domenica 23 gennaio 2011

FONTI ALLE FATE E LA STREGA BARBUCCIA

di Francesco Fiumalbi

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Come abbiamo visto nei precedenti articoli, le Fonti alle Fate, luogo “magico” per definizione, hanno da sempre suggerito particolari stimoli per racconti e novelle all’interno della tradizione popolare sanminiatese. Una testimonianza di questo è rappresentata dal romanzo di Guido Pieragnoli “La Bruna di Poggighisi”. Si tratta di un racconto ambientato nel ‘500, nel periodo dell’assedio e conquista di San Miniato da parte degli Spagnoli di Carlo V.
Edito in San Miniato, dalla Tipografia Bongi nel 1886, narra le vicissitudini amorose e politiche che gravitano attorno alla giovane Bianca, la Bruna di Poggighisi, contesa fra il sanminiatese Messer Goro e lo spagnolo Capitano Ruiz. Storia, passione, giochi di potere e battaglie si intrecciano in un mix avvincente e ricco di colpi di scena. Il tutto all’interno della quinta scenografica rappresentata dalla Città di San Miniato.
Uno dei personaggi attorno al quale ruotano le vicende del romanzo è la Strega Barbuccia, una sorta di chiromante alla quale la popolazione si rivolge per conoscere il proprio destino. E quale luogo poteva ospitare la dimora di Barbuccia?

Di seguito vengono riportati alcuni brani che parlano della Strega Barbuccia e del posto dove si era insediata.

(…) In quel punto la campagna era orrida; la china del poggio scendeva giù a picco, sprofondando in un ampio burrone in mezzo a una piccola ma folta boscaglia di acacie, che intrecciava i loro tralci lunghi e flessuosi, formando come un tappo verde. (…)

Oltre la sua orridezza, quel luogo aveva anche una storia o, meglio, una leggenda paurosa, sicché ognuno ne rifuggiva, e nemmeno il cacciatore azzardavasi per quelle parti, quantunque sapesse che quegli sterpi e quei gruppetti d’acacie ponessero volentieri e numerose i loro nidi le lepri e i conigli selvatici.
Erano ormai diversi anni che le paurose fiabe di spiriti e di streghe avevano fatto abbandonare da tutti quei luoghi – vi si diceva che la notte vedevansi aggirare se quel precipizio mille fantasmi, vi si sentivano urli di pazzi, suoni strampalati e rauchi, rumori infernali, e a quando a quando vedevansi vagare in quella solitudine frotte di lumicini misteriosi.

La vegetazione nei pressi di Fonte alle Fate
Foto di Francesco Fiumalbi

Anche di giorno, si diceva, chi vi si avventurasse a passare in quelle vicinanze si sentiva come inseguito da un essere in grado ad internarsi nella boscaglia di acacie, ove una frotta di demoni, sotto le sembianze di fate affascinatrici, lo circondava, e, dopo avergli fatto apparire dinanzi, in mezzo a fasci di luce, tutte le bellezze e gli incanti del Paradiso, o lo uccidevano cibandosi poi delle sue carni, o lo cangiavano a bestia o in tronco d’albero!
Ed era voce comune in paese che quei pochi, i quali, o per spavalderia, o per altra ragione, eransi avventurati nel luogo maledetto, non erano più ritornati.
Queste idee superstiziose poi, queste generazioni, o degenerazioni, di una fantasia malata venivano anco rinvigorite dalle favole, dai romanzi e poemi che si scrivevano in quei tempi, che venivano letti da tutti e che il popolo cantava continuamente – (…).

Non è dunque da meravigliarsi se anche a San Miniato la superstizione aveva raggiunto un grado abbastanza elevato; e vi sono alcuni che vogliono appunto farsi forti del fatto di questa superstizione invadente e incombente, per avvalorare la favola – poiché quasi generalmente per favola sia ritenuta – che il paese sia stato preso dagli Spagnuoli sparpagliando per il poggio presso i bastioni delle capre con dei lumicini attaccati alle corna, perloché i difensori, credendo quelli fantasmi, presi dal terrore, fuggirono abbandonando la cittadella, che immediatamente fu presa.
Il luogo di cui sopra abbiamo parlato, e che ancora nel suo nome – Fonti delle Fate – ricorda superstizioni e paure, era, ai tempi in cui seguono i fatti da noi narrati, frequentato fuor dell’ordinario, e tutti, uomini e donne, giovani e vecchi, vi si avventuravano tenendo tutti la medesima direzione, come se mirassero ad una meta comune.
E – ciò che accresceva la stranezza della cosa – il concorso di gente aumentava specialmente sull’imbrunire, rimaneva sospeso per un’ora circa, poi riprendeva, a notte fatta in direzione contraria, verso il paese.
Tutti, però, procedevano silenziosi, senza guardarsi nemmeno, come se fossero penitenti reduci da un pellegrinaggio religioso. (…)

Il lettore avrà già capito di che si tratta; tutta quella gente torna dall’interrogare la strega Barbuccia (…).

Fonti alle Fate
Foto di Francesco Fiumalbi

Di dove fosse venuta questa strega, e chi fosse, a nessuno era mai riuscito di saperlo – certo è che in brevissimo tempo essa era riuscita a cattivarsi le simpatie della popolazione; e questo trionfo sollecito devesi forse in gran parte all’avere la scaltra strega cominciata la sua carriera in San Miniato con l’assicurare gli abitanti di esser riuscita coi suoi esorcismi a liberare dagli spiriti il famoso burrone.
Questa cosa bastò perché tutti accorressero – col fanatismo proprio delle popolazioni ignoranti e superstiziose – intorno alla vecchia per farsi dire il futuro, per aver contezza delle cose di quello e di quell’altro (poiché San Miniato è stato sempre San Miniato, e i fatti degli altri hanno sempre fatto gola a tutti) per guarire da una malattia, per avere acque e intingoli di ogni genere per l’amore, per l’odio, per la gelosia, per la vita e per la morte. (…)

Barbuccia era di una bruttezza straordinaria, quasi schifosa, ed al primo vedersela dinanzi si provava ribrezzo e spavento.
Doveva il suo nome ad un ciuffetto di peli folti ed insipidi che le copriva tutta la punta del mento aguzzo, ed ad una lanugine di un nero sbiadito che le si stendeva a guisa di baffi sul labbro superiore – aveva due occhietti piccoli e tondi, avvivati da un bagliore viperino, i quali quando ti fissavano ti facevano tremare fino nelle più intime fibre come sotto l’effetto di una ben nutrita scossa elettrica – i capelli, grigi di un grigio di cenere sporca, corti e ispidi, cadevano sulla fronte e giù per le spalle, arricciolati, ributtanti come i piccoli serpentelli della testa di Medusa – gli orecchi lunghi e schiacciati, il naso camuso, dalle larghe narici compresse e porose, che si perdeva quasi in mezzo alle due protuberanze acuminate degli zigomi, la pelle incartapecorita, aderente alle ossa, grinzosa, gialla come per itterizia, le mani lunghe, scarne, aguzze, il corpo rilasciato e un po’ curvo davano a quella donna un aspetto dei più stomachevoli.


Fonti alle Fate
Interno camera laterale destra
Foto di Francesco Fiumalbi
E ciò che la rendeva anche più schifosa era il sudiciume aggrumato sui suoi abiti laceri e sulle sue carni: chi avesse avuto buon naso o si fosse trovato vicino a Barbuccia, avrebbe potuto accorgersi come da quel corpo esalasse un profumo…. Che non era certamente di rose e gelsomini.
Oltre tutto poi, quella donna aveva d’intorno a sé qualche cosa di fosco e di lugubre; pareva che l’avvolgesse tutta una nebbia, una caligine piena di terrore: le sue carni erano abitualmente presso che ghiacce, e se per caso fosse giunta a toccarti, quel tocco ti faceva l’effetto medesimo del corpo ghiaccio di un serpente che ti avvinghiasse la mano.
Aveva un modo di ridere poi, che, piuttosto che un sorriso, ti sembrava una ferita schifosa che si aprisse, poiché le labbra sottili e cadenti si schiudevano dilatandosi, e scoprivano l’ampia bocca sdentata, rossa di un rosso sanguigno.
Barbuccia, da donna tetra e fosca qual era, aveva voluto porre la sua dimora nel luogo più orrido dei dintorni. In quella parte di campagna che abbiamo descritta, e che i Samminiatesi ritenevano da sì lungo tempo come un luogo maledetto; fu là che la strega fondò, per così dire, il suo palazzo, ove ogni giorno concorrevano a frotta i credenzoni, che lasciavano poi nel grembo della megera dei bravi baiocchi.
Quel palazzo era formato da due ampie grotte scavate nella roccia del poggio, l’una attigua all’altra, precisamente in quel punto ove attualmente si trovano le fonti.
Le acacie e i platani ricoprivano totalmente quel luogo tetro e misterioso dove non penetrava raggio di sole e donde non si scorgeva nemmeno un lembo di cielo.
Una porta di legno, grossa e tarlata, chiudeva l’ingresso della spelonca più grande, che comunicava con l’altra per mezzo di una apertura, che meglio si potrebbe chiamare un pertugio che una porta. (…)

Fonti alle Fate
La sorgente naturale
Foto di Francesco Fiumalbi

In quella stanza c’era di che incutere paura e ribrezzo.
Le pareti, affatto nude, stillavano umido da ogni parte; e negli angoli l’acqua che cadeva a gocce, tintinnando con un tintinnio uniforme e lugubre, aveva formato delle ampie venature nere, che in quella oscurità prendevano le apparenze di drappi funerei.
Di faccia alla porta d’entrata, sopra un tavolino logoro e tarlato ardeva una lampada a olio che mandava per tutta la grotta una luce rossiccia e tremolante, che accresceva terrore a quella specie di tomba; accanto al lume un teschio di morto, tutto sconquassato, ghignava sinistramente con le mascelle bianche e sconnesse e, sparse sul tavolino, una quantità di bacchette di varia lunghezza e di varii colori, bocce e fiaccole di ogni grandezza, filtri, vasetti, un arsenale insomma da farmacista.
In un angolo della grotta, accanto alla porta, ardeva un braciere con entro delle lunghe spranghe di ferro incrociate e, sorretto da queste, un grosso paiuolo in rame entro il quale bolliva gorgogliando una strana mistura.
L’atmosfera di quell’ambiente era assolutamente irrespirabile, pregna di vapori soffocanti e di esalazioni varie ed acute che mozzavano pesantemente il respiro; un fumo leggero, ma pungente, una specie di caligine, che penetrava nelle narici e nelle fauci fin quasi a soffocare, dava a quel luogo tutto l’aspetto del foro di una mina da poco tempo bruciata. (…)

Le pareti rocciose erano adornate solamente da schifosi corpi di rettili inchiodati a pancia all’aria e davano a quell’ambiente qualche cosa di originale e di nuovo, che usciva dal comune e al terrore naturale dava una nota di poesia strana. (…)

L’altra stanza era di aspetto men triste e men lugubre dell’altra – anche questa scavata nella roccia, umida e buia, ma spoglia delle cupe suppellettili che adornavano l’altra: l’ammobiliavano solamente un letto grandissimo, due sedie ed un piccolo tavolino; una lanterna ad olio, pendente dal soffitto, rischiarava di una luce soffocata l’ambiente. (…)

 Fonti alle Fate
Calcare sulla parete esterna
Foto di Francesco Fiumalbi


La strega Barbuccia non poteva che abitare proprio a Fonti alle Fate. Quale luogo così misterioso e, in un certo senso, così lontano, là nel bel mezzo di un boscoso e freddo versante collinare.
E’ incredibile la ricchezza dei dettagli che ci propone l’abile narratore. La minuzia delle sue parole ci fa correre col pensiero alle immagini odierne delle Fonti alle Fate. Le “grotte”, la vegetazione, l’umidità. Sembra che l’autore del romanzo vi sia stato da poco, tanto l’immagine odierna è similare a quella narrata .
Non siamo in grado di decifrare se il termine usato “grotta” rispecchi l’antico sentire sanminiatese o se sia stato creato ai fini del romanzo. Abbiamo visto, infatti, nell’articolo GEOGRAFIA DELLE FATE, come la struttura delle Fonti non sia stata scavata, ma sia stata costruita di fianco allo scosceso pendio collinare. E che dire della roccia che costituirebbe le pareti della grotta? Probabilmente il calcare ricopriva gran parte delle superfici interne, suggerendo proprio questa immagine.
L’autore parla di grotte nel numero di 2. Sempre nel sopracitato articolo vi ricorderete che in realtà gli ambienti dovrebbero essere 3, uno per ogni arcata. Di fatto però, la porzione sinistra, oggi, è tamponata, chiusa e non è stato possibile verificarne la cavità. Potrebbe darsi che lo fosse anche alla fine del XIX secolo, quando Pieragnoli scrive il suo racconto. Curioso, invece, che nel romanzo gli altri due ambienti, verosimilmente quello centrale e quello di destra siano comunicanti, attraverso un piccolo pertugio. Anche per questo particolare non possiamo stabilirne l’autenticità. Oggi le due “camere” non sono collegate, ma non è da escludersi che lo fossero in passato.
L’umidità che trasuda da tutte le superfici e quelle “venature nere”, in gergo tecnico “colaticci”, rispecchiano fedelmente la situazione odierna.
Colpisce davvero, infine, la descrizione del versante della collina. Potrebbe essere stato scritto nei nostri giorni. La boscaglia di acacie è davvero orrida come nella descrizione del romanzo, come un vero e proprio Lucus, il bosco sacro nelle credenze pagane, e che racchiude in sé l’affascinante mistero delle Fate e dalla loro Fonte.


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