sabato 29 ottobre 2011

LA CAPPELLINA SOTTO CASTIGLIONE

di Francesco Fiumalbi

La strada che da Piazza Santa Caterina conduce, attraverso l’antica porta di Giano, alla frazione di Calenzano è un percorso antico almeno quanto la stessa San Miniato. Questo fu il tracciato che utilizzò Francesco Ferrucci per liberare San Miniato dagli spagnoli di Carlo V nel 1529 e da sempre è la strada privilegiata per giungere dalla Valdelsa alla Città della Rocca. Sembrerebbe anche il percorso privilegiato, dopo la distruzione di San Genesio nel 1248, per coloro che intraprendevano i lunghi e faticosi viaggi lungo la via Francigena (1).
Appena fuori dal centro abitato, ai piedi della collina denominata Scacciapuce, al di sotto dell'antico insediamento di Castiglione (2), si trova la cosiddetta "Cappellina".

La "Cappellina"
Foto di Francesco Fiumalbi

Si tratta di una piccola costruzione in muratura, edificata alla fine del XVII secolo, probabilmente, attorno ad un tabernacolo precedente. Vi si accede attraverso una scalinata che, staccandosi dalla strada principale, conduce fino alla porta del piccolo edificio, la cui presenza è segnalata da un filare di cipressi ormai secolari. La costruzione, coperta da un modesto tetto a capanna, è costituita da due ambienti: la "cappellina" vera e propria e un locale di servizio situato sul retro che funge da piccola sagrestia.
Vi era anticamente una formella in cotto, probabilmente dipinta, raffigurante una Madonna della Cintola inserita all’interno di un piccolo tabernacolo ligneo. La costruzione della Cappellina avvenne nel 1695, su un terreno di proprietà pubblica, e fu portata a pieno compimento l’anno successivo (come ricorda anche la data segnata nella croce metallica, posizionata al termine dei lavori) (3).
Il 22 luglio 1695 fu consacrata con una solenne cerimonia iniziata nella Chiesa di Santa Caterina dove fu benedetta la pittura, probabilmente un olio su tavola, eseguita da Giovanni Battista di Leonardo di Zanobi Lurchini (lo stesso autore della pala raffigurante “L’Immacolata e Santi” per l’altare laterale destro del Santuario del SS. Crocifisso (4)).

La "Cappellina"
Foto di Francesco Fiumalbi

Tutte queste informazioni le possiamo trovare all’interno di un documento redatto da Antonio Vensi, tratto dalle sue Memorie per Servire alla Storia di San Miniato al Tedesco, 1874, vol. I, cc 437-438 e trascritto in Giolli Giorgio, Restauro e riattivazione al culto religioso di un edificio devozionale - 11 maggio 1980, in Bollettino dell'Accademia degli Euteleti, n. 57, 1990, pagg. 160-161.

DELLA FONDAZIONE DELLA CAPPELLINA POSTA SOTTO CASTIGLIONI PER ANDARE AI CAPPUCCINI

Fino da antico tempo, sotto un ciglione di certo poderetto dei PP. Eremitani di S. Agostino detto Castiglioni nella cura di S. Caterina V. e M., e precisamente all’imboccatura di una stradella che porta in luogo detto Valicondoli, era un tronco di albero foggiato a guisa di Cappellina, e costì un’immagine della SS Vergine effigiata in coccio in questo luogo, al certo posta per incitare il popolo alla devozione e alla venerazione di Maria SS. E per sicura scorta di quelli che passavano per andare al Convento dei RR. PP. Cappuccini.
Mossi da puro zelo di devozione, con la scorta di Alessandro di Santi di Bartolommeo Mazzei, 4 devoti e pii uomini Rosmindo Tommaso di Maestro Francesco di Paolo Sani, Giuseppe di Cammillo di Domenico Gonnellini, Lorenzo di Domenico Puccini e Vincenzo di Pietro di Vincenzo Bartolozzi, con Giuseppe di Domenico Attillati (che in seguito fu Religioso Converso o Servente della Congregazione di Lecceto e figlio di questo Convento della SS.ma Annunziata), benché nati di stirpe povera, ma di animo devoto e pio, ed incitati dalla devozione di Maria sempre Vergine, l’anno 1695 andaro(no) alla questua per erigere a maggior decoro di Maria SS. una Cappellina fabbricata di materiale. E tanto fecero che principiarono la fabbrica prossima alla strada ove era l’antico tronco e nel terreno di proprietà della Potesteria di S. Miniato; ed in breve fu terminata. Per l’elargizione dei devoti fu fatto fare da Giovanni Battista di Leonardo di Zanobi Lurchini di santa memoria, in tela, la figura di Maria Vergine con il Figlio tra le braccia, (la) quale tiene in mano la cintola rappresentando la Consolazione; ai piedi della medesima erano rappresentati due Angeli, che uno dei quali tiene parimenti la Santa cintola.
La mattina del 22 Luglio 1695, giorno di Domenica e festività di S. Maria Maddalena, dopo la prima Messa celebrata dal molto Reverendo P. Fra Giovanni Antonio Bassini, Curato della Parrocchiale si S. Caterina V. e M. fu benedetta la pittura del quadro suddetto e processionalmente, con cere e molto popolo con lumi accesi fu portato alla Cappellina cantando inni alla Vergine. E così giunti fu posto il quadro al suo largo e, cantando le Litanie Lauretane, fu con solennità aperta la Cappellina. E detto il “Maria Mater gratiae” se ne ritornarono, sempre processionando, alla Cura.
Nell’anno 1696, avendo fatto di questua altri quattrini, i medesimi pensarono fare un’aggiunta e su due pilastri posarono e si fermavano al cancello per adorare la Vergine. E piantarono nella sommità di detta tettoia la S. Croce posata sopra un Monte Calvario, con base riquadrato in pietra e vi fecero incidere queste parole: “EX ELEMOSINIS. A. D. MDCLXXXXVI”.
Tutti quanti di qui passano, si fermano ad adorare la Vergine, ed il Sabato si accende il lume. Questa descrizione è stata fatta non per illustrae un monumento patrio, ma per far conoscere che ancora i poveri volenterosi trovano il modo d’eternare la loro memoria in questo mondo ed ottenerne la giusta ricompensa nell’altro.
Monsignor Vescovo Andrea Cattani nell’anno 1730 concesse quaranta giorni di indulgenza, come inciso in una pietra esterna vedesi dalla seguente inscrizione: “QUARANTA GIORNI /DI INDULGENZA / A CHI RECITERA’ / TRE AVE MARIA / CONCESSA DALL’ILL:MO E REV:MO / MONS. ANDREA LUIGI CATTANI / L’ANNO MDCCXXX”.    

Epigrafe collocata presso la "Cappellina"
Foto di Francesco Fiumalbi

Sul finire degli anni ’70 la Cappellina versava in condizioni di completo abbandono. Nonostante le difficoltà economiche, un gruppo di volenterosi, assieme al Canonico Don Eugenio Bellaveglia, parroco di Santa Caterina, intraprese importanti lavori di restauro al fine di ripristinare la funzionalità dell’antico edificio sacro (5). I lavori durarono alcuni mesi e l’11 maggio 1980, ripetendo la stessa cerimonia del 1695, la Cappellina fu riattivata.
La mensa dell’altare fu sostituita con una nuova, donata da Maria Teresa e Medoro Pontanari; la cornice posta ad un metro da terra fu realizzata con pannelli di mezzane e dipinta dai bambini della Parrocchia, con rappresentati i simboli dell’Eucarestia; Duilio Zingoni fornì le mezzane in cotto; l’impianto elettrico fu donato da Giovanni Benvenuti, il cancello in ferro battuto fu offerto da Rita e Mario Sonetti; la campanella fu donata dalle Suore della Casa di Riposo (6). Da segnalare l’avanzamento della copertura a protezione del fronte principale e di quelli laterali.
L’opera fu portata a definitivo compimento nell’estate 1985, con la realizzazione della rampa di gradini di collegamento fra strada e il sagrato della Cappellina (7).

Epigrafe collocata presso la Cappellina
Foto di Francesco Fiumalbi

La nuova immagine sacra, eseguita dal pittore sanminiatese Giorgio Giolli, rappresenta la Madonna Addolorata, così come voluto dal Canonico Bellaveglia. Si tratta di un opera a tecnica mista su tavola di legno multistrato. La Vergine è rappresentata in posizione seduta e tiene nella mano destra la “Cappellina” a lei dedicata. La mano sinistra, invece, è posata sul seno, sul cuore, sul “vuoto del bene grande che Le è stato tolto, Gesù Cristo, il figlio, l’amore che nel dolore diventa accettazione e speranza” (8). Sullo sfondo si nota un paesaggio agreste, contraddistinto da geometrie sfumate, imperfette, concatenanti. E’, forse, l’animo della Madonna, che però volge alla serenità, al candore e alla perfezione geometrica della luna in alto a destra.


Giorgio Giolli, Madonna Addolorata, 1985 circa
Foto di Francesco Fiumalbi

Giorgio Giolli, Madonna Addolorata, 1985 circa
Foto di Francesco Fiumalbi


NOTE BIBLIOGRAFICHE
(1) Stopani Renato, Guida ai Percorsi della Via Francigena in Toscana, Le Lettere, 1995, pagg. 82-89.
(2) Piombanti Giuseppe, Guida della Città di San Miniato al Tedesco, Tipografia Ristori, San Miniato, 1894, pag. 126, in Matteoli Anna (a cura di), Guida storico-artistica di San Miniato, Bollettino dell'Accademia degli Euteleti, n. 44, 1975.
(3) Giolli Giorgio, Restauro e riattivazione al culto religioso di un edificio devozionale - 11 maggio 1980, in Bollettino dell'Accademia degli Euteleti, n. 57, 1990, pag. 154.
(4) Giolli, Op. Cit., pag. 161.
(5) Giolli, Op. Cit., pagg. 149-150.
(6) Giolli, Op. Cit., pagg. 152-157.
(7) Giolli, Op. Cit., pag. 158.
(8) Giolli, Op. Cit., pag. 155.


domenica 23 ottobre 2011

LA DIRUTA PIEVE DI BARBINAIA (prima parte) IL CONTESTO GEOGRAFICO

di Francesco Fiumalbi

La Pieve di Santa Maria e San Giovanni di Barbinaia era un’antichissima chiesa situata ai margini del Comune di San Miniato, di cui oggi rimane soltanto qualche porzione di muro. Una colossale struttura a tre navate, ridotta praticamente a niente. Le vicende relative a questa pieve sono inevitabilmente legate a quelle della vallata, e dei territori circostanti, in cui essa si trovava: la Valle del Torrente Chiecina.

Panorama dell’alta Val di Chiecina
nei pressi della diruta Pieve di Barbinaia
Foto di Francesco Fiumalbi

Non è assolutamente facile cercare di comprendere il ruolo della Val di Chiecina all’interno dei corridoi viari dall’epoca tardoantica fino al basso medioevo. Innanzitutto dobbiamo pensare che questo era un territorio di confine, controllato almeno dal VII secolo dalla città romana di “Luca”, l’odierna Lucca. E’ lecito supporre che le delimitazioni amministrative altomedioevali corrispondessero, abbastanza fedelmente, alle più antiche circoscrizioni romane, mantenendosi stabili almeno fino al XII secolo. Nonostante ciò, il medio Valdarno Inferiore sarà oggetto continuamente delle mire espansionistiche di Pisa da una parte e di Firenze dall’altra.
In questo contesto la Val di Chiecina doveva rappresentare un asse viario di collegamento fra il Valdarno e l’insediamento di Collegalli, ultimo baluardo lucchese prima dei territori controllati da Volterra. Il percorso, tuttavia, era molto più ampio: partendo da Lucca giungeva in Valdarno attraverso le colline boscose delle Cerbaie, e da qui attraversava l’Usciana (o “Arme”), arrivando nei pressi della Pieve di Sant’Ippolito di Aniano nella piana di Santa Maria a Monte fra l’Arno e l’Usciana (pieve che poi sarà trasferita in collina nel X secolo). Nei pressi doveva esserci un guado sull’Arno che conduceva all’imbocco della Val di Chiecina presso la Pieve di Musciano (alle pendici della collina di Marti MAPPAà). Nelle vicinanze del fiume doveva passare anche l’antica strada consolare, la Via Quinctia, costruita sulla riva sinistra del fiume (1). Dalla Pieve di Musciano era possibile giungere a Palaia (attraverso il percorso di crinale Musciano – Marti – Colleoli – Palaia), oppure seguire il corso del Torrente Chiecina, passare per la Pieve di Barbinaia e arrivare a Collegalli e da qui scendere verso l’alta Val d’Egola.


Questo percorso nei secoli VIII-XII doveva essere molto frequentato e la Pieve di Barbinaia, data anche la sua imponente dimensione, doveva essere un punto di riferimento molto importante, non soltanto a livello religioso, ma anche amministrativo. Inoltre, nei pressi della Pieve di Barbinaia doveva trovarsi anche un guado, o un piccolo ponte, sul Torrente Chiecina. Ciò avrebbe permesso di collegare la sponda sinistra, dove si trovava la pieve, con quegli insediamenti situati sul crinale opposto, vale a dire Agliati e Cumulo, un tempo nel Comune di San Miniato, oggi in quello di Palaia.

Mappa della Val di Chiecina
Disegno di Francesco Fiumalbi

La decadenza della Pieve, che avremo modo di seguire anche attraverso le fonti documentarie, avvenne per diverse ragioni. Il mutato quadro geopolitico con l’ascesa di San Miniato nel Medio Valdarno Inferiore e le continue scorribande pisane (forti di un privilegio rilasciato dall’Imperatore Federico I il 1 aprile del 1162 e che avrebbe consentito a Pisa di costituire un vero e proprio contado nell’entroterra (2)) contribuì senz’altro ad accentuare lo spostamento degli insediamenti principali dai fondovalle alle cime dei rilievi collinari. Questo fenomeno arrivò nell’alta Val di Chiecina con almeno due secoli di ritardo rispetto a quegli insediamenti situati in prossimità della valle dell’Arno, come successe, ad esempio, con la formazione del castello di Cigoli ai danni dell’abitato di Fabbrica (dove sussisteva l’antica Pieve di San Saturnino), oppure alla già citata Pieve di Sant’Ippolito di Aniano a favore di Santa Maria a Monte. Questo è spiegabile con lo scarso ruolo strategico che la Val di Chiecina doveva rivestire. Era un asse viario privo di sbocchi importanti e senza centri di rilievo nelle vicinanze. In parole povere era il confine di una terra di confine.


NOTE BIBLIOGRAFICHE:
(1) Morelli Paolo, Borgo San Genesio, la strada pisana e la via francigena, in Cantini Federico e Salvestrini Francesco (a cura di), Vico Wallari – San Genesio, Firenze University Press, Firenze, 2010, pagg. 128-129.
(2) Ceccarelli Lemut Maria Luisa, Giurisdizioni signorili ecclesiastiche e inquadramenti territoriali, in Malvolti Alberto e Pinto Giuliano (a cura di), Il Valdarno Inferiore terra di confine nel Medioevo (secoli XI-XV), pagg. 32-33.

sabato 15 ottobre 2011

L'ITALIA FUTURA DI AUGUSTO CONTI

di Alessio Guardini
Nell’anno in cui l’Italia celebre il 150° anniversario dell’Unità Nazionale, proponiamo questo interessantissimo documento, che ci testimonia lo spirito risorgimentale, con le sue aspirazioni e, perché no, anche con la sua retorica.

Immagine tratta da libro di Alfani Augusto,
Della vita e delle opere di Augusto Conti, Firenze, 1906.
(Immagine utilizzata ai sensi del ai sensi art. 25, Legge 22 aprile 1941 n. 633)


















“L’Italia futura” è un canto lirico scritto dal celebre filosofo e poeta sanminiatese Augusto Conti (1822-1905) nato nelle casa di famiglia a San Pietro alle Fonti, oggi "Villa Brogi" annessa alla cosiddetta Villa Contessa Marianna.
Di questo componimento ne esiste anche una copia stampata, tanto doveva essere stato l’apprezzamento ottenuto. Il documento che abbiamo rintracciato non riporta alcuna data, tuttavia, dalla lettura del testo, è facile intuirne il contesto storico. Siamo, con buona probabilità, nel 1849, ovvero alla fine della Prima Guerra d’Indipendenza Italiana.
Incitato dal forte sentimento di “liberazione dallo straniero” che animava gli italiani di quel glorioso periodo storico, Augusto Conti si arruolò insieme al fratello Leopoldo come volontario, partecipando attivamente alla battaglia di Curtatone e Montanara il 29 maggio 1848.
Dopo la prima campagna militare della guerra d’indipendenza, il Re di Sardegna Carlo Alberto, con l’armistizio di Salasco del 9 agosto 1848, concesse all’impero austriaco di rioccupare tutte le città del Lombardo-Veneto che gli si erano ribellate. Tuttavia la veneziana Repubblica di San Marco rifiutò di capitolare e continuò un’eroica resistenza agli austriaci per oltre un anno, fino alla definitiva resa avvenuta il 22 agosto del 1849. La vicenda dell’assedio di Venezia era molto sentita e corroborava il patriottismo italiano. Anche a San Miniato, a quanto pare, si formò una “Accademia di Benefizio”, solidale alla causa della città lagunare. Augusto Conti, allora ventisettenne, era rientrato a San Miniato alla fine del 1848. Nominato docente di Filosofia al Ginnasio divenne, in breve tempo, una stimata personalità nella nostra città.
La grande forza interiore scaturita dall’esperienza militare, ispirò la sua opera filosofica e letteraria, e il canto lirico “Italia futura” ne è un chiaro esempio.
A San Miniato, forse nei primi mesi 1849, ancora lungi dai fasti dell’impresa di Garibaldi, Augusto Conti ha presumibilmente composto questo canto lirico composto da diciotto ottave, stampato dalla Tipografia Ristori, la stessa che, nel 1856, stampò le “Rime” del suo “raccomandato” Carducci.

Di seguito, riportiamo il testo integrale.

Cesare Zocchi, Monumento di Augusto Conti
Firenze, Piazza Augusto Conti, 1916.
Foto di Francesco Fiumalbi


L’ITALIA FUTURA
CANTO LIRICO
Letto nel teatro di Samminiato per la occasione
di una accademia in benefizio di Venezia.

                                   1
Fra la tempesta degli umani eventi,
            Sento il raggio di Dio, che in cuor mi piove;
            L’aura sento, che i popoli frementi
            Spinge al conquisto delle terre nuove.
            Quest’ocean delle agitate genti
L’arcano vento del Signor commuove,
Che van bramose, come dardo al segno,
Con alto istinto di giustizia al regno.

                                   2
Cerca così de’ giovinetti ‘l cuore
            Due care ciglia, ed un pudico volto,
            Ove tutto il divin lume d’amore,
            Che in esso fulge, gli si mostri accolto.
            Artefice così con ansio ardore
            Il marmo tenta, finchè vegga scolto
            Lo splendido concetto della mente,
            Che l’innamora, e che lo fa potente.

                                   3
L’umanità, corsiero infaticato,
            Se in via si slancia con superba lena,
            E semina di sangue e di peccato
L’eccelso calle, che al gran segno mena,
Pur codesto gigante inebriato,
Quasi fanciul, di Dio la destra frena;
Lo regge inconsapevol nel sentiero,
E il disegno di Dio si compie intero.

                                   4
Non è già questo impeto di frale
            Speme, o deliro d’una stirpe rea;
            L’arcangelo caduto affretta l’ale
            A rilevarsi al trono, onde cadea.
            S’apron le tombe, ma dura immortale
            L’umanità dell’immortale idea,
            Ed in questa unità santa infinita
            Ben lieto il sacri vizio è della vita.

                                   5
E l’Italia si spinge all’alto intento;
            Non vuol gente che opprima, e gente oppressa.
            Iddio la sosterrà nel gran cimento,
            Benchè or gli sdegni, ohimè, volga in se stessa.
            A prezzo fia di pianto, e di sgomento
            La primiera concordia a lei concessa.
            D’un Sacerdote alla già nota voce,
            Più grati alfin, riprenderem la croce.

                                   6
E vincerem; colui, che ci conquide
            Non meni vanto alla sventura nostra;
            Degl’italici eroi l’austro non vide
            Le spalle in fuga, e fu tremenda giostra.
            Se l’Italia piange, il barbaro non ride.
            O valle di Custoza, o santa chiostra,
            Se in te molti cadeano itali figli,
            Volveano tutti al firmamento i cigli.

                                   7
Sui verdi colli fulminavan d’alto
            Gli austriaci cannoni. Incontro a morte
            De’ valorosi ausonj il cor fu smalto.
            Obliano i figli e la dolce consorte,
            E col moschetto volando all’assalto
            Disperato, parea che a lieta sorte
            Corressero, infelici! Oh! Maschia prole,
            E’ il nome tuo già consegnato al sole.

                                   8
Fra gl’itali castelli benedetto,
            O Goito, se’, che nella tua riviera
            De’ Sabaudi vedesti ‘l forte petto
            Rovesciar la divisa gialla e nera,
            Quando piantava alto di patria affetto
            Sul rotto ponte l’italia bandiera,
            O che dei Toschi la vendetta fece
            Spenti pugnando contro i cento i diece.

                                   9
Chi dispera d’Italia? Il forte Elleno
            Per sventure cessò la lunga guerra?
            Per molti anni di sangue il duro freno
            Doma baciò l’americana terra?
            Chi, chi dispera? A partorire il seno
            D’itala madre più non si disserra?
            Manca ogni gioventude, o tutta langue,
            Né più stilla abbiam noi d’antico sangue?

                                   10
Salve, adriaca città, tu che la speme
            Serbi indomata; al mondo sei prodigio.
            Oh! dei Romani veramente seme
            Il popol tuo, di Roma tu vestigio!
            Ed alla bella Lombardia, che geme
            Da tal svenata, che dal regno stigio
            Certo eruttò, l’arra tu se’ sicura,
            Che il vindice angel chiudi entro le mura.

                                   11
Ah! pria del mare t’inghiottisca l’onda,
            Che nel seggio de’ Dogi l’austro sieda.
            Ricorda, t’artigliò l’aquila immonda
            D’infame furto ahi! Quanto cara preda.
            Se a te si dee, che il Turco or sulla sponda
            Del Ticino e del Tevere non sieda,
            Questa mercede avesti! Ah! sì, il delitto
            Fu sempre, aquila esosa, il tuo diritto.

                                   12
Le belle gesta di colei ricorda!
            Se l’Unghero abbattè spesso l’altero
            Turbante d’Asia, essa il dilania ingorda;
            Se di Polonia liberò il guerriero (i)
            Lo nodo suo, non val sì, che non morda,
            Oh! cattolico inver, e sacro impero,
            L’opimo cibo, che con lei parteggia
            Frate Lutero, e dello Czar la reggia.
(i) Giovanni Sobrèscki 1683.

                                   13
Figlia di Roma, ahi! troppo è giogo infame
            Per te, che se’ tanto famosa e bella.
            Resisti… Ma querele ascolto grame
            D’un dolore, ch’è sopra ogni favella.
            Suonan da lungi, e in cor le sento: Ho fame,
            Arida mancherà la mia fiammella;
            Mendica io son; se ajuto a me non viene
            Ogni vigor mi muore entro le vene.

                                   14
E voi, fratelli, non sentite in cuore
            Queste misere voci? Ohime! chi langue?
            A chi sul capo stà tanto dolore?
            Un popol’è, sangue del nostro sangue.
            O donne, che un gentil spirto d’amore
            Chiudete in seno, parla a voi l’esangue
            Città delle Lagune, e non invano,
            Che tutte pia stendete a lei la mano.

                                   15
E grida a voi, che conoscete a prova
            Quanto il bisogno abbia crudele il morso;
            Del vostro pane un frusto darle giova,
            E del vostro bicchier porgerle un sorso.
            A voi pur grida, che l’inverno trova
            Di tepid’aere cinti, e vuol soccorso.
            S’ella è vinta per noi, se la spregiamo,
            Sì più Iloti una vil gente siamo.

                                   16
L’obolo or diam; daremo il sangue nostro
            Quel dì per lei, quando dal bel soggiorno
            D’Italia cacceremo il doppio rostro.
            Beati gli occhi, che vedran quel giorno!
            Itali, udite, udite; Iddio ci ha mostro,
            Che mal d’ira civil leva il corno:
            Deboli or siamo, e n’è il Lombardo oppresso;
            Sarem tremendi nel fraterno amplesso.

                                   17
Deh! facciamo un’Italia, e tal che sia
            Forte libera, qual Dio la destina…
            Ti veggo nell’accesa fantasia;
            Oh! quant’inclita sei, quanto divina!
            Il ciel ti piove immensa un’armonia,
            T’è serto l’alpe, e manto la marina;
            Di civiltà maestra ergi la voce,
            E all’orbe additi sul tuo sen la croce.

                                   18
Ritemprerai la libertà di fede;
            Che nel pensier di Dio tutto è fecondo
            D’amor possente, e stirpe che non crede
            E’ sciolto fascio, è scandalo del mondo.
            L’alta credenza, onde tu sei la sede,
            Di civiltà un pensier santo e fecondo
            Unisca Europa, e allor l’occidua gente
            Riporterà la luce all’oriente.

                                   ---
            Obra incerta coprio
                        Ogni italica speme;
                        Pur esulta, non geme,
                        Cantando, il verso mio.
                        Colui, che non assonna
                        Vegli l’Italia donna,
                        La regge inconsapevol nel sentiero,
                        E il disegno di Dio si compie intero


                                   AUGUSTO CONTI

San Miniato Stamperia Ristori


Cesare Zocchi, Monumento di Augusto Conti
Firenze, Piazza Augusto Conti, 1916.
Foto di Francesco Fiumalbi

Dopo le prime cinque ottave, dove lo slancio patriottico è invocato ed unito alla fede religiosa caratterizzante tutta l’opera del Conti, si arriva alla parte più ispirata di tutto il canto dove si inneggia contro il nemico austriaco, ricordando tuttavia gli scarsi risultati ottenuti con la prima campagna militare fino ad allora condotta:
E vincerem; colui, che ci conquide / Non meni vanto alla sventura nostra; / Degl’italici eroi l’austro non vide/ Le spalle in fuga, e fu tremenda giostra. / Se l’Italia piange, il barbaro non ride.
Rammenta poi le battaglie più significative di quella prima campagna militare: Custoza (22-27 luglio 1848), Goito (30 maggio 1848) e ancora quella che dei Toschi la vendetta fece / Spenti pugnando contro i cento i diece, ovvero la battaglia di Curtatone e Montanara dove i volontari italiani vennero sovrastati numericamente dall’esercito austriaco, forte anche degli oltre cento cannoni contri i soli 11 degli italiani.
I tanti interrogativi posti nella nona ottava indicano chiaramente la delusione del Conti verso quell’armistizio concesso dall’esitante Re Carlo Alberto che aveva così vanificato la grande ribellione alla dominazione straniera iniziata coi moti del ’48 e conclude infatti con un laconico Né più stilla abbiam noi d’antico sangue?
A questo punto entra in scena Venezia, adriaca città, tu che la speme / Serbi indomata; al mondo sei prodigio, che coltiva dentro sé lo spirito di vendetta verso quell’aquila (simbolo dell’Impero Austriaco) che la tiene sotto assedio.
Dopo aver rievocato, nella dodicesima ottava, la gloriosa storia della Serenissima Repubblica di Venezia, nell’ottava successiva il Conti la incita a lottare ancora, in virtù di quella gesta, perchè troppo è giogo infame / Per te, che se’ tanto famosa e bella. / Resisti…
Le disperate richieste di aiuto che seguono, le quali in cor le sento, il Conti le esprime in prima persona come fosse la voce dei veneziani inviata direttamente a quell’accademia sanminiatese accorsa per l’occasione nel teatro cittadino: se ajuto a me non viene / Ogni vigor mi muore entro le vene. / E voi, fratelli, non sentite in cuore / Queste misere voci? Ohime! chi langue? / A chi sul capo stà tanto dolore? / Un popol’è, sangue del nostro sangue.
Dopo aver esteso l’invito al più sensibile cuore delle donne, nella sedicesima ottava si arriva all’apice lirico del componimento. Augusto Conti, che più volte ricordò di come avrebbe volentieri dato la propria vita per questo ideale, esorta i lettori a fare altrettanto: L’obolo or diam; daremo il sangue nostro / Quel dì per lei, quando dal bel soggiorno / D’Italia cacceremo il doppio rostro, con riferimento al becco appuntito dell’aquila simbolo austriaco e, presagendo la vittoria finale, dice infine Sarem tremendi nel fraterno amplesso.
Il canto si conclude, così com’era iniziato, con la proclamazione della fede ispiratrice di così alti intenti, E il disegno di Dio si compie intero.

Immagine tratta da libro di Alfani Augusto,
Della vita e delle opere di Augusto Conti, Firenze, 1906.
(Immagine utilizzata ai sensi del ai sensi art. 25, Legge 22 aprile 1941 n. 633)