato, ch'è quasi a metà strada tra Firenze e Livorno e tra Firenze e Siena, passavano di frequente soldati; ed il Diarista nota che si ponevano ad alloggiare pei conventi, e che sfondavano gli usci delle cantine e dei refettori, mangiavano e dormivano a ufo, cacciando i frati dalle celle, e portandovi le proprie mogli. Il 19 maggio si piantò di nuovo e solennemente, alla presenza della magistratura municipale, di tutti gl'impiegati, di una banda militare e di una schiera di dragoni a cavallo, «l'albero scellerato detto da loro sacro». La cerimonia ebbe luogo sulla piazza del Seminario «adornata di setini e festoni di alloro», e costò al municipio più di 100 scudi «perché il comandante francese volle molti zecchini per aver fatto il discorso». Il nuovo vicario fu «un certo Carminiani del Piano di Pisa, giovane di gran talento e politica; ma giacobino perfettissimo». Si volevano feste ed applausi, ed alla povera gente si portava via il pane di bocca. Una volta accadde che, giunto l'ordine che dentro de ore si portassero viveri per 2000 soldati, che poi non si videro, «molti paesani che non trovarono il pane per le botteghe se ne dovettero andare a letto senza cena». Non è dunque a meravigliare che i volontari arruolati in S. Miniato trovassero varie scuse al momento della partenza, chiedendo aggiornamenti ed indugi «chi per gl'interessei di casa, chi per il padre, chi per la moglie... chi per andare a riscuotere denaro da un contadino». Il Buonfanti, che forse amava di farsi onore coi comandanti francesi, dové partire con soli tre di quei volontari per forza, ed anche di questi uno, vicino ad Empoli, si allontanò con una scusa, e tornò a casa, talché di 25 che dovevano andare a Firenze, ve ne arrivarono due, i quali, il giorno dopo, imitarono i compagni. Si ordinò pure la banda nazionale, ed anche il nostro Gagliardi vi fu ascritto.

[079] V.
Nel Diario abbiamo qui la lacuna già notata; passando dall'una all'altra mano il foglio andò perduto, né mi è stato possibile di ritrovarlo; non pare che vi si descrivessero orrori di reazionari, perché, a quanto mi è dato conoscere, in quel brevissimo perimetro cronologico, non ne abbiamo alcuna memoria, onde, fino a prova in contrario, amo credere, che la rivoluzione contadinesca, del 4 maggio sia stata l'unica in S. Miniato, che pare no imitasse le gazzarre abbominevoli, le selvaggie atrocità che funestarono Arezzo, Siena ed altri luoghi della Toscana. Il vescovo Fazzi ebbe forse in questo la sua parte di merito, e parte ve l'ebbe e molta il giusdicente, il quale, come vedremo, dispose a che la berlina non fosse occasione di stragi.
Atrocità non si commisero, ma non mancarono rappresaglie, scherno e crudeltà pei giacobini, de' quali sembra che i principali si fossero dati alla fuga. Nel giorno del Santo Patrono (S. Genesio, 25 agosto) di quell'anno terribile «si portarono col maggiore scorno per la città due fantocci che rappresentavano Giuseppe Buonfanti e Michele Vannini, al suono di violini e tamburi, ed in piazza di S. Domenico si abbruciarono fra gli scherni e le grida del molto radunato popolo. Si fece girare su di un carro trionfale l'arme del granduca, e si celebrò una processione col SS. Crocifisso, e con tutte le graterie e compagnie della città per le grazie ricevute»; vi furono discorsi, sonetti, grande illuminazione; «e le case del Sig. Carlo Gucci (già sede del club), del canonico Stefano, dell'Ansaldi e del can. Buonaparte potevano stare in Pisa la vigilia di S. Ranieri!». L'ospite di Napoleone che festeggia la ruina delle armi di Francia!
Si fecero parecchi imprigionamenti e bandi, coi quali s'imponeva «che nessuno temesse che il nemico tornasse ad infastidirci, essendo impossibile che la sua armata superasse quella dell'imperatore e de' suoi alleati; che se alcuno spargesse notizie in favore dei Francesi, fosse subito arrestato, sentenziato militarmente, eppoi impiccato».
Dalla Scala, fermata di posta, appié dell'altura di S. Miniato continuavano a passar soldati, ed in quei giorni erano i Russi che [080] richiamavano l'attenzione del nostro popolano. E sfido a non badarvi! Picchiavano di santa ragione i vetturali dai quali si facevano accompagnare per lunghi tratti di via, perché non riuscivano ad intenderli, talché mentre ordinavano una cosa, i poveri vetturali ne facevano un'altra. «I Russi non bevono punto vino, perché, se bevessero vino quanto copre un fondo di bicchiere, subito li fa ubriacare, che non conoscono né pure il loro comandante dal gran calore che li mette; il suo (sic) vitto è pane di semola e di biada della peggio che si trovj, il bere è acqua delle fosse; per minestra ogni 25 o 30, hanno due libbre d riso, che lo mettono in una caldana di quell'acquaccia a bollire un poco, eppoi un morso di pane, ed una romaiolata di quel brodo di riso senza punta carne. Lungo la strada i campi di rape che vi erano furono consumati dalla loro voracità; sbarbate che le hanno, le scuotono dalla terra, e così crude le manfiano, come se fossero pere preziose. Per dormire non si servono di paglia; ma dormono sulla nuda terra ancora che piova, come le bestie». Passano i Tedeschi, e chiedono barrocci; ma i barrocciai, sapendo di «esser picchiati forte» fuggirono tutti, «e i famigli del vicario non trovarono né vetturali, né proprietari che avessero barroccio». Il giorno dopo (era l'Ognissanti) tornarono i barrocciai; «ed il vicario fa loro sapere che facessero la solennità in casa; però il giorno dei morti dovessero andar tutti in segrete». Del resto bastava molto meno per compromettersi. Una signora, certa Prassede Gori-Bonfanti, di sera, da una finestra della propria abitazione confortò a voce alta i prigionieri che stavano nel noviziato di S. Domenico: «stessero allegri (le scappò detto); che i Francesi eran vicini». Fu subito catturata, di notte; ma, dopo otto o nove giorni fu liberata «con ordine venuto da Firenze». Era mutata bandiera, ma non sistema; e le requisizioni di lenzuola, coperte, letti erano continue; le fornivano i frati ed i possidenti.
Seguono le notizie delle condanne inflitte ai giacobini samminiatesi, alcune in contumacia, pronunziate dalla terribile Camera Nera del Cremani, sì dotto penalista sulla cattedra, sì iniquo nel tribunale. Trentotto furono in S. Miniato i processati, de' quali dieci vennero assolti, mentre per uno, il nobile Carlo Gucci, si dichiarò non esser luogo a procedere. Giuseppe e [081] Michele Buonfanti vennero condannati in contumacia ad un'ora di berlina, a tre anni di pubblici lavori ed all'esilio perpetuo; Michele Vannini, che fu preso, ad un'ora di gogna, a tre anni di Falcone a Volterra, all'esilio perpetuo ed al risarcimento dei danni dati al Comune; Giuseppe Marchionni alla gogna e a tre anni di pubblici lavori; Matteo Bianchini ad un anno di Falcone ed all'esilio perpetuo; Ascanio Franchi e Giuseppe Fiorini a tre anni di lavori pubblici ed all'esilio perpetuo; Dario Mercati e Leopoldo Bianchini a sei mesi di carcere e all'esilio perpetuo; Simone Cardi a tre anni di confine a Volterra. Zaccaria Brogi ebbe l'esilio a beneplacito dei magistrati; un Bulleri se mesi di esilio dal vicariato samminiatese; il dott. Girolamo Rimbotti 15 giorni di sequestro in casa. La punizione del canonico Stefani venne rimessa all'ordinario; e così pure quella del dott. Carlo Lottini, destituito dall'ufficio di maestro di belle lettere. Né vennero risparmiate le donne. La Prassede Buonfanti ebbe l'arresto in casa fino a nuovo ordine, e Maddalena Mercati due anni di reclusione nelle Malmaritate; ma era fuggita coi fratelli.
Brutto giorno per S. Miniato il 28 dicembre; vi fu l'orrida scena della gogna inflitta al Vannini e ad altri. «In questa mattina a ore 9 e fino a ore 10 sono stati messi alla berlina i soprannominati soggetti; il popolo che sapeva dal giorno avanti che sarebbero stati messi alla berlina fece gran folla; vi erano quattro squadre di birri; e non vi fu modo di potersi accostare. Furono messi a mezzo la scalinata del guardiolo, con una campanella al muro, e a questa legati; avevano il suo cartellone al petto, e dal vicario fu fatto il foglio e affissato; che non fossero molestati, che se non vi era quest'ordine, o non vi fossero stati tanti sbirri, non sarebbero tornati in prigione, perché i contadini li avrebbero ammazzati, e in questa loro penosissima ora furono tacciati delle più infami villanie, fischiate, battiture di mani, come il loro merito richiedeva... Perfino gli tirarono una paniera di castagnacci, e un contadino vidde che avevano la coccarda imperiale e toscana, disse che non erano degni di portare quel segno, e vedendo li sbirri che non potevano più contenere quella moltitudine, corse uno a levargli quelle coccarde. Il Vannini Michele non potendo stare più ritto, chiese una seggiola che gli fu portata, ma il [082] popolo cominciò a strepitare, e convenne levargliela, e stare ritto». Che ora di agonia pei poveri condannati!
I giacobini erano vinti, umiliati, oppressi; trionfava la buona causa; ma il danno e le vergogne duravano, ed aumentavano pur troppo. Lo stolto contadiname che imperversava intorno alla berlina, pativa la carestia. «A dì 16 di Gennaio sul mercato di Empoli fu venduto il grano di prima sorte L. 42 il sacco; il vecciato L. 27; il grano siciliano 26; le fave 32; la saggina dalle 16 alle 17 lire; e il pane valeva fino a 4 crazie la libbra (28 centesimi). Questo fu il ricordo che ci lasciarono i Francesi (esclamava il diarista), quando vennero in Toscana, perché non venendoci loro, non avrebbero avuto luogo di venirci le truppe imperiali; e il gran numero di soldati, e la raccolta scarsa ci portò a questo prezzo il vivere. Il magistrato elesse due per spianare il pane a conto della Comunità, e pensò di comprar grano a Livorno, decché i poveri braccianti si trovavano in grandi miserie». Poco li consolava certamente lo spettacolo di fraterie e compagnie che visitavano il Sacramento «esposto in cattedrale perché rendesse vittoriose le armate del nostro benefico imperatore Francesco II».
In Piazza del Seminario fu innalzata su di un piedistallo, a perpetua memoria, una ben adornata croce, dove era stato posto l'aborrito albero della libertà, l'odiosissimo emblema, dopo una processione solenne col vescovo, la compagnia della misericordia, i magistrati cittadini, e tutto il clero secolare e regolare. La piazza era parata con tappeti alle finestre, e vi era un altare e un pulpito per la predica (21). Nei reazionari è continua speranza ed ansietà di fauste notizie. Si vedono fuochi sui monti di Pistoia, verso Pisa e verso Lucca; si crede presa Genova, e si accendono subito anche in S. Miniato. Ben presto parve confermarsi la voce della capitolazione del Messena, talché il 6 giugno (1800) nella vasta e pittoresca campagna che si scorge da S. Miniato, nel Val [083] d'Arno di Sotto, bella Val di Nievole, «dovunque si volgevano gli occhi pareva un palazzo tutto illuminato». Indo solenne Te Deum perché, «si erano allontanati dalla Toscana questa setta d'iniquità e di ladri». Ma ecco il rovescio della medaglia. Sul più bello corre voce «che erano entrati i Francesi in Milano». Molti impauriscono; ed esclamano col nostro: «tornati i Francesi in Toscana guai a noi»! Poi venne la nuova ch'erano stati battuti, morti moltissimi, ed il resto serrati nel Milanese da non potere tornare indietro. I samminiatesi fedeli a Ferdinando III fidavano nel Conte Mari, «uomo dabbene». Speravano in lui, mentre, fra le altre, si ordinava al capitano della Piazza di S. Miniato, Prospero Badalassi, di fare scrivere nei suoi tre vicariati di S. Miniato, Empoli e Fucecchio 6 compagnie di soldati, 2 di cacciatori e 4 di semplici fantaccini «per tirare il confine della Toscana». Ma ecco un altro fulmine a ciel sereno. Cattiva nuova, nota il Diarista, si dice che il Generale Melas sia stato attaccato dal generale Buonaparte in tre punti, «e che ne abbia toccate: quanto prima si saprà di certo». Reca un po' di conforto sapere che il Buonaparte, ritrovatosi a Milano nel giorno del Corpus Domini, «fosse andato colla torcia a processione» e che strapazzò i giacobini, che avevano rizzato l'albero dov'era posta la «croce dei realisti. Anzi fece atterrare l'albero e rimettere la croce».
«Passarono dalla Scala 4 mila Tedeschi... che sono i primi dei 1000 ch'erano sotto Genova; sono sbandati e considerati come ribelli; perché, essendo sotto Genova, e gli conparve il nemico, e non fecero alcuna resistenza. Sono ignudi e ammalati, e dalla fame che avevano patito avevano mangiato perfino del cavallo, e tanto sudici che molti ne morirono, e sparati gli si trovarono ancora del cuoio in corpo». Ecco pel come si comunicavano le notizie in provincia. Siamo al 1 luglio: già da 15 giorni la vittoria di Marengo aveva coronato il Buonaparte di nuova gloria, e il nostro Diarista scriveva: «oggi sappiamo essere avvenuta una battaglia sanguinosa per tutte e due le parti tedesca e francese; lì 1° giorno il general Melas attaccò il general Bonaparte, e perse fra morti, prigionieri e feriti 15,000 tedeschi; il 2° giorno si riattacarono, e vi restarono 20 mila francesi, e poca quantità di tedeschi; il 3° giorno si [084] riattaccarono, e nessuno perse il suo posto; il nemoco era restato in maggior numero. Il generale Melas si sarebbe attaccato di nuovo colla poca armata che aveva; ma il general Buonaparte disse di cessare questa strage di uomini, e che credeva che già l'imperatore avesse sottoscritta la pace come avevano fatto in Campoformio». Il curioso si è che qui Napoleone è appunto quello che vuol cessare la strage guerresca, e che verso di lui, né ora, né dopo, il Diarista, sì arrabbiato coi giacobini, ha parole di biasimo, ma piuttosto di lode, tanto che sembra ch'ei non potendo avere il granduca, si adatti fin d'ora e volentieri al Generale. Del resto «in questi giorni, tempo di armistizio, seguì una gran babilonia di ciarle, che neppure potei pigliare tutti quei ricordi che sentivo, perché appena saputa qualche nuova, dopo pochi momenti non era più vera». Così possiamo spiegarci la strana versione della battaglia di Marengo, che non mi meraviglia punto, dacché pochi anni prima, nel 1796, perfino in Firenze, corse la voce stranissima che Napoleone fosse vinto, portato gravemente ferito nel palazzo dell'ambasciatore di Francia; e che quivi fosse morto, e sepolto nascostamente nel giardino! (22)
Dopo i poveri soldati imperiali sudici ed affamati passò dalla Scala una regina austriaca, la quale fuggiva anch'essa come loro. «Alli 11 Luglio, alle ore 8 di questa mattina, nota il Diarista solennemente, si seppe la nuova che alle 5 dopo pranzo sarebbe passata la regina di Napoli, che andava verso Firenze. Il popolo di S. Miniato scese alla strada maestra; i Fucecchiesi vennero con due bande... Dalle ore 5 ch'erano stati ordinati i cavalli, passò alle 10... lungo la strada maestra erano accesi grandi fuochi». Faceva un caldo insopportabile. Giunta alla Scala, quella maestà, (che descrive il Capponi per «una vecchiona di aspetto non bellamente maschile» (23)) cinque volte si affacciò alla carrozza, e riveriva; mentre «il popolo gridava evviva e batteva le mani. Nel tempo che facevano la muta dei cavalli, diede alla banda di Fucecchio sei rusponi, che formavano 35 scudi toscani, e ad una donna [085] della Scala, che le regalò un mazzetto di fiori, diede due rusponi. Le carrozze erano otto... mi è stato detto che aveva seco tutta la sua corte».
Il paese giubilava per l'imminente ritorno degli ostaggi, e per la pace; ed i giacobini erano sempre più in ribasso. Nel villaggio di Cigoli accadde anzi una scena comica in proposito. Un fervido giacobino, di nobile e antica famiglia, quel Simone Cardi, confinato già dalla Camera Nera per tre anni a Volterra, lo troviamo adesso nel luogo di origine de' suoi antenati, a tenere un discorso: «facendo conoscere che, sebbene si fosse dimostrato partitante francese, e andato a ballare intorno all'albero, e intervenuto ai festini patriottici, tutto avea fatto esternamente, e non internamente, e per non essere gastigato o mandato in esilio». Indi, finita così edificante parlata, «si mise in ginocchioni, baciò la croce e chiese perdono a tutti, e dichiarò di essere e di essere stato sempre fedele al suo principe». Comprava a tal prezzo l'impunità, come l'altro nobile, Carlo Gucci, quel dal club, era andato immune di pena forse per le valide protezioni, mentre il povero Vannini, colpevole solo di aver troppo credute le chiacchiere di quei giacobini da commedia, poco mancò non fosse accoppato alla gogna. Ma qual berlina era peggiore, quella del Bargello, o quella volontaria del nobile di Cigoli?
Di nuovo passano dalla Scala i Francesi (1801), e con loro nuovi tormenti e nuovi tormentati. Se i Russi e gli Austriaci picchiavano i vetturali, questi «vicino a Empoli ammazzano due contadini»; ma oramai l'anarchia è in via di cessare; una mano ferma e risoluta regola la disciplina; per questo omicidio vengono trattenuti in Empoli duemila soldati, in attesa di ordini da Firenze; indi ne vengono fucilati due, e legnati tre o quattro. «Non vi son fatti da prender memorie se non miseria; il grano di raccolta costa L. 35 e 36 il sacco; l'olio 140 lire la soma; non è vile che il vino, essendone stato in abbondanza; vale L. 11 e 12 la soma il ragionevole».
Passa il cadavere di Pio VI, «alle 9 del mattino. Nella notte era stato nella chiesa di S. Romano, nella quale avevano tirato il carrettone colla cassa, e quei frati con alcuni preti di Castelfranco di Sotto avevano cantata la messa in requiem». Il carro colla cassa «era tirato [086] da quattro cavalli e coperto di tele incerate; il seguito consisteva in due carrozze, ov'erano uno o due cardinali, un vescovo ed altri segretari con servitori, ed era scortato da 10 dragoni a cavallo». Infine, a dì 23 maggio del 1804, il Diarista può appuntare: «per lettere, gazzette e chiacchiere si dice assolutamente che il Buonaparte sarà re di Francia».

VI
D'ora innanzi il manoscritto che son venuto spigolando, diviene meno importante. In quell'epoca napoleonica di grandi battaglie, di regni creati o distrutti, di prefetti, di gendarmi, di soppressioni di conventi o di coscrizioni, l'autore poco forse si raccapezzava, eppoi dev'aver lasciato senz'altro e forse anche riposto il suo lavoro, senza più riprenderlo, o disgustatosene o distolto da altre cure. Le ultime pagine sono quasi appunti. Si nota la partenza della regina di Etruria «che è stata un atto di tragedia»; una festa celebrata in S. Miniato nel 1808, quando il padre Aglietti francescano «fece un discorso a onore e lode dell'immortale Buonaparte... e fu data una rappresentazione gratis al nuovo teatro». Ricorda che una commissione di cospicui cittadini andò a Firenze ad implorare «un sottoprefetto, la posta e la permanenza dei conventi, essendo S. Miniato una città povera», e che fu esaudita solo in parte la domanda; ma i conventi vennero o permutati o soppressi. E qui la enumerazione delle soppressioni e delle permute, simili a quelle che Napoleone faceva delle nazioni e degli stati. Segue una notizia che forse può interessare i frugatori di archivi e di biblioteche. Il 21 giugno 1808 «il governo ha mandato un prete ch'è pubblico lettore a Pisa, a vedere se nelle librerie di questi conventi vi fossero libri di qualche valore o importanza storica, come sarebbero descrizioni di guerre successe, memorie di monarchi, fatti di principi. Ha fatto lo spoglio, e messi in disparte quelli che ha creduto, ne ha mandati due barrocci al Prefetto».
Vengono per ultime le feste del 15 agosto «per l'onomastico del grande eroe, del magnanimo imperatore Buonaparte». Cominciate, al solito, col Te Deum, terminano col veglione al Teatro, e la visita del Prefetto di Livorno, dal quale S. Miniato, con strano sovvertimento delle condizioni [087] geografiche, delle tradizioni e delle storia, allora dipendeva. Il prefetto fece pagar cara la visita; celebrò in Cancelleria solennemente la triste cerimonia della coscrizione, e si portò via tredici giovinotti.
Al Diario segue una lunga poesia contro i giacobini, primo ed ultimo pensiero, e quasi l'incubo del Cronista. E' una specie d'imitazione e di parafrasi del Dies Irae, storpiato per la circostanza; di sopra ne riferimmo un piccolo saggio; eccone ora il principio e la fine:

Die illa (sic), dies illa
Giscobini vanno in villa
Nena, Assunta e la Sibilla.
Se ne van per l'aria scura,
Che son pieni di paura
Di trovarsi in sepoltura.
............
Gran bontà della natura,
Che la pera è già matura,
Or vi vedo in sepoltura.
Lacrimosa dies illa
Al sovrano il cuor ne brilla
Di mandarvi tutti in villa,
Dove diace la Sibilla.

Faccio grazia volentieri delle allusioni e delle invettive personali, dalle folgori né olimpiche né poetiche di questo anonimo vate da strapazzo, pago di segnalare come fra tanti fatti, persone, sentimenti e circostanze ricordate o rivissute in queste pagine, la repugnanza, l'aborrimento contro i giacobini prevale e campeggia sempre dal principio sino alla fine, vivace ed irrefrenabile.
Firenze
Giuseppe Rondoni




NOTE
(01) Cosenza, Aprea editore, 1891. [Nota 01, p. 64]
(02) Nuova Antologia, 16 genn. 1892. [Nota 02, p. 64]
(03) Mi venne fatta conoscere dall'egregio sig. Antonio Vensi di S. Miniato, indefesso raccoglitore di memorie paesane, il quale ne trasse anche una copia, e mi fornì utili schiarimenti, talché ora gli debbo pubbliche grazie. [Nota 03, p. 64]
(04) Lo Zobi (Storia civile della Tosc. to. II) limitava infatti ai centri principali il racconto; il Brigidi (Giacobini e Realisti o il Viva Maria, Siena, 1882) dava notizia di qualche centro secondario; ma del senese e dell'aretino principalmente; il Lumini (op. cit.) illustra in special modo le vicende di Arezzo; il Masi (op. cit.) aggiunge notizie nuove su Livorno. Naturalmente A. Francetti nel suo importante lavoro Storia d'Italia dopo il 1789 non poteva indugiarsi sui particolari della reazione toscana. Anche il Cantù nelle Corrispondenze di Diplomatici della Repubblica e del Regno d'Italia, non offre particolari in proposito. [Nota 01, p. 65]
(05) V. Hugo, I Miserabili, III, 1. [Nota 02, p. 65]
(06) Da loro, ai quali rendo le debite grazie, e dal sig. Vensi ho attinto anzi queste notizie. [Nota 01, p. 66]
(07) Marmont, Memoires, to. 1, p. 194-195. [Nota 01, p. 67]
(08) Zobi, op. cit. III, p. 188. [Nota 02, p. 67]
(09) Directoire et Origines des Bonapartes, to. 1, p. 347-348 e 420. [Nota 03, p. 67]
(10) Storia Genealogica della Famiglia Bonaparte scritta da un Samminiatese, p. 91, Firenze, 1846. Era il nobile sig. Damiano Morali. Il canonico Filippo morì il 24 dicembre del 1799, istituendo eredi universali i poveri della sua parrocchia dei SS. Michele e Stefano, e quelli della parrocchia di S. Lucia a Calenzano. [Nota 4, p. 67]
(11) Zobi, Op. cit. III, p. 188. Protocollo delle Deliberaz. comunali, 28 luglio 1796; e 31 agosto dello stesso anno. Arch. del Com. di S. Miniato. [Nota 1, p. 68]
(12) St. genealogica sopra cit. Gerini, Memorie di Lunigiana, e Passerini, Le Armi dei Municipi Toscani illustrati, Firenze, 1864, p. 105; e Arch. Stor. It., Nuova Serie, to. III, P. II, e to. IV. P. I. V. anche to. X. P. I.. Replicò l'Anonimo con un'Appendice alla Storia genealogica, Firenze, G. Mariani, 1862. [Nota 2, p. 68]
(13) Il documento ov'è ricordato Guidoletto è una pergamena autentica che si conserva nella nobile casa Ansaldi di S. Miniato. Il prop. G. Conti, il quale si proponeva d'illustrare con documenti la storia genealogica dei Buonaparte, trascrisse due epigrafi mortuarie, ch'ei dice sussistevano nella cattedrale samminiatese: ecco la 1a: Jacobus de Bonapartibus a S. Miniate – Nobiliis miles atque Pretor – qui ibiit XV Maii MCCXCI – Hic jacet. La 2a, nell'Arch. del Capitolo, è la seguente: Sepulcrum vetus a majoribus de Bonapartibis – Suis heredibus relictum. A.D. MCCCXII. Il sepolcro fu restaurato nel 1709 dal proposto Francesco Buonaparte, che faceva apporre una nuova epigrafe, ed infine dal prop. G. Conti nel 1864, con sussidi ottenuti dallo imperatore Napoleone III (Da manoscritti del prop. G. Conti). La tomba è a piè del presbiterio, nel primo luogo di onore della cattedrale. Nel Libro dei Ribelli del Com. di S: Miniato, all'anno 1431, è un Lionardo di Antonio di Moccio Buonaparte (G. Conti, Storia del SS. Crocifisso. Appendice, p. 103). Inoltre nella Riforma degli Statuti di S. Miniato del 1494 è ricordato fra gli statutari Jacobus Baptista Vectoris Bonaparte, il quale fu pure fra quelli che compilarono i Capitoli del Mulino del Comune del 1498, e tra i riformatori del 1503 (Arch. di Stato di Firenze. Statuti di S. Miniato, n. 634); e fra le carte della Curia vescovile abbiamo una scritta di affitto di una casa fra le monache di S. Paolo a Pier Francesco Buonaparte, stipulata il dì 8 marzo 1587 (Filza di Atti contenziosi del 1593, n. 96); una lettera di Jacopo di Giovanni Buonaparte, del dì 12 luglio 1588, ed un atto di presentazione alla chiesa di Calenzano emesso dal sig. Giov. Batt. Buonaparte sotto il dì 16 Aprile 1766 (Atti, Filza del 1766, n. 8). Negli Statuti sopra citati i Buonaparte sono della parte Podiighisi, essendo allora la città divisa in due parti; proprio dove abitava il canonico Filippo. [Nota 1, p. 69]
(14) Un Gius. Buonaparte scriveva da Ajaccio (20 Aprile 1703) al canonico Carlo di S. Miniato: «derivar noi senza fallo dallo Stato del serenissimo Granduca... il ceppo è lo stesso, e noi procediamo dallo stesso fonte, come so per fama dai miei antenati». (Appendice alla Storia genealogica, p. 36). Carlo, padre di Napoleone, addottoratosi a Pisa, veniva alla laurea qualificato per nobile patrizio fiorentino, samminiatese e di Aiaccio (Appendice cit. p. 166). Vero è che Giuseppe nella supplica al Granduca del 1789, crede il suo ramo derivato da Sarzana; ma là trasferitosi dal fiorentino (Stor. gen., p. 90-92 e p. 171); e P. Vico, Genealogia storica, in fine. Del resto oggi il Lanfrey (Hist. de Napoleon, T. 1), ed il Taine, Origines de la France contemp., fanno samminiatesi i Buonaparte. [Nota 2, p. 69]
(15) Scritti editi e inediti, I, p. 20. [Nota 1, p. 70]
(16) Documenti raccolti dai signori A. Vensi e Giov. Turri. Deliberaz. del Municipio nell'Arch. Com. [Nota 1, p. 72]
(17) Anche in Empoli si tolsero gli stemmi degli antichi potestà, e il chiavistello ch'era appeso sulla porta del pretorio, e che in tradizione narrava essere stato dagli Empolesi rapito dalla ròcca di S. Miniato come trofeo di vittoria. Era il chiavistello cantato da Ippolito Neri nel suo poema La Presa di Samminiato. Ved. Lazzeri, Storia di Empoli, Empoli, 1873. [Nota 1, p. 74]
(18) E' una campagna boscosa nelle adiacenze di S. Miniato. [Nota 2, p. 74]
(19) Ho detto tutta la regione circostante, perché sino dal 4 maggio fatti consimili avvennero in Empoli, Fucecchio, S. Croce, Castelfranco, Pontedera, Lari, S. Gemignano, Pistoia e Prato. Si credevano prossimi i Tedeschi; ed in Empoli si fece una processione, e furono collocati di nuovo ai soliti posti le armi del Granduca, e il noto chiavistello. Ved. Lazzeri, Op. cit., p. 70 e segg., nonché il nostro Diariasta, il quale sembra attribuire il moto «ad una ciarla aparsa per la campagna dai contadini... per potere riavere i loro schioppi», sequestrati pochi giorni prima. [Nota 1, p. 75]
(20) Lo Zobi, che non parla affatto dei moti di S. miniato, enumerando gli ostaggi delle varie città toscane, omette fra quelli di S. Miniato un Morali (to. III, nota a p. 314) [Nota 1, p. 78]
(21) L'abbiamo a stampa, ed eccone il titolo: Sentimenti del prete Cristiano Baldacci Priore di Pino, Firenze 1880. E' un'invettiva contro i giacobini e le giacobine, alle quali rimprovera come inaudita sfacciataggine il vestire alla guigliottino. [Nota 1, p. 82]
(22) Zobi, Op. Cit., III, p. 198-199. [Nota 1, p. 84]
(23) Scritti, editi e inediti, I.