domenica 19 settembre 2010

IL MARMO BIANCO DI MARIA MADDALENA D'AUSTRIA

di Francesco Fiumalbi

[2° revisione - 23 marzo 2014]

Andando dal Convento di San Francesco verso Piazza Bonaparte, attraverso via Angiolo Del Bravo, ci troviamo, giusto a metà del percorso, all'innesto con via Rondoni, nel cosiddetto Canto di Sant'Andrea. Questo piccolo slargo, che prende il nome dall'omonima contrada cittadina, documentata già negli Statuti del 1337, colpisce per la presenza di due elementi molto particolari. Proprio sul muro dell’edificio d’angolo è collocato il crocifisso in ceramica, opera di Dilvo Lotti, posto a sostituirne uno più antico in legno, andato perduto durante l’ultimo conflitto bellico (1). Più in basso, a livello della strada, si trova una grande “blocco” di marmo bianco, ingrigito dalla polvere e dal tempo. Siamo di fronte ad un elemento enigmatico, anche se l’aria che vi si respira davanti stilla solennità.

Il “Canto di Sant’Andrea”
foto di Francesco Fiumalbi


Quasi in religioso silenzio, ci avviciniamo a questo manufatto dalle sembianze, a prima vista, incomprensibili. Dopo una prima analisi sommaria, l’occhio si sofferma su alcuni dettagli sopravvissuti: sebbene consunti, si notano ancora i panneggi finemente decorati della vecchia statua che fu.
Abbandonata in un fosso nella vallata di Pancole (2), raccolta e affidata al deposito del Comune di San Miniato, fu “ritrovata” da Dilvo Lotti (3), e riconosciuta come la statua dedicata a Maria Maddalena d’Austria, Arciduchessa d’Austria, nonché, Granduchessa Reggente di Toscana.
Si trattava della moglie di Cosimo II Granduca di Toscana, col quale si era sposata a Graz nel settembre del 1608. Morto prematuramente nel 1621, lo scettro di Cosimo II, passò alla madre Cristina di Lorena e alla moglie Maria Maddalena, alla quale lasciò anche il governo della terra di San Miniato e il suo Vicariato (4).


Statua di Maria Maddalena d’Austria
foto di Francesco Fiumalbi


Alta quasi due metri, la statua di Maria Maddalena d’Austria doveva essere un monumento davvero grandioso, per un piccolo centro quale era San Miniato nei primi anni del '600. Ad eccezione di Leopoldo II “Canapone”, non si hanno notizie di altre opere scultoree di simili proporzioni, sia per dimensione che per fattura. Questa persona doveva, quindi, aver rappresentato molto più di una semplice governante, così come erano stati i suoi predecessori.
Simone Alessandro dei Gatti, nelle sue Annotazioni (5) ci offre la descrizione della prima visita ufficiale di Maria Maddalena d’Austria, avvenuta nel 1622 (6), la quale era accompagnata dai figli Ferdinando, Giovanni Carlo, Francesco e Leopoldo. Fu accolta dai nobili e dal popolo, mentre il Gonfaloniere Anchise Seragoni proruppe in un commosso pianto, tradito dall’emozione, e non riuscì a pronunciare una parola del discorso che si era preparato per l’occasione. La regnante dimorò nel Palazzo Grifoni, dove si trattenne per due giorni, concedendo udienze, erogando sussidi in opere di beneficienza, e liberando carcerati (7).
Al di là di questo episodio, Maria Maddalena d’Austria è stata una figura chiave per le vicende sanminiatesi del XVII secolo, i cui effetti si protraggono fino ai giorni nostri.


Statua di Maria Maddalena d’Austria
foto di Francesco Fiumalbi

Maria Maddalena d’Austria contribuì in modo decisivo ad attribuire a San Miniato il titolo di Città, necessario per l’erezione della Diocesi. Il Papa Gregorio XV, in data 5 dicembre 1622, firmò il decreto che attribuiva l’ambita qualifica (8). Seguì, in data 11 marzo 1624 la nomina del primo vescovo.
In precedenza erano già stati fatti ben due tentativi non andati a buon fine: nella prima metà del ‘400 durante il pontificato di Alessandro V e nel 1587, sotto la spinta del Granduca Ferdinando I che aveva promosso un’iniziativa in questo senso presso il Papa Clemente VIII. Quest’ultimo episodio riguardava non solo San Miniato, ma anche Colle Val d’Elsa. Il Pontefice, messo alle strette, irrigidì la sua apertura iniziale e costrinse il Granduca a preferire uno dei due centri abitati. La scelta, è noto, cadde sulla città di Colle Val d’Elsa (9).

Particolare della statua di Maria Maddalena d’Austria,
foto di Francesco Fiumalbi

Le città di Colle Val d’Elsa e di San Miniato rappresentavano due nodi strategici all'interno della politica di rafforzamento del Granducato di Toscana, volto a far coincidere la giurisdizione politica con quella ecclesiastica.
San Miniato, pur essendo controllata direttamente dai Fiorentini a partire dal 1370, era ancora sotto la giurisdizione ecclesiastica lucchese (10). Frequenti erano le visite di dignitari lucchesi, e altrettanto assidui erano i viaggi da parte di canonici nella “Città delle 99 chiese”. Lo scambio culturale era, tanto per necessità quanto per opportunità, decisamente florido, sebbene affievolito a partire dalla dominazione fiorentina, e questo costituiva un fattore di indebolimento dell’autorità granducale.
Diversa era la situazione di Colle Val d’Elsa. Il vicino Ducato di Siena era stato assegnato nel 1555, per volontà dell’Imperatore Carlo V, al vicino Duca di Firenze, divenuto, con tanto di investitura papale, Granduca di Toscana. La città senese nutriva insoddisfazione per questo nuovo ruolo subalterno e maturava sentimenti di rivendicazione. Per questo motivo, la Città di Colle Val d’Elsa, avrebbe costituito un importante caposaldo per un maggiore controllo dei vicini territori annessi. A questo va aggiunto il riconoscimento per la fedeltà dimostrata a Firenze, fra il 1478 e il 1479, in occasione della cosiddetta “Guerra dei Pazzi” (11).

Il nuovo tentativo, promosso dalle reggenti Cristina di Lorena e Maria Maddalena d’Austria nel 1622, ebbe buon esito presso il Pontefice Gregorio XV, al termine di una copiosa attività diplomatica tra l’ambasciatore toscano Francesco Niccolini, il segretario per il Consiglio di Reggenza Andrea Cioli, il segretario del Consiglio Carlo Picchena, la stessa Arciduchessa e i cardinali Medici e Barberini (12). Di seguito è riportato un piccolo brano tratto dalla corrispondenza fra l’Arcivescovo di Firenze Alessandro Manzi Medici a Carlo Picchena (13):
“Oggi con l’occasione dell’Audienza Ordinaria ho ringraziato il signor Cardinale Ludovisi della grazia ottenuta per San Miniato. Sua Signorìa Illustrissima mi ha partecipato come l’agente di Lucca et un nipote del vescovo (Alessandro Guidiccioni, n.d.r.) gridono e sclamono e sono stati da N.S. e SS.Ill.ma quale mi dice haver risposto loro che comportino in patientia questo negozio, poiché egli medesimo s’è fatto ministro del Granduca in questa parte e come mezzano ha impetrata da N.S. la gratia per l’A.S. e che avendo ridotto il negozio a questi termini non può hora far di meno di non lo proseguire sino all’ultimo. Ho di nuovo ringraziato il Signor Cardinale della costanza sua in proteggere l’interesse di codesta Serenissima casa […]”

Cosa poteva aver indotto il Cardinale Ludovisi a sposare la causa Sanminiatese, contribuendo al buon esito della stessa?
E’ evidente, come già detto, che dietro a questo negoziato fossero celati importanti equilibri politici, tuttavia la “carta” decisiva che Maria Maddalena d’Austria pose sul tavolo delle trattative non fu di natura economica, come nel precedente tentativo del 1587, bensì squisitamente religiosa.

Palazzo Vescovile di San Miniato,
Foto di Francesco Fiumalbi

Gregorio XV, durante il suo pontificato, era assai impegnato nella riforma della Chiesa cattolica, secondo i risultati del Concilio di Trento. Le dame reggenti, fecero notare al Pontefice l’“infezione” luterana che affliggeva Lucca e la sua resistenza alla costituzione in città di una sede del Tribunale dell’Inquisizione, e della formazione della Compagnia di Gesù. Infine, l’elemento decisivo: la possibilità di sanare l’anomalia della cosiddetta “Episcopessa di Fucecchio”. Si trattava della badessa del Monastero delle Clarisse di Santa Maria della Selva, altrimenti noto come della Gattaiola, che, in virtù dei molti privilegi elargiti negli anni, era solita tenere un comportamento prossimo a quello proprio di un vescovo: usava il pastorale, il baldacchino, poteva concedere assoluzioni, stabiliva i confessori, esaminava i postulanti, poteva benedire chiese, altari e cimiteri (14). La situazione venutasi a creare nei secoli, dopo il Concilio di Trento, era divenuta decisamente inconciliabile con l’opera riformatrice pontificia.
Il Papa innalzò San Miniato al rango di Città e vi costituì l’ambita sede vescovile, che molto contribuì ad evitare lo scadere verso una posizione marginale e periferica della Città nei secoli XVII e XVIII.
I sanminiatesi dimostrarono la propria riconoscenza verso Maria Maddalena d’Austria erigendo in suo onore una statua in Piazza della Cittadella (l’attuale Piazza della Repubblica, meglio nota come Piazza del Seminario). Sappiamo che fu scolpita dal Susina (15), al secolo Antonio Susini, conosciuto anche come Antonio del Susina, morto a Firenze nel 1624 e collaboratore del Giambologna. La statua potrebbe essere scolpita fra il 1622 e il 1624. Il condizionale è d’obbligo in quanto non è da escludere l’intervento sull’opera da parte del nipote Giovanni Francesco Susini (Firenze, 1585-1646) e quindi la lavorazione potrebbe essersi protratta negli anni successivi. Così dice Filippo Baldinucci a proposito di Giovanni Francesco:
"Finalmente ha la Città di S. Miniato al Tedesco la statua di marmo dell'Arciduchessa Maria Maddalena d'Austria madre del Gran Duca Ferdinando Secondo, erettagli da quella terra in segno di gratitudine per aver essa Serenissima operato circa l'anno 1620 ch'ella fusse fatta Città; questa statua, però, per vero dire, riuscì cosa difettosa, e ordinarissima; e tanto basti di Francesco Susini" (16).
Non siamo a conoscenza di cerimonie inaugurali; sappiamo dal Vensi che la statua era stata effigiata con lo scettro nella mano destra e con la sinistra posata su un leone, emblema della città, sostenente con la zampa lo stemma mediceo (17). Dall'Ughelli, invece, conosciamo il testo dell'epigrafe collocata sul piedistallo (18):


Mariae Magdalenae Austriacae Magnae
Etruscorum Duci, quod augustae muni-
ficientiae instinctu hanc Jamdiu Minia-
tensem Rempublicam, & Regum Lon-
gobardorum, Praetorumque Imperia-
lium sedem conspicuam, etiam urbanae
nobilitatis honore illustrare voluerit,
grati cives cum nec melium, nec majus
redonare potuerint, ipsam ipsi sua in ef-
figie donaverunt. Anno Rep. Salutis
MDCXXIV

Statua di Maria Maddalena d’Austria, ipotesi ricostruttiva,
Disegno di Ilaria Cioni

La statua rimase al suo posto fino al 1799. In quell’anno nel giorno 3 aprile giunsero a San Miniato cinque ufficiali francesi, dopo che il 25 marzo ottomila soldati d’Oltralpe erano entrati a Firenze e il giorno seguente avevano detronizzato il Granduca Federico III. Nel giorno 4 aprile fu disposto dai suddetti ufficiali che venissero rimossi e distrutti tutte le effigi, stemmi e simili, sia quelli nei palazzi che quelli nelle chiese. “Inoltre nel suddetto giorno fu da Michele Vannini ed altri Giacobini sotto la Presidenza del cittadino Simone Cardi e Dario Mercati, atterrata e messa in pezzi la statua di marmo che stava in mezzo alla Piazza del Seminario, la quale la legarono per il collo con una grossa fune e la tirarono a terra con gran forza” (19).
Non sappiamo come furono fatte sparire le tracce del monumento. E’ probabile il tentativo di condurne i pezzi fuori città e abbandonati, alla stregua di un cadavere da occultare, in un fosso. Da qui il ritrovamento nel secondo dopoguerra. Sappiamo che al posto della statua fu collocato il cosiddetto “albero della Libertà” dai rivoluzionari, poi sostituito nel 1800, con solenne cerimonia, da una croce “adornata”. La memoria della regnante, impersonificata dalla statua, fu così commemorata (20).

Di Maria Maddalena d'Austria, rimane anche un quadro collocato all'ingresso del Palazzo Vescovile di San Miniato.
Si ringrazia Rita Costagli e Ilaria Cioni per aver il contributo nella realizzazione di questo articolo.


NOTE BIBLIOGRAFICHE:
(1) F. P. Il “pezzo di marmo” in Sant’Andrea, in Bollettino dell’Accademia degli Euteleti, n. 36, San Miniato, 1963.
(2) Questa notizia è emersa durante un colloquio col Sig. Del Bubba.
(3) F. P. Il “pezzo di marmo” in Sant’Andrea, in Bollettino dell’Accademia degli Euteleti, n. 36, San Miniato, 1963.
(4) Il brano è trascritto nel 3° volume delle memorie di Antonio Venzi e riportato in F. P. Il “pezzo di marmo” in Sant’Andrea, in Bollettino dell’Accademia degli Euteleti, n. 36, San Miniato, 1963.
“Per ragioni di legati lasciamo alla medesima Arciduchessa perdurante sua vita naturale come sopra e stanti ferme le altre soprascritte condizioni di eredità, nelli abitare nelli Stati con li figli, e di non ripetere le sue doti, l’Amministrazione e governo della nostra città di Colle e sua Podesteria, e la terra di San Miniato al Tedesco e suo Vicariato, con l’esercizio di ogni giurisdizione, civile, criminale e mista e mero imperio, con facoltà di deputare ministri, et uffiziali di giustizia, e di guerra come presente noi medesimi facciamo, potendo ridurre et eleggere a mano quelli dei predetti andassero tratti, e che a Lei si spetti l’elezione dei Capitani delle Bande di Poggibonsi, di Empoli, e tutto il comando, e cura dei quali Capitani sieno descritti di Colle e sua Podesteria e di Samminiato e suo Vicariato.”
(5) V. A. Gamucci, Simone Alessandro dei Gatti. Serenissime Annotazioni dell’antichissima città di San Miniato al Tedesco, in Bollettino dell’Accademia degli Euteleti, n. 35, San Miniato, 1962.
(6) In realtà vi sono notizie contrastanti, pare vi sia stata una visita nel 1623, per cui non è dato da sapersi se si tratta della medesima, oppure se Maria Maddalena d’Austria sia venuta due volte a San Miniato. La questione è stata sollevata in F. P. Il “pezzo di marmo” in Sant’Andrea, in Bollettino dell’Accademia degli Euteleti, n. 36, San Miniato, 1963.
(7) Notizia fornita da un altro cronista, G. Rondoni, Memorie storiche di San Miniato al Tedesco, pag. 192; 3° volume delle memorie di Antonio Venzi; riportato in F. P. Il “pezzo di marmo” in Sant’Andrea, in Bollettino dell’Accademia degli Euteleti, n. 36, San Miniato, 1963.
(8)  Simoncini, San Miniato e la sua Diocesi, I vescovi, le istituzioni e la sua gente, Cassa di Risparmio di San Miniato, 1989, pag. 31
(9) Ibidem, pag. 15
(10) Regoli Ivo, La fine del libero comune di San Miniato, in Bollettino dell’Accademia degli Euteleti, n. 58
(11) Cardini Franco, Storia Illustrata di San Miniato, Pacini Editore, Pisa, 2006, pag. 175-176.
(12) Ibidem, pag. 178. Il carteggio intercorso durante l’attività diplomatica è stato trascritto integralmente da Paolo Morelli, nella sua tesi di laurea “Chiesa, stato e società a San Miniato fra Cinque e Seicento”, relatore prof. E. Fasano Guarini, a.a. 1975-76.
(13) Gagliardi Isabella, Vescovi e Curia a San Miniato nel periodo granducale, in La Cattedrale di San Miniato, Cassa di Risparmio di San Miniato, 2004. Per il carteggio si veda la nota n. 15.
(14) P. Morelli Il territorio separato, in L’abbazia di San Salvatore di Fucecchio, Fucecchio, 1987, e citato in Cardini Franco, Op. Cit.
(15) Venzi Antonio, Memorie, notizia riportata in F. P. Il “pezzo di marmo” in Sant’Andrea, in Bollettino dell’Accademia degli Euteleti, n. 36, San Miniato, 1963.
(16) F. Baldinucci, Notizie de' professori del disegno da Cimabue in qua, Decennale I della parte III del secolo IV, dal MDLXXX al MDLXC, Milano, 1812, p. 477.
(17) Venzi Antonio, Memorie, notizia riportata in F. P. Il “pezzo di marmo” in Sant’Andrea, in Bollettino dell’Accademia degli Euteleti, n. 36, San Miniato, 1963.
(18) F. Ughelli, Italia Sacra sive de Episcopis Italiae, (2° Edizione) Venezia, 1718, Tomo III, col. 274.
(19) Venzi Antonio, Memorie, notizia riportata in F. P. Il “pezzo di marmo” in Sant’Andrea, in Bollettino dell’Accademia degli Euteleti, n. 36, San Miniato, 1963.
(20) Venzi Antonio, Memorie, notizia riportata in F. P. Il “pezzo di marmo” in Sant’Andrea, in Bollettino dell’Accademia degli Euteleti, n. 36, San Miniato, 1963.

lunedì 6 settembre 2010

La Fonte delle Fate (poesia)




Pubblichiamo la bellissima poesia che Alessio Guardini ha dedicato alla riscoperta delle Fonti alle Fate:


Giornate oziose dell'Estate
-al settembrin risveglio pronte-
giù dal mio colle mi portate
ver l'ampia piana ch'è di fronte
ma 'l selvo odor sacro alle Fate
rivela qui l'antica Fonte.
Qual favola mi raccontate?
D'antico amor... novo orizzonte!

domenica 5 settembre 2010

LE FONTI ALLE FATE - LA NOVELLA

di Francesco Fiumalbi
La storia, l'affetto e la curiosità, che legano le persone che abitano a San Miniato e dintorni, al luogo delle Fonti alle Fate, passano anche per questa semplice, quanto suggestiva, "novella" scritta dal Prof. Cornelio Rossi negli anni '50 e pubblicata nel Bollettino dell'Accademia degli Euteleti n. 28, del 1954.
Si tratta di un piccolo capolavoro che ha contribuito, come poche altre cose, a costruire il mito di questo luogo "magico". Del racconto esiste anche un'illustrazione poco conosciuta: un quadro, firmato dal pittore sanminiatese Sauro Mori, che viene proposto unito al brano integrale. Tale pittura ha il grande pregio di trasporre il testo in immagine, con quel sapore fanciullesco, fatato, che arricchisce la novella di quello spirito di ingenua meraviglia che, appena un po' più creciuti, siamo portati a nascondere.
Prima di passare alla novella, occorre porgere un ringraziamento particolare a Sauro Mori, che ha gentilmente messo a disposizione la sua opera. Una sentita riconoscenza va anche a Mario Caponi, membro dell'Accademia degli Euteleti e amico del Prof. Rossi, e a Luciano Marrucci per il contributo nella stesura di questo intervento.

 
LE FONTI ALLE FATE
In questa novella, scritta con l’aiuto di un antico cronista si racconta una curiosa leggenda che si innesta alla storia medioevale: non c’è obbligo di leggerla e tanto meno di crederci.
Quando la vallata dell’Arno inferiore era una regione squallida e paludosa e, come racconta Marziale, nutriva pochi schiavi vaganti di giorno per le campagne col suono delle loro catene, anche più su, verso Empoli, pochi e miseri villaggi di pastori languivano nella miseria di una servitù che stringeva il cuore.
Venne il Cristianesimo e allora, anche se non scomparve, molto diminuì la schiavitù di questa regione; i fedeli poterono liberamente riunirsi per udire la Messa e compiere gli altri uffici di pietà; sorsero in tutto il Valdarno numerose e piccole chiese dedicate ai primi martiri e ai primi santi e, attorno ad esse, abitazioni dove si cominciò a vivere con maggiore serenità e con minore miseria.
Il primo di questi borghi fu quello di San Genesio situato alle falde di una serie di colline che degradano fertili fra l’Arno e l’Elsa; esso divenne presto un piviere che sovrintese anche ad un altro piccolo borgo sorto più tardi sopra un’altra serie di colline che piene di verzura guardano liete e silenziose la valle dell’Arno; questo piccolo borgo ebbe il nome di Samminiato.
Scese Ottone I dalla Germania e procedè alla conquista di molti feudi; siccome prima di partire voleva lasciare nel cuore della Toscana un luogo forte che testimoniasse la potenza dell’Impero, munì Saminiato di torri e fortezze e sovrappose così un feudo imperiale ad un possesso ecclesiastico, riducendo San Genesio in una immeritata oscurità.
Nel castello di Saminiato indigeni e longobardi vissero in forzata amicizia predando e riducendo in soggezione i contadi vicini finché i guelfi fiorentini non si opposero a questa lenta invasione, e costrinsero i sanminiatesi in più ridotti confini; quando più tardi passò il Barbarossa, Sanminiato riebbe i castelli perduti ma dovette subire i vicari imperiali che si insediavano per rendere giustizia, a modo loro, agli antichi diritti.
Così nacque il comune di Sanminiato che ebbe una parte importante nella minuta storia medioevale perché provocò e fomentò tante piccole guerre, dove signorotti e contadini, ora amici, ora nemici, risolvevano le loro quistioni a colpi d’alabarda e a punta di coltello.

Sauro Mori, Le Fonti alle Fate, 1981, particolare

Vivevano entro il Castello di questo comune, insieme a tante altre che la storia ricorda, la famiglia dei Mangiadori e quella dei Pallaleoni entrambe di sangue germanico, che non riuscivano a trovar pace fra loro, perché ogni giorno o per colpa di un Mangiadori o per colpa di un Pallaleoni nascevano motivi di rivalità e di discordia. Quando i Pallaleoni più potenti, ricorsero ai diritti di giustizia, i Mangiadori ebbero la peggio e dovettero abbandonare Sanminiato per rifugiarsi come esuli nel vicino comune di Fucecchio (e di Montaione) nel tempo in cui l’ambizioso Castruccio si avviava verso una singolare ma pur troppo caduca grandezza. Il Castracani li ebbe certamente dalla sua nella guerra contro i fiorentini, perché, a quanto si legge nelle storie, sembra che fossero proprio i Mangiadori quelli che, quantunque forestieri, riuscirono con segrete intelligenze a farlo entrare in Fucecchio.
I terrazzani fucecchiesi avevano opposto inutilmente disperata difesa; i fuochi accesi sulla rocca, in richiesta di aiuto non valsero a salvare il castello. Castruccio ormai si insediava da signore, e con taglie e balzelli arruolava uomini e accumulava rifornimenti per continuare la guerra contro Firenze.
Intanto organizzava scorrerie anche nel territorio di Sanminiato e ne nascevano zuffe sanguinose, perché i Sanminiatesi intendevano difendere il loro contado.
Eravamo nel mese di agosto del 1320; a Castruccio mancava il grano perché la piena dell’Arno, allagando nell’inverno i campi del fucecchiese, aveva distrutto le semente; non c’era altro da fare che rifornirsi in quel di Sanminiato; troppo scomodo e lontano sarebbe stato provvedersi nel lucchese, anche se quel guelfo territorio avesse accondisceso alle sue richieste.
Una notte 50 armigeri furono messi da Castruccio agli ordini di un giovane della famiglia Mangiadori, già esperto nelle armi, e mandati in scorreria per i dintorni di Sanminiato. Grato fu l’incarico per il giovane guerriero che poteva così vendicarsi dell’oltraggio inflittogli con l’esilio. Verso la mezzanotte partì con la decisione in cuore più che di razziare del grano, di porre guasto e disordine a danno dei Pallaleoni e di passare con la spada chiunque gli si opponesse.
Poche acque e lente scorrevano in Arno e fu facile il passaggio all’altra riva; divisi i suoi in gruppi capitanati dai più arditi, attraverso la buia e silenziosa campagna, arrivò fin sotto il castello di Sanminiato senza incontrare ostacolo alcuno. Ma fatto che si fu ai piedi della collina, udì i rintocchi delle campane che dentro il castello di Sanminiato chiamavano a raccolta per l’iminente pericolo; già rumore di armati si sentiva anche nella valle che discendeva precipitosa al piano fra i due speroni di San Martino e della Pieve. Sostò allora per radunare gli sparsi soldati e mosse incontro ai difensori deciso alla strage.
Il cozzo avvenne e fu tremendo; grida di eccitamento e lamenti di feriti riempivano la valle; fra lo scompiglio e la confusione della lotta si colpivano tra loro, difensori e offensori.
Giancarlo Pallaleoni, disceso da Sanminiato alla testa dei suoi, nel buio della notte, menava colpi dovunque vedesse muovere persone; Alamanno Mangiadori lo riconobbe alla voce e mosse contro di lui deciso.
E si colpirono a vicenda finché entrambi, stremati a feriti, caddero al suolo avvinghiati in un amplesso mortale. E così rimasero; intanto la mischia si spostò e non molto tempo dopo le due schiere, prive dei loro capi, si dispersero. I soldati di Castruccio avevano già preso il largo verso la sponda dell’Arno, quando quelli di Pallaleoni, dopo aver cercato invano gli altri avversari, ritornavano al Castello.
I due capi mancavano. Ogni schiera credé che l’un fosse stato fatto prigioniero dall’altra schiera, e la triste notizia fu portata a Sanminiato e a Fucecchio.
I due avversari giacevano invece al suolo sanguinanti e senza forza né per offendersi né per aiutarsi; Giancarlo aveva una coscia trapassata dalla spada di Alamanno, Alamanno gemeva per una grave ferita al petto.


Sauro Mori, Le Fonti alle Fate, 1981, particolare

Venne la luce del giorno; nessun soccorso giungeva; Gian Carlo più fiero di Alamanno ebbe la forza di togliersi la spada dalla coscia e di cingersi con una benda la ferita dalla quale ormai non usciva più sangue; si sollevò e cercò di sollevare Alamanno che si abbandonava riverso e finito tra le sue braccia; lo trascinò su per la collina, ma per breve tratto, che le forze gli mancavano, e si diede a chiamare aiuto; lo tormentava una terribile sete provocata da tanto sangue perduto. E l’acqua non era lontana; sentiva il rumore di una piccola vena e l’impossibilità di raggiungerla gli dava spasimo ancora maggiore. Se nessuno si fosse accorto di loro, sarebbero morti prima di sera.
D’un tratto un rumore di gente che cercava gli arrivò all’orecchio; rinnovò allora i suoi richiami, e due fanciulle bionde entrambe belle come due angeli gli si avvicinarono.


Sauro Mori, Le Fonti alle Fate, 1981, particolare

- Oh! Fate benedette – esclamò in suo linguaggio – vi manda Iddio; aiutateci perché moriamo.
Erano quelle Aloisa e Matelda, due gemelle figlie di Ghio dei Portigiani che vivevano in un modesto abituro a metà della collina. Lo zio Antonio padre di quel Marcovaldo che per umiltà ed esempio di San Francesco rimase sempre diacono, alla morte di Ghio le aveva affidate fuor delle mura ad uno del suo contado, e quivi erano cresciute in serenità e in florida salute.


Sauro Mori, Le Fonti alle Fate, 1981, particolare

Aiutarono i feriti a sollevarsi e a trascinarsi lì presso alla fonte; poi facendo giumella somministrarono loro l’acqua salvatrice e presso loro rimasero finché non giunsero aiuti.
Giancarlo ed Alamanno si riconciliarono e, ritornati in florida salute, le trassero in spose; Giancarlo sposò Aloisa, Alamanno Matelda.
E da questi due matrimoni nacquero tanti figli. La cronaca narra che nove ne avesse Giancarlo da Aloisa e undici Alamanno da Matelda. Le famiglie dei Mangiadori e dei Pallaleoni divennero così le più potenti famiglie del comune.
Questi avvenimenti sulla bocca del popolo presero proporzioni leggendarie; le fonti, presso le quali i primi fatti si svolsero, furono allora in poi chiamate “Le Fonti alle Fate” e anche oggi portano quel nome.
Alle acque di queste fonti venivano a dissetarsi le spose che dopo il matrimonio non avevano figli; correva la voce che molte di queste spose dopo aver bevuto quell’acqua avessero avuto figlioli in quantità.


Sauro Mori, Le Fonti alle Fate, 1981, particolare

Si racconta di una sposa dei Ciccioni che dopo aver bevuto quest’acqua ebbe tre figli ad un sol parto.
E quando Sanminiato, volto in decadenza, passò ai fiorentini, essendo quella gente ancor più disposta alle credenze, maggiormente, si avvalorò il potere di quelle acque. Durante tutto l’anno e specialmente nella stagione estiva non passava giorno che qualche coppia di sposi, che non aveva ancora la consolazione della prole, venisse anche da lontane contrade a dissetarsi con l’acqua fresca e cristallina della “fonti alle fate”.
La piaga dei matrimoni senza figli aveva trovato in quelle fonti il suo farmaco risanatore.
Sei secoli e più sono ormai trascorsi da quei tempi nei quali Sanminiato, meta di Imperatori e possesso agognato di papi, scriveva la sua storia e forse la storia più interessante fra quelle dei comuni toscani. Ancora oggi vive la famosa sorgente; sotto due arcate vecchie e mezze dirute, coperte di muschi e di edera, zampillano ancora da due scaturigini con voce flebile ma argentina, fili di acqua frasca e leggera; all’intorno delle robuste acacie e dei prosperi cipressi procurano nell’estate un’ombra desiosa che ristora ed allieta.
Da quell’ombra godi la vallata dell’Arno che si stende ai tuoi piedi come una città continua; dove prima era silenzio e trama di guerra, ora suona il lavoro dell’artigiano e fumano, rivelatrici di vita, le lunghe ciminiere.
Verso le ore vespertine troveresti ancora presso le Fonti coppie di innamorati che nascosti fra le betulle nascenti si dicono tante cose. Ma le mamme non vogliono queste passeggiate augurali; le acque forse hanno aumentato la loro potenza taumaturgica, forse hanno perduto ogni scrupolo, perché con questa passeggiate potrebbero nascere qualche volta figli, senza matrimoni.

Prof. Cornelio Rossi


Sauro Mori, Le Fonti alle Fate, 1981

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