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domenica 30 novembre 2014
QUANDO L'EGOLA “DETTE DI FUORI” SUL SERIO! – Racconto di Giancarlo Pertici
di Giancarlo Pertici
È un rumore sordo, è un battere insistito di pugni sul portone nel silenzio assoluto della notte, poi colpi di fucile esplosi nelle vicinanze. Intontito dal sonno, a tasto cerco la radiosveglia. È spenta. L'abat-jour non funziona. Altri spari, questa volta in lontananza - "Già a caccia a quest'ora?" – Più un pensiero, che parole. La bocca impastata, gli occhi incollati che faticano ad aprirsi. – "Giancarloooo Giancarloooo" – Questa volta il risveglio è totale. La voce è quella di Pina. È la nostra vicina di casa da quando ci siamo trasferiti in quel minuscolo appartamento sul “Giuncheto” in Ponte a Egola, tra Bellarme e la Pesa Pubblica, appena due mesi fa. Non funziona nulla, manca la luce. Deve essere successo qualcosa di grave! Sono appena le due. Chiaro il messaggio che mi giunge a finestra aperta – "C'è la piena! Ha dato di fuori l'Egola, sono passati i carabinieri a dare l'allarme. Bisogna fare alla svelta e murare le tavole alle porte" – Scalini a due a due da quel primo piano dove c'è la camera, una pila d'emergenza in mano, e subito in strada per capire la situazione. Acqua gelida a mordere le caviglie, sta arrivando lentamente ma ha già inondato la via e ora avanza sul piazzale davanti casa.
– "Cosa dobbiamo fare?"
– "Ce
l'hai della calcina, cemento o gesso, qualsiasi cosa per fermare la
tavola alle porte?"
– "Qualcosa
mi deve essere avanzato in garage! Se riesco a trovarlo."
Abbiamo fortuna e, quasi alla cieca, arraffo un ballino di gesso. È quasi intero. Quel tanto che basta per mettere al sicuro casa mia e quella di Bellarme, appena in tempo, prima che l'acqua arrivi alla tavola, anche se continua a salire. Si ferma, quasi per miracolo, a pochi centimetri dal bordo della stessa. Alluvione archiviata senza danni: il nostro soggiorno appena preso a rate con la libreria piena di libri, i nostri libri. Un sospiro di sollievo in quel dicembre del 1977, e l'animo leggero tanto da pensare anche ad immortalare quei momenti con alcuni scatti della mia Zenith, modesta reflex russa.
Novembre
1993, un venerdì, se ben ricordo. Suddivisione rigida dei compiti
quella mattina, tra me e Graziella per assolvere alle incombenze non
rimandabili. Lei a preparare e portare Tiziana e Cristiano a Cigoli a
scuola. La Titti in seconda e Cri in quarta. Io d'urgenza in Questura
a Pisa per regolarizzare l'affidamento familiare di Alessandro, 12
anni, affidatoci con urgenza in quei giorni dai servizi sociali del
Comune. Mattinata iniziata all'insegna del maltempo con un cielo
plumbeo che ritarda l'arrivo del giorno. Lungo la superstrada,
diretto a Pisa, il cielo sembra schiarirsi, anche se continua a
piovere, ma meno intensamente. A Pisa pioviggina appena. Ma, nel
momento di posteggiare la macchina, volgendo lo sguardo verso
l'interno, verso Pontedera e oltre, lampi e sopratutto nubi radenti e
di un colore che sfiorano il nero assoluto, non lasciano presagire
nulla di buono. Quasi intimorito dal secco susseguirsi dei fulmini,
dal violento nubifragio che ci accoglie all'ingresso in superstrada e
ci accompagna per tutto il viaggio di ritorno, Alessandro,
raggomitolato su se stesso sul sedile posteriore, in preda ad un
attacco di panico, prima si sdraia e poi si assopisce. Con prudenza,
a velocità costante, l'auto sembra quasi galleggiare nei punti
invasi dall'acqua. Dai ciglioni laterali una fiumana d'acqua salta
letteralmente le fosse, fino a balzare nel mezzo della carreggiata.
Solo nervi saldi, prudenza, occhio e una dose di fortuna consentono
alla mia “Renault 12” di avanzare senza rischi. Viaggio comunque
da incubo fino a Ponte a Egola, combattuto tra la tentazione di
fermarmi e il desiderio di raggiungere casa.
Senso
di sollievo nel notare, giunti sul ponte, il livello dell'Egola al di
sotto del livello di guardia. Situazione che precipita visibilmente
nel giro di pochissimi minuti, quelli necessari a raggiungere Molino
d'Egola e casa. Alessandro è ancora assopito, quando incrociamo
Graziella che viene dalla scuola di Cigoli. Facciamo fatica a uscire
di paese. All'altezza di Alvaro il mugnaio, proveniente dalla vallata
sotto il camposanto di Cigoli, è un'autentica valanga d'acqua che,
con un balzo dal ciglione sovrastante, attraversa la strada. Passiamo
uno per volta, prima io e poi Graziella. Stessa manovra all'altezza
della località “Tognetti” in prossimità del podere di Zanardo.
Tutta la stretta vallata è un immenso rio che si riversa in Egola,
apparentemente ancora sotto il livello di guardia, e ha smesso di
piovere. Ma alla curva del bosco, l'Egola ha già invaso i campi
laterali. Dalla valle e dal rio di Pesante, è un fiume in piena che
aumenta di volume e di intensità, che non è possibile passare in
auto. Le lasciamo nel punto più alto, avviandoci a piedi verso casa,
forse 100 metri. Io con Alessandro per mano, Graziella con Tiziana in
collo, nell'acqua fino alle ginocchia. Cristiano già a casa.
Facciamo appena in tempo a cambiarci che riprende a piovere con
violenza. È già quasi il tocco. Un tuono spaventoso ci fa
sobbalzare mentre ci mettiamo a tavola, fulmine che distrugge parte
dell'impianto elettrico e scaraventa il telefono dalla parte opposta
della stanza; isolati e senza luce. Tutti bene anche se mancano
notizie di Driss che è fuori al lavoro, lui che abita da noi con
moglie e la piccola Hannah, nata da pochi mesi. Per verificare la
possibilità di passare con le auto ci avventuriamo, quasi alla
cieca, per la stradina di casa verso la via maestra. Desistiamo, è
tutto allagato. Dalla collina riusciamo a renderci conto di quanto
sta avvenendo.
La
vallata dell'Egola è un immenso lago, da noi fino da “Canuto”.
Riusciamo ad individuare solo la linea immaginaria del corso
dell'Egola, che sembra sovrastare di almeno un metro l'immenso “lago
circostante”. Sono cavalloni spumeggianti, dal colore livido di
terra, che rotolano violenti a trascinare e rompere tutto quello che
incontrano. Lugubre brontolio in quel silenzio irreale che avvolge
tutto, campi, case, vegetazione, uccelli. Da lassù l'immagine è
quella di una catastrofe che si sta abbattendo in paese e a Ponte a
Egola. Verso le 16, che è quasi buio, bagnato fradicio arriva Driss.
Si è fatto a piedi da Ponte a Egola, attraversando, immerso anche
fino alla vita, quel lago limoso e gelido. È alla stessa ora che si
sentono e si distinguono i primi elicotteri volteggiare sopra Ponte a
Egola: Carabinieri e Vigili del Fuoco. I primi soccorsi. A camino
acceso, l'unica luce possibile, andiamo a cena tutti assieme, come
programmato da tempo per la festa di "Eid el Kebir". Menù
a base di Kuss Kuss. Il giorno dopo, i primi aneddoti a stemperare la
tensione di fronte ai danni subiti sopratutto da famiglie e imprese.
Il racconto ripetuto in più versioni e a più voci di Daniele il
Cicalini, colto all'improvviso dalla piena lungo la via di Giuncheto
e salvatosi lasciando andare il motorino e afferrandosi a una
cancellata. Come quello di Paolo, idraulico in via Pannocchia,
dimenticato da tutti, appollaiato nel suo magazzino in vetta ad una
scaleo in attesa di soccorsi, raggiunto solo la sera dopo le otto da
una anfibio del vigili del fuoco. Nei giorni successivi anche
l'elettricista, il nostro, con il suo aneddoto da 1 milione e mezzo
di lire a riparare il danno.
Ponte a Egola, alluvione anno 1977
Foto di Giancarlo Pertici
Ponte a Egola, alluvione anno 1977
Foto di Giancarlo Pertici
Ponte a Egola, alluvione anno 1977
Foto di Giancarlo Pertici
giovedì 27 novembre 2014
LA DOMENICA MATTINA - Racconto di Giancarlo Pertici
di Giancarlo Pertici
↖ RACCONTI DALLO SCIOA
La
domenica mattina, quasi un rito in San Miniato, sul finire degli anni
50 e oltre
È
solo un'immagine sfuocata che mi riporta alla prima infanzia, alla
mia prima camera, a quei grappoli d'uva appesi ai travicelli del
soffitto che ogni mattina, al comparire del sole, mi appaiono ben
prima del volto sorridente di mia madre mentre allunga le mani per
alzarmi dalla culla, proprio accanto al lettone. È l'ora della prima
pappa. Ricordi fissati a inizio primavera del '48. Ricordi vivi!
Confermati anche dalla mamma.
Altra
immagine, quella di un domenica mattina di qualche anno dopo e di mia
mamma che mi alza dal lettino bastardo posto nella camerina buia.
Tinozza al centro della cucina, acqua fumante per il bagnetto,
saponetta profumata e borotalco, per finire avvolto in un asciugamano
caldo. Pronto per andare a messa, poi anche a giro, con nonno che è
li, tutto in ghingheri, che mi aspetta.
Prima
panca il nostro posto, messa delle 9. In rassegna ogni volta tutti
gli altari, una breve sosta ciascuno. Un segno di croce dopo esser
passato oltre quella panca arabescata, all'ingresso, in cantonata,
riservata alla casata Migliorati, signori e marchesi in San Miniato.
E lì accanto, in piedi, cappello in mano, quei contadini che non
hanno fatto in tempo alla “prima” delle messe. Le loro mogli, in
ginocchio sulla panca innanzi, rosario in mano, le solite vecchiette,
e la pezzuola in testa, a sgranare “marie” prima che suoni la
campanella. Ed io, sguardo intimorito, di fronte a quello scheletro
sotto l'altare maggiore, che a me pare disegnare ombre sinistre sul
rivestimento porpora della bara, mi seggo su quella prima panca
rassicurato da nonno, mani rinserrate nella mia. È la messa dei
bambini, quelli a catechismo, i più grandi a fare i chierichetti,
mentre io, istruito da nonno, ripeto a memoria strane formule in
latino.
All'Ite Missa Est i bambini sciamano rumorosi in piazza. I contadini calzano il cappello dopo averlo lisciato, e non prima di aver rimodellato la tesa e la bombatura; è quello della domenica. Le donne ripiegano il velo, le mani a controllare permanente o “messa in piega”. Nonno, che saluta a destra e a manca, si aggiusta anche il cappello, si scuote i pantaloni e controlla l'ora dalla “cipolla” dentro il taschino; mentre si avvia per “di là” insieme a me, mano nella mano. Botteghe chiuse. Gente per strada, chi va e chi viene. Nel vestito della festa è anche il popolo dei contadini. Nonno sembra conoscere tutti; un rito il salutare e il riconoscersi. Aperta la bottega di barbiere di Rino, affollato il Caffè Micheletti. Chi a farsi la barba, chi a farsi un bicchiere prima di ripartire per il giro in centro, per andare “di là” dove c'è lo struscio, quello di ogni domenica mattina. Quasi nessuno che resta nello Scioa. Qualche mamma a lavare rigaglie per farne salsa e “Gallina” e figli, attivisti convinti, ognuno in braccio un mazzo di giornali, a distribuire l'Unità assieme all'idea comunista.
È un brusio in crescendo, che penetra fino al Seminario e che attira verso una piazza oramai stracolma di una folla composita; commercianti, artisti e artigiani, mezzadri e proprietari terrieri, industriali, perdigiorno e fannulloni, operai e braccianti. La Piazza, quella di San Domenico, dopo l'uscita della messa. Folla che fa da tappo allo scorrere del popolo dello struscio. Chi dal Caffè Cecconi verso Piazzetta del Fondo fino al Piazzale, o chi, nell'altro verso, dai Loggiati di San Domenico fino a Piazza Grifoni e alla Nunziatina. Popolo ciarliero e chiacchierone, intento a trattare l'ultimo affare, ma soprattutto ad attaccar bottone pur di far mezzogiorno, e che ingrossa le sue fila, iniziando dalle “dieci”, fino appena dopo mezzogiorno. In compagnia di nonno, ma non sempre, riesco a sfondare fino al Bar del Corri per il gelato, per poi ritornare al Piazzale, in tempo per la partita di Pallacanestro della “Etrusca” squadra cittadina, su quel campetto in cemento e asfalto.
È
al suono della campana di mezzogiorno che inizia il viaggio a ritroso
che va a sfoltire velocemente quel tappo che rendeva quasi invisibile
la farmacia Cheli, la vetrina di “Viva Gesù”, l'edicola
“Catarcioni”, i cartelloni del Cinema Italia. È quello l'ultimo
nostro giro, giusto per salutare mio zio barbiere in piazza, per
leggere le ultime notizie del “Telegrafo” e de “La Nazione” e
per controllare che Film c'è oggi in programma “Sotto i Chiostri”.
Percorso
quasi in apnea, quest'ultimo, davanti al Seminario, al Comune e alle
Scuole, per respirare liberi, da lì in poi, a pieni polmoni, i
profumi intensi del dì di festa. Profumi che sanno di crostini
fegatini e capperi, di salsa di rigaglie, di coniglio e pollo arrosto
con patate, che a tegliate escono dai forni di Nello e del Peroni ad
incensare le vie. L'ora è la stessa per tutti, appena dopo
mezzogiorno e prima del tocco. Poi silenzio improvviso, strade
deserte, solo un tintinnare di posate e bicchieri a suggerire dove si
sia rifugiato all'improvviso quel popolo ciarliero e chiacchierone di
appena un'ora prima.
Foto di Francesco Fiumalbi
lunedì 24 novembre 2014
[VIDEO] LANFRANCO BENVENUTI – CONVEGNO A 25 ANNI DALLA SCOMPARSA
a
cura di Francesco Fiumalbi
Nel
pomeriggio di venerdì 21 novembre 2014, presso Palazzo Grifoni, si è
tenuto il convegno dedicato alla memoria dell'architetto sanminiatese
Lanfranco Benvenuti a 25 anni dalla sua scomparsa. Ad organizzarlo
l'Associazione Architettura e Territorio “Lanfranco Benvenuti”,
in collaborazione con l'Ordine degli Architetti della Provincia di
Pisa.
Di
seguito il video integrale dell'iniziativa:
La
scaletta degli interventi:
–
Introduzione
e saluto dell'arch. Sandro Saccuti, Presidente dell'Associazione
Architettura e Territorio “Lanfranco Benvenuti”.
– Saluto
di Simone Giglioli, Presidente del Consiglio Comunale di San Miniato
– Saluto
dell'arch. Massimo Fornaciari (Consigliere Ordine Architetti Pisa)
– Il
Video-documentario realizzato da Andrea Mancini sulle opere di
Lanfranco Benvenuti
– Il
Fondo Benvenuti presso l'Archivio Storico del Comune di San Miniato.
Ne hanno parlato Massimo Gabrielli (Resp. Biblioteche e Archivi del
Comune di San Miniato), Maria Rosa Simonetti (Coop. Itinere, Archivio
di Deposito del Comune di San Miniato) e Gianmarco Panicacci
(Studente Corso di Laurea Urbanistica presso Univ. degli Studi
Firenze)
– Il
ricordo dei primi anni professionali di Lanfranco Benvenuti, in Libia
e in Provincia di Grosseto, da parte dell'arch. Luigi Rafanelli
– Una
parentesi sull'architettura toscana del '900 con il Prof. Fabio
Capanni (Univ. degli Studi Firenze)
– Un
riferimento alla figura dell'architetto statunitense Luis Kahn con la
Prof. Maria Bonaiti (IUAV – Venezia)
– Il
ricordo dell'arch. Ignazio Tristaino, collaboratore di Lanfranco
Benvenuti
– La
memoria di Lanfranco Benvenuti e l'attualità della sua opera con
l'arch. Paolo Posarelli (Ldaimda)
–
L'impianto
di risalita del parcheggio della Valle di Cencione a San Miniato,
memoria da parte dell'arch. Paolo Lattaioli
– Saluti
conclusivi Sandro Saccuti
domenica 23 novembre 2014
CIONCE - Racconto di Giancarlo Pertici
di Giancarlo Pertici
↖ TUTTI I RACCONTI DI GIANCARLO PERTICI
↖ RACCONTI DALLO SCIOA
AMEDEO GASPARRI, in arte CIONCE, il poeta del duro di menta.
Quel carretto dei Gelati, quella specie di triciclo, lo si sentiva arrivare anche da lontano. Si annunciava con un cigolio, che sembrava più un “lamento”. Tutto dipendeva dal carico che gravava sulle ruote anteriori e su quell'unico pernio su cui ruotava il cassone, che fungeva da manubrio, a rendere anche difficilmente manovrabile quel “carretto” a tre ruote. Il suo procedere era sempre a passo d'uomo, il più delle volte a spinta, a superare salite e pendii di cui San Miniato era ed è fatta. E Cionce non si arrendeva mai, e mai si perdeva d'animo di fronte alle solite asperità. E quei “fegatini”, come lui chiamava i bambini, che gli davano una mano, una spinta in salita... lui li conosceva anche per nome o quasi. Se non se ne ricordava il nome sapeva spesso che era figlio di… o nipote di… – "Vieni fegatino! Quante volte anche il tuo zio Barnaghino, il più piccino dei Brucci, mi ha aiutato a spingere il carretto proprio in questa salita fino lassù al magazzino, in cima a Sant’Andrea, …già prima della guerra. E tu gli somigli, si vede che sei un Brucci! Forza spingi!" – Quante volte me lo ha detto Cionce! Gli piaceva ricordarmelo, e gioiva nel farne memoria.
↖ RACCONTI DALLO SCIOA
AMEDEO GASPARRI, in arte CIONCE, il poeta del duro di menta.
Quel carretto dei Gelati, quella specie di triciclo, lo si sentiva arrivare anche da lontano. Si annunciava con un cigolio, che sembrava più un “lamento”. Tutto dipendeva dal carico che gravava sulle ruote anteriori e su quell'unico pernio su cui ruotava il cassone, che fungeva da manubrio, a rendere anche difficilmente manovrabile quel “carretto” a tre ruote. Il suo procedere era sempre a passo d'uomo, il più delle volte a spinta, a superare salite e pendii di cui San Miniato era ed è fatta. E Cionce non si arrendeva mai, e mai si perdeva d'animo di fronte alle solite asperità. E quei “fegatini”, come lui chiamava i bambini, che gli davano una mano, una spinta in salita... lui li conosceva anche per nome o quasi. Se non se ne ricordava il nome sapeva spesso che era figlio di… o nipote di… – "Vieni fegatino! Quante volte anche il tuo zio Barnaghino, il più piccino dei Brucci, mi ha aiutato a spingere il carretto proprio in questa salita fino lassù al magazzino, in cima a Sant’Andrea, …già prima della guerra. E tu gli somigli, si vede che sei un Brucci! Forza spingi!" – Quante volte me lo ha detto Cionce! Gli piaceva ricordarmelo, e gioiva nel farne memoria.
E
lassù davanti a quel magazzino, se ci passavi la sera, ora del
croccante e del duro di menta, l'avvertivi nell'aria, quando
fragranza dolce e tiepida, quando odore pungente, il laboratorio di
Cionce, a farti soffermare, anche solo un attimo, quasi ad assaporare
gratis, appena raffreddato il croccante, o il “Duro di menta”.
Per quei bambini di Sant'Andrea, immancabile l'assaggio gratis. Noi
bambini di Santa Caterina invece, lo si aspettava in piazza con un
occhio rivolto verso Pancole per vederlo arrivare, ogni pomeriggio
verso le quattro. Talvolta percorrevamo a tappe quel breve tragitto
iniziando da Piazza de' Polli. Lo si vedeva sostare davanti al
Ricovero, confabulare con qualche vecchietto, una o due monache,
attorno al carretto, per qualche duro di menta, qualche liquirizia o
delle caramelle al rabarbaro, in inverno. In estate era sempre in
ritardo; Topolino e Paperino dipinti a colori sulla pannellatura del
carretto smaltato di bianco; limitata la scelta, o cono o
“schiacciola” il gelato. Questione di spesa!
Ma
non è questo l'unico ricordo che conservo di Cionce. Uno dei primi
va a quella mattina di ottobre di tanti anni fa. Primi anni '50,
comincia la scuola. Mattina presto e mia mamma che mi sveglia con
caffè nero e pane abbrustolito a colazione. Una passata al viso, una
sgromata come dice lei, che sono ancora assonnato. Il sapone fin
dentro gli occhi. Una sciacquata da quella catinella posata lì su
quell'acquaio di pietra, l'unico di casa. E via verso la scuola.
Passando davanti alla Piazzetta di Santo Stefano, dove mi ritrovo
insieme a tanti, ma tanti bambini, anche più grandi di me. Tanti
quanti non ne avevo mai visti prima. E' come un nugolo che converge
nello stesso punto, quasi sull'uscio di scuola. Si muove ad ondate,
alza le mani, grida, spinge, fa il giro, ritorna. È un ricambio
turbinoso che a tratti lascia intravedere, là nel mezzo, prigioniero
sorridente, un Omone che mi sembra di conoscere. Tra i bambini anche
Anna, Antonietta, Rosaria, vicine di casa, anche loro a scuola per la
prima volta mentre suona una campanella: tono insistito, suono
prolungato. Come si alza in volo uno sciame d'api dall'alveare e uno
stormo di storni da una pianta di olivo ...quel nugolo assiepato, in
movimento, come onda anomala, sembra riunirsi, aggirare l'ostacolo ed
incanalarsi compatto nella stessa direzione, infilare l'uscio di
scuola, fino a far emergere, come dalla nebbia, all'improvviso… il
carretto di Cionce. Lui sorridente a badare i “resti” e in tempo
a darmi un panino con lo zibibbo. - "Tieni fegatino è caldo
caldo" – e sono già dentro anch'io.
È
il mio primo incontro con Cionce davanti alla scuola. Meraviglia!
Stupore! Io che credevo che il suo posto fosse là, in piazza
dell’Ospedale, a vendere gelati o duri di menta. Imparo a non
sorprendermi quando Cionce lo incontro anche al Cinema. Con mia
cugina Ginina mi soffermo sempre lì, al suo banco piazzato sotto i
chiostri, in attesa che Antonio, il padrone, venga ad aprire il
Cinema. Facciamo il conto dei soldi. Cinquanta lire per l’ingresso,
il resto in liquirizia, caramelle, duri di menta. Calcoli a volte
difficili per i quali Cionce ci viene spesso incontro - "Vieni
fegatino fammi vedere quanto c'hai!" – C’è quasi sempre una
caramella in più ed è gratis. Tra il primo e secondo tempo,
cassetta appesa al collo, con dentro un po’ di tutto, lo senti
Cionce. È quasi un proclama, colonna sonora comune a tante
generazioni, quando si annuncia - "Duridimentaaa Croccanti
allamandorlaaa" – a proferire semi, liquirizie, “cingomme”,
caramelle, noccioline. La voce impostata, toni alti, nota tenuta e
prolungata, come ritornello di una canzone di quei tempi. Appena
grandicello da andare a scuola da solo e anche fin “di là” al
Cinema, imparo a riconoscerlo ovunque per strada. Sul Piazzale quando
inizia la Fiera. Per la festa della Divina Pastora, processione
compresa. In estate a fare granite durante le feste patronali e la
mattina, ad attendere l'uscita delle messe, quale servizio di
ristoro, quando per fare la comunione bisognava essere digiuni dalla
sera avanti.
Presenza
costante la sua, che come tale resta ancor oggi nei ricordi di molti,
come in mia nonna Livia che me ne parla quale “Gigante Buono e
bianco come la panna” sempre da qualche parte in San Miniato.
Ricordi che si fanno modi di dire, se non addirittura proverbi, come
per bocca di quella mamma che davanti ai piedi in crescita del
figlio, e alla mancanza di soldi per ricomprargli le scarpe, esclama
– "Oh che c'hai i piedi di Cionce?" – Modi di dire che
testimoniano delle misure esagerate di mani, piedi e testa. E così
se lo ricorda anche Stefano, suo nipote, nei racconti dello stesso
nonno Amedeo, questo il suo nome di battesimo, il quale, quando fece
il militare non trovò né scarponi, né elmetto della sua misura.
Lui infatti le scarpe se le faceva fare su misura da un calzolaio
dell'Isola. Ma della stessa dimensione doveva essere anche il suo
cuore, sempre attento e sensibile verso i bambini, i più deboli. Non
riusciva a trovare parole di condanna o di critica per nessuno.
Riconosceva sempre a tutti la buona fede e il beneficio del dubbio.
Trovava il modo di giustificare chi magari gli faceva un torto, come
quando a scuola, la bidella, Elvezia cominciò a fargli sleale
concorrenza mettendosi a vendere panini. Un po' come Padre Pio –
"Devono mangiare pure loro!" – che trovava il modo di
giustificare anche coloro che si introducevano in chiesa a vendere
santini ed accendini. Diceva Bartali, il famoso corridore – "Le
Buone azioni si attaccano all'anima, non alla giacchetta" – E
Cionce evitava il clamore nelle sue azioni, salvo doverne rendere
testimonianza al nipotino Stefano, quinta elementare, il quale
chiedeva spiegazioni del suo agire. Perché Cionce ragionava a modo
suo, secondo una scala di valori comune a pochi, a pochissimi, a
quella schiera di persone speciali che sanno segnare un'epoca, sanno
tracciare una strada, preoccupato solo del “bene”, comunque lui
lo definisse.
Sicuramente non era il solo caso quello di quel bambino che ogni mattina si prendeva il panino ripieno dicendo – "Passa mamma." – Di fronte a suo nipote, non si preoccupava del panino, ma di questo bambino. – "Ti garantisco – diceva – che con tutto quel pane (era addirittura uno sfilatino intero) e quella mortadella, perché lo imbottisco bene, non patisce la fame" – mentre sottolineava che probabilmente quello sarebbe stato l'unico pasto decente della giornata. Cionce ben sapeva che la mamma non sarebbe mai passata a pagare: quattro figli da sfamare, il marito dentro e fuori di galera. Un po' il fermo-immagine del “Buon Samaritano” narrato nei Vangeli, nell'atto di farsi carico dell'uomo soccorso per strada, quando l'affida all'oste e si impegna per suo domani. Testimonianza al giovanissimo nipote, di una dolcezza struggente, frutto di compassione vera. Coerente e consapevole di questa “mamma sola”. Gesti quotidiani, di una normalità disarmante, carichi di un profondo senso della poesia. Non c'è da meravigliarsi quindi se la mattina al primo giro delle 6, a lasciare “semelli” e brioche porta a porta, lo vedi lasciare – ed è un omaggio – un panino con lo zibibbo, assieme alla cartella dimenticata da una bambina, davanti a scuola, accanto al suo carretto il giorno avanti. Ricordo che questa bambina, di nome Raffaella, serba in cuor suo ancor oggi, a distanza di tanti anni.
In
tutti i suoi giri, tra salite e discese, nonostante la mole e il suo
naturale peso a fare zavorra, non sempre il freno a pedale riusciva a
sortire l'effetto desiderato. Si raccontano ancor oggi i suoi
fuoristrada con qualche aneddoto curioso. Come di quella volta, e il
ricordo è di Pier Luigi Luti, che andando dal Piazzale verso il
“Riposo” a motore spento con la Lambretta, che aveva da poco
soppiantato il carretto a pedali, giunto appena sotto i “Frati”,
non riuscendo a fermarla manualmente, perché oramai aveva acquistato
troppa velocità, abbia esclamato – "Vuoi andare? E vai!"
– dando una spinta alla Lambretta, che finì nella scarpata
sottostante. Come di quella bambina di nome Paola, di otto o nove
anni, che si mise a piangere disperata alla notizia che Cionce aveva
perso il suo carretto in discesa e che ancor oggi ricorda con
profonda commozione.
Cionce non era solo un venditore atipico che aveva rifiutato di aprire Bottega davanti alle scuole. "Il mio lavoro è per le strade di San Miniato, non rinchiuso in una bottega" – confessa un giorno a suo nipote. Era anche un artigiano e un creativo, oserei dire un “Poeta del Duro di Menta e del Croccante” che produceva direttamente a modo suo, come pure il gelato. Secondo qualcuno per il gelato usava un secchio di legno a doppio fondo, secondo il ricordo di altri il secchio era di rame. Ma per tutti, per fare il gelato, occorreva girarlo a lungo a mano, anche con l'aiuto di qualche “fegatino” e per finire un assaggio per tutti. Tocco personale per il Croccante quando, unico nel suo genere, stendeva l'impasto uniforme su una pellicola di pasta sfoglia, una cialda bianca finissima, tipo ostia, che si faceva fare apposta dalla monache di San Paolo. Cialda che manteneva il croccante soffice e compatto anche dopo il taglio in pezzi. Lo si poteva maneggiare senza il rischio di ungersi, liberi di gustarne a piccoli morsi lo zucchero e le nocciole: dolcezza unica. Più complessa e lunga la lavorazione del Duro di Menta che doveva essere impastato, intrecciato, tirato fino a diventare un impasto compatto da fare raffreddare e asciugare. Lavorazione lunga e faticosa che richiedeva anche un punto di appiglio al quale agganciare quella specie di matassa, per tirarla ed intrecciarla, che nel magazzino di Cionce, in fondo alla discesa dei Frati, era rappresentato da tanti chiodi, ma di quelli grossi, inficcati nel muro. Lavorazione che richiedeva arte e fantasia, che si rivelò estremamente utile, questa ultima, cioè la fantasia, quando Cionce dovette trasferirsi un po' più su, verso Santo Stefano, in una casa e magazzino appena ristrutturati, ad una condizione, dettata dal padrone di casa – "Niente chiodi!"
E
CIONCE mantenne l'impegno e la parola data, non piantò nemmeno un
chiodo in quella casa, ma non rinunciò al suo Duro di Menta. La
sera, prendeva la chiave che di solito stava infissa tutto il giorno
nella toppa dell'uscio di casa, gli dava una passata con acqua e
sapone, chiudeva l'uscio e infilava la chiave dal di dentro dando una
mandata. Chiave quella, vera! di ferro con tanto di campanella, utile
non solo a chiudere l'uscio, ma ad agganciarci le trecce di menta, a
tirarle, ad intrecciarle, pronte a diventare duri di menta
rispettando sapori, accordi e regole.
Amedeo Gasparri "Cionce"
Foto collezione Stefano Bartoli
sabato 22 novembre 2014
IL CANE DEL FALEGNAME - Racconto di Stefano Bartoli
↖ RACCONTI DA PIAZZA DEL POPOLO ALLA NUNZIATINA
Era già passata l’ora di cena e me ne stavo tranquillo a casa, in ciabatte, di fronte al televisore.
Avverto mia moglie, m’infilo le scarpe, lei indossa velocemente un abito scuro, due colpi di spazzola ai capelli e siamo già in macchina indirizzati a casa di mio zio falegname.
Viveva da decenni nella frazione di S. Miniato chiamata La Serra, lì aveva anche una bottega da falegname.
Mio zio non si era mai sposato e non aveva altri nipoti all’infuori di me, come compagno di vita aveva sempre avuto un cane, anzi diversi cani, perché Lui ne aveva sempre avuto uno e, appena questo moriva, mio zio correva subito a cercarne un altro, giovane, da crescere e addestrare.
Il cane viveva sempre con Lui, sia in casa, sia in bottega, lo accompagnava anche al circolo, tre volte al giorno per il caffè, dopo pranzo e dopo cena la partita a carte con gli amici con il cane accucciato accanto ai piedi.
L’ultimo era di taglia media-piccola, completamente nero, un pelo riccioluto, corto, il naso un po' imbiancato dall'età e un occhio in parte velato, anche questo sintomo di un’età non più giovanile.
Lampo era il Suo nome, gli si addiceva più da giovane, ora sembrava più un “accelerato” che un “rapido”.
Giunti davanti casa vedemmo un capannello di sette o otto persone, quasi fossero di guardia alla porta, dentro si sentiva il cane sbraitare, guaiti lagnosi alternati da un furioso abbaiare, sembrava impazzito.
Entrai subito, poggiai un ginocchio in terra, allungai il braccio e la mano e feci vedere a Lampo una di quelle piccole salsicce secche che gli piacevano tanto, il premio che gli dava sempre mio zio quando faceva qualcosa di buono.
Dopo un giorno e mezzo abbiamo fatto il funerale. Alla fine uno degli amici di mio zio mi chiese:
Del cane che ne fai? Se non hai posto a casa Tua, in S. Miniato e vuoi lasciarlo qui lo tengo io. Stai tranquillo che con me si troverà bene, come con Tuo zio.
Il sabato decido di andare al circolino, a La Serra, dove andava sempre mio zio. Mentre chiacchiero con i Suoi vecchi amici racconto anche a Loro delle stranezze del cane, vedo che sorridono, ammiccano fra Loro fino a quando uno mi dice: Oh “nini” ma Te che lavoro fai? Io nulla, sono in pensione, ho lavorato quasi trenta anni a Santa Croce, tagliavo le pelli per una pelletteria: borse, portafogli, cinture, custodie per occhiali, guanti ecc.
Rimasi di stucco, che figura da scemo.
di Stefano Bartoli
Il
cane del falegname.
Tutto
iniziò con una breve telefonata dal circolino: Vieni subito, è
morto Tuo zio e il cane non fa avvicinare nessuno!
Era già passata l’ora di cena e me ne stavo tranquillo a casa, in ciabatte, di fronte al televisore.
Avverto mia moglie, m’infilo le scarpe, lei indossa velocemente un abito scuro, due colpi di spazzola ai capelli e siamo già in macchina indirizzati a casa di mio zio falegname.
Viveva da decenni nella frazione di S. Miniato chiamata La Serra, lì aveva anche una bottega da falegname.
Mio zio non si era mai sposato e non aveva altri nipoti all’infuori di me, come compagno di vita aveva sempre avuto un cane, anzi diversi cani, perché Lui ne aveva sempre avuto uno e, appena questo moriva, mio zio correva subito a cercarne un altro, giovane, da crescere e addestrare.
Il cane viveva sempre con Lui, sia in casa, sia in bottega, lo accompagnava anche al circolo, tre volte al giorno per il caffè, dopo pranzo e dopo cena la partita a carte con gli amici con il cane accucciato accanto ai piedi.
L’ultimo era di taglia media-piccola, completamente nero, un pelo riccioluto, corto, il naso un po' imbiancato dall'età e un occhio in parte velato, anche questo sintomo di un’età non più giovanile.
Lampo era il Suo nome, gli si addiceva più da giovane, ora sembrava più un “accelerato” che un “rapido”.
Giunti davanti casa vedemmo un capannello di sette o otto persone, quasi fossero di guardia alla porta, dentro si sentiva il cane sbraitare, guaiti lagnosi alternati da un furioso abbaiare, sembrava impazzito.
Entrai subito, poggiai un ginocchio in terra, allungai il braccio e la mano e feci vedere a Lampo una di quelle piccole salsicce secche che gli piacevano tanto, il premio che gli dava sempre mio zio quando faceva qualcosa di buono.
Lampo
dai, falla finita, vieni qua e calmati, Beppe non può sentirti più.
E’ ancora qui, insieme con noi ma in una nuova dimensione, d’ora
in poi sarà sempre con noi, non ci abbandonerà mai. Non abbaiare
più, lascia che porti Beppe in casa, lo stenda sul letto, lo lavi e
gli metta dei vestiti puliti, non possiamo lasciarlo così, sdraiato
sul cemento del pavimento di bottega.
Il cane era sempre stato intelligente, attento e vigile su tutto ciò che avveniva intorno a Lui, questa volta appariva veramente spaesato, come fosse un po’ impazzito.
Il cane era sempre stato intelligente, attento e vigile su tutto ciò che avveniva intorno a Lui, questa volta appariva veramente spaesato, come fosse un po’ impazzito.
Avvicinai
a Lui anche una ciotola d’acqua pulita e questo lo distolse un po’,
si allontanò di qualche passo da mio zio, si lasciò legare al
guinzaglio e allora potei accompagnarlo fuori della bottega e
rinchiuderlo nel vecchio pollaio.
Dopo un giorno e mezzo abbiamo fatto il funerale. Alla fine uno degli amici di mio zio mi chiese:
Del cane che ne fai? Se non hai posto a casa Tua, in S. Miniato e vuoi lasciarlo qui lo tengo io. Stai tranquillo che con me si troverà bene, come con Tuo zio.
Scossi
la testa, più volte.
Ti
ringrazio Dante, penso che mio zio avrebbe voluto che tenessi io il
cane e farò così.
A quasi sessanta anni di età non ho mai avuto un cane, e nemmeno mia moglie. Pensiamo entrambi che sia una cosa abbastanza facile, lo porti fuori tre volte il giorno, gli dai da mangiare una volta, due o tre volte l’anno lo porti dal veterinario per le vaccinazioni, acqua pulita sempre nella ciotola e qualcosa a lanciargli ogni tanto per giocare a “riportino”.
A quasi sessanta anni di età non ho mai avuto un cane, e nemmeno mia moglie. Pensiamo entrambi che sia una cosa abbastanza facile, lo porti fuori tre volte il giorno, gli dai da mangiare una volta, due o tre volte l’anno lo porti dal veterinario per le vaccinazioni, acqua pulita sempre nella ciotola e qualcosa a lanciargli ogni tanto per giocare a “riportino”.
Arrivati
a casa, in S. Martino decisi di far sgranchire le gambe al cane e
fargli prendere conoscenza con il Suo nuovo habitat, fatto di salite
e discese, ben diverso dal piatto paesaggio di La Serra e della Val
d’Egola.
Ci
incamminiamo lentamente verso il curvone e scendiamo giù verso S.
Miniato Basso, passato la casa del Fiaschi, il cane comincia ad
agitarsi e tirare il guinzaglio, faccio fatica a tenerlo. Si fionda
verso il ciglione e inizia a scavare una buchetta nel terreno.
Lampo
o che sei grullo, che fai? Vien qui! Lascia stare, smetti di scavare,
t’insudici tutto e fai danni ai vicini.
Con
tanto impegno e fatica riesco a distogliere il cane dalla buca appena
fatta, ricopro il tutto con la terra smossa, un po’ alla meglio e
mentre il cane non la smette di uggiolare lo riporto verso casa.
Lui sbatte in continuazione il naso sulla tasca, dove tengo le salsicce secche, decido di dargliene una per calmarlo un po’ e lo riporto a casa.
Lui sbatte in continuazione il naso sulla tasca, dove tengo le salsicce secche, decido di dargliene una per calmarlo un po’ e lo riporto a casa.
Lo
brontolo un po’, perché impari, ma non troppo perché mi pare
proprio un po’ partito di testa. Per
tutta la settimana usciamo tre volte il giorno, le passeggiate si
fanno sempre più lunghe fino a metà della discesa per San Miniato
Basso e poi ritorno, o fino al piazzale e rientro, o verso Cigoli o
quasi fino al Cimitero.
Solo
un paio di volte il cane si fa riprendere dalla fregola di scavare,
io lo distolgo, lo porto via, lo brontolo e Lui inizia sempre a
sbattere il naso sulla tasca, fino a quando non gli allungo una
salsiccia.
Il sabato decido di andare al circolino, a La Serra, dove andava sempre mio zio. Mentre chiacchiero con i Suoi vecchi amici racconto anche a Loro delle stranezze del cane, vedo che sorridono, ammiccano fra Loro fino a quando uno mi dice: Oh “nini” ma Te che lavoro fai? Io nulla, sono in pensione, ho lavorato quasi trenta anni a Santa Croce, tagliavo le pelli per una pelletteria: borse, portafogli, cinture, custodie per occhiali, guanti ecc.
Allora
ascolta me, il cane è furbo, non grullo e sa far bene il Suo
mestiere, quando scava tiralo via, metti la mano nel buco e scava
ancora Te, delicatamente, vedrai che in quel buco troverai un bel
tartufo. La salsiccia che reclama è il Suo premio, così l’aveva
abituato Tuo zio. Sei te che sei un po’ scemo o almeno un po’ ignorante, ma stai
tranquillo lasciati portare dal cane e lui t’insegnerà.
Rimasi di stucco, che figura da scemo.
Non
sapevo come scusarmi con il cane, allora lo presi e lo portai alla
toilette, giù a S. Miniato Basso e gli feci dare una bella lavata,
poi di corsa dal veterinario.
Fortunatamente
non c’erano grossi problemi, l’occhio sinistro aveva perso
diversi decimi di vista, ma era solo l’età. Il cane ci vedeva
ancora abbastanza. Il cuore non era più quello di un giovanotto ma
bastava avere l’accortezza di non farlo correre troppo.
Da
quel giorno le tre uscite quotidiane avevano anche uno scopo in più:
Cercare tartufi.
A sessant’anni son dovuto ritornare a scuola per prendere il patentino di cercatore autorizzato e son contento che adesso posso dedicarmi a quest’attività insieme a Lampo.
A sessant’anni son dovuto ritornare a scuola per prendere il patentino di cercatore autorizzato e son contento che adesso posso dedicarmi a quest’attività insieme a Lampo.
Non
è solo il cane del mio vecchio zio, è una piccola miniera d’oro.
lunedì 17 novembre 2014
LA VISITA ALLA TORRE CAMPANARIA DELLA CATTEDRALE DI SAN MINIATO
di
Francesco Fiumalbi
Conclusi
i lavori di restauro alla torre campanaria della Cattedrale di San
Miniato, impropriamente detta “Torre di Matilde”, i cui risultati
sono stati presentati nello scorso mese di ottobre [VEDI IL VIDEO DELLA PRESENTAZIONE],
finalmente lo storico edificio è stato reso visitabile, e aperto al
pubblico in occasione dell'annuale Mostra Mercato Nazionale del
Tartufo Bianco di San Miniato [15-16-22-23-29-30 novembre e 6-7
dicembre 2014, con orario Sabato 10-13, 14-17, Domenica 14-17].
Immancabilmente, come molti
sanminiatesi, anch'io sono salito sulla torre e in questo post
desidero condividere le impressioni che ho avuto, nonostante le
condizioni meteorologiche certamente sfavorevoli. In questo primo
fine settimana è praticamente piovuto sempre, speriamo che i
prossimi siano migliori.
Il Campanile della Cattedrale di San
Miniato
Foto di Francesco Fiumalbi
Foto di Francesco Fiumalbi
Premetto che sulla torre ero già
salito nel 2005, quando, giovane praticamente geometra presso lo
studio dell'Ing. Sergio Gronchi e dell'Arch. Silvia Lensi, partecipai
ad alcuni sopralluoghi preliminari al progetto di restauro, progetto
che di lì a poco avrebbe mosso i primi passi. Dico questo perché
fino ad oggi portavo con me un certo tipo di ricordo della torre,
delle sue strutture murarie fortemente degradate, dei suoi precari
collegamenti verticali. Un ricordo che albergava nella mia mente, ma
che adesso appartiene al passato e, anzi, mi fa meglio comprendere il
duro e complesso lavoro di restauro e consolidamento che è stato
portato a termine. Insomma il ricordo di un edificio bellissimo, ma
gravemente “malato”, a cui oggi si affianca l'immagine di una
struttura affascinante e ricca di storia, completamente recuperata e
addirittura visitabile. Ammetto di essere profondamente debitore
dell'Ing. Gronchi e dell'Arch. Lensi perché, durante quel periodo di
praticantato, mi hanno trasmesso, oltre alla loro grande
professionalità, anche l'amore e l'attenzione per l'architettura
storica. Ci tengo a dirlo perché se di lì a pochi mesi presi la
decisione di iscrivermi alla Facoltà di Architettura lo devo proprio
ad esperienze come questa del Campanile.
Ma adesso veniamo alla visita.
Ma adesso veniamo alla visita.
L'accesso “turistico” alla Torre
avviene dal cosiddetto “Sdrucciolo del SS. Crocifisso”, ovvero da
quella stradella lastricata che collega Piazza del Duomo con il
Santuario del SS. Crocifisso. C'è anche un ingresso dalla
Cattedrale, ma è un collegamento di servizio.
Le prime rampe di scale sono quelle
originarie e procedono per uno stretto incavo, ricavato all'interno
dei possenti muri perimetrali della torre. Il rumore della piazza,
delle persone che in questi giorni affollano San Miniato, piano piano
si attenua fino a scomparire. I gradini avanzano ripidi e,
oltrepassato un piccolo piano intermedio, quasi di colpo, ci si
ritrova all'interno di un vasto locale che si estende per l'intera
superficie della torre. Siamo al primo livello. Sembra impossibile,
ma siamo esattamente sopra il coro della Cattedrale, dietro l'Altar
Maggiore e la Cattedra del Vescovo, a circa 13-14 metri di altezza
dalla quota del pavimento della chiesa. E' una stanza molto grande,
circa 6x8 metri, alta circa 9 (cioè circa tre piani di una normale
abitazione). C'è solo una piccola apertura verso l'esterno e
l'illuminazione è garantita da un apposito impianto. Da una parte fa
bella mostra di sé un grande arco di scarico realizzato,
probabilmente, intorno alla seconda metà del '600. Al di sotto,
quasi invisibile, c'è una piccola porticciola. Ricordo che è
proprio da questa minuscola apertura, ovviamente non aperta al
pubblico, che si accede nel sottotetto della Cattedrale e quindi è
utile per svolgere le normali operazioni di manutenzione al tetto e
ai bellissimi controsoffitti lignei.
Il
percorso di salita prosegue attraverso una scala in pietra a mensola,
originaria e ripidissima (i gradini sono alti circa 30 cm!), e
prosegue, per la parte conclusiva, con una porzione metallica in
sostituzione della precedente in legno. Sono molti i gradini che
occorrono per superare i 9 metri del primo livello, ma quasi non ci
se ne accorge perché la curiosità di salire è tanta e prende,
inevitabilmente, il sopravvento. Si arriva quindi al secondo livello,
ovvero alla cella campanaria, il cui piano di calpestio è ad una
quota di circa 22-23 metri dalla piazza (praticamente come un palazzo
di 7 piani!).
E'
davvero emozionante poter osservare così da vicino la dimensione e
la bellezza delle campane! Di queste ci eravamo già occupati nel
post LE CAMPANE DELLA CATTEDRALE DI SAN MINIATO.
Sono strumenti apparentemente semplici, ma con dimensioni
monumentali, come si conviene ad una Cattedrale, e il cui suono
richiama l'attenzione a distanza di svariati chilometri. Per dare
un'idea della grandezza, il cosiddetto “Campanone”, la campana
dalle dimensioni maggiori, sfiora il metro e mezzo di diametro e pesa
svariate tonnellate. Ciò fa comprendere il complesso lavoro
strutturale che è stato realizzato per consolidare la struttura e
garantire la funzionalità delle campane. Un robusto castello
metallico, che è il risultato di complessa fase di analisi e di
progettazione strutturale, sostiene il peso delle campane e ne
attutisce le oscillazioni. E' davvero un bell'esempio di moderna
ingegneria al servizio di una struttura storica, basti pensare che
prima di questo intervento le campane erano sostenute direttamente
dalla muratura portante della struttura.
Si sale ancora e si raggiunge il
terzo livello della torre. Come nel primo livello, anche in questo
caso si tratta di un grande ambiente chiuso, che copre l'intera
superficie della pianta, per un'altezza di circa 7 metri. Non vi sono
aperture perimetrali e l'illuminazione è garantita da un apposito
impianto. Qui è situato il meccanismo che regola il funzionamento dei
due giganteschi orologi, quello orientale e quello occidentale. La
copertura è a volta con lunette. Essendo tutto chiuso, non si ha
affatto l'impressione di stare ad una quota di 27-28 metri dalla
piazza, cioè pari all'altezza di un palazzo di 9 piani!
Infine l'ultima rampa di scale,
anch'essa metallica, che conduce al coronamento della torre, a cui si
accede tramite una bellissima terrazza panoramica. Ed è qui che si
prende coscienza del percorso verticale che è stato appena svolto.
Siamo a circa 34-35 metri da terra! Quindi come se si fosse sul tetto
di un edificio di 11-12 piani! La cosa fa veramente impressione.
La Rocca è lì, apparentemente
vicinissima, sembra quasi di poterla accarezzare allungando una mano!
Invece è distante quasi 200 metri! Per dare un'idea dell'altezza, il
terrazzo del campanile è quasi allo stesso livello del prato della
Rocca! Poco più sotto il Santuario del SS. Crocifisso.
Poi lo sguardo viene come rapito dal
panorama circostante, ad oriente e poi verso sud. E' diverso da
quello che si può ammirare stando in Rocca, perché il campanile si
trova in pieno centro urbano. Da una parte si apre la vista sulla
parte orientale di San Miniato. Dalla torre si domina tutto l'abitato
e, in epoca medievale, si poteva facilmente controllare chi
transitava dalla strada, da Piazza XX Settembre (per intenderci
dall'Ospedale) fino a Piazza Buonaparte e poi su in Santo Stefano! E'
un'immagine bellissima! Come un quadro pittoresco!
Oltre, lo sguardo spazia verso
l'infinito mare ondoso composto dalla miriade di colline che separano
la Valdelsa dalla Valdera, e poi ancora il Volterrano e il Senese.
Purtroppo, quando sono salito, stava iniziando a piovere e tutto il
panorama era avvolto da una foschia molto accentuata. Comunque, verso
sud, più o meno il panorama è lo stesso di quello che si può
godere dalla Rocca.
La sorpresa più grande, invece, è
verso occidente. In quella direzione siamo esattamente allineati con
il tetto della Cattedrale! Si può osservare la sua dimensione, la
sua articolazione volumetrica con la navata centrale e le due
laterali, si può apprezzare la connessione fra corpo della chiesa
con la sua facciata. Un'immagine insolita, bellissima, suggestiva! E
poi oltre... la Piazza del Duomo, il Palazzo Vescovile, il palazzo
dell'Hotel Miravalle. Verso sud si coglie un ampio scorcio di Piazza
del Seminario, mentre verso ovest si riconosce Piazza del Popolo, la
chiesa di San Domenico, la zona di San Martino da una parte, e verso
le colline dall'altra. Si vedono sbucare i campanili della Nunziatina
e di Santa Chiara, quasi a marcare il territorio.
Io personalmente sono rimasto come
“rapito” da una vista così bella e, al tempo stesso, inedita,
insolita e sconosciuta. Se non fosse stato per i goccioloni di
pioggia, che ormai mi stavano cominciando ad inzuppare, sarei rimasto
sulla terrazza del campanile per qualche ora.
Che dire, un'esperienza da fare e
rifare. Il desiderio e la curiosità fanno certamente venire meno la
fatica del salire. Alla fine è come fare 12 piani di scale senza
ascensore, ma, io personalmente, non me ne sono accorto. Per fare un
paragone, è molto ma molto più faticoso salire sulla Torre del
Mangia a Siena o sulla Cupola del Brunelleschi a Firenze.
Il panorama che si gode dalla torre
è unico, non è uguale a quello della Rocca. Si, le colline che
coronano la vista a sud sono le stesse, ma quello che cambia è il
rapporto con l'abitato, che nel caso della Rocca è distante, mentre
sul Campanile ci siamo praticamente dentro. E poi si può apprezzare
la bellezza e la dimensione delle campane!
Io mi sento davvero di ringraziare
la Diocesi di San Miniato, il Vescovo Fausto Tardelli, e tutti coloro
che a vario titolo si sono adoperati per il restauro del Campanile
della Cattedrale, perché non hanno solo consolidato e recuperato un
monumento importantissimo, ma lo hanno letteralmente aperto e donato
alla Città! Quindi, davvero, GRAZIE.
E, allora, che dire... il mio
consiglio è semplice: non fatevi scappare l'occasione! Durante i
fine settimana della Mostra Mercato del Tartufo, ritagliatevi un'ora
e salite sul Campanile. Non ve ne pentirete!
La Rocca e il Santuario del SS.
Crocifisso visti dal Campanile
Foto di Francesco Fiumalbi
La parte orientale di San Miniato,
lo Sciòa, visto dal Campanile
Foto di Francesco Fiumalbi
Il tetto della Cattedrale, il
Palazzo Vescovile, il Seminario,
e l'Hotel Miravalle visti dalla
terrazza del Campanile
Foto di Francesco Fiumalbi
L'abitato di San Miniato da Piazza
del Popolo verso San Martino e le Colline
visto dalla terrazza del Campanile
Foto di Francesco Fiumalbi
domenica 16 novembre 2014
[VIDEO] PRESENTAZIONE DI "RACCONTI DELL'ORTO" - LIBRO DI GIANCARLO PERTICI
a cura di Francesco Fiumalbi
Sabato 15 novembre 2014 si è tenuta, presso l'Aula Pacis di San Miniato, la presentazione del primo (speriamo di una lunga serie!) libro di Giancarlo Pertici, dal titolo "I Racconti dell'Orto", edito dalla casa editrice La Conchiglia di Santiago, con prefazione di Cecilia Alessi.
Tantissime le persone che sono accorse all'iniziativa! Una serata dedicata all'opera di questo nuovo, ma significativo, autore sanminiatese, Giancarlo Pertici, che è costituita da tanti racconti, alcuni più brevi, altri più lunghi, in grado di restituire in qualche modo una "fotografia" della vita a San Miniato negli anni '50, ed in particolare nella zona dello Sciòa. Una vita narrata con gli occhi di un bambino di allora, un bambino che si trova a scoprire con entusiasmo il mondo che lo circonda.
Tantissime le persone che sono accorse all'iniziativa! Una serata dedicata all'opera di questo nuovo, ma significativo, autore sanminiatese, Giancarlo Pertici, che è costituita da tanti racconti, alcuni più brevi, altri più lunghi, in grado di restituire in qualche modo una "fotografia" della vita a San Miniato negli anni '50, ed in particolare nella zona dello Sciòa. Una vita narrata con gli occhi di un bambino di allora, un bambino che si trova a scoprire con entusiasmo il mondo che lo circonda.
Oltre che dalle parole dell'autore, la serata è stata animata dagli interventi di Andrea Mancini, Maria Antonietta Frosini, Nicoletta Corsi, Don Luciano Marrucci, Livia Remorini, Stefano Bartoli e Alberto Vincenti.
Di seguito è proposto il video completo della presentazione, a beneficio di chi non è potuto essere presente o di quanti desiderano rivedere i momenti più significativi di quella che non è stata solo una serata dedicata alla narrativa, ma anche un'iniziativa di beneficenza. Infatti il ricavato del libro verrà destinato alla Casa Famiglia Caritas e al Movimento Shalom ONG.
Foto di Francesco Fiumalbi
Foto di Francesco Fiumalbi
mercoledì 12 novembre 2014
PIAZZA SANTA CATERINA – Racconto di Giancarlo Pertici
di Giancarlo Pertici
PIAZZA
SANTA CATERINA … o piazza dell'Ospedale
Ombelico
del (nostro) mondo… da lì tutto partiva e ritornava, per noi
bambini degli anni ‘50
E'
soprattutto quel profumo penetrante di noce moscata, che impregna
l'aria e non solo, ad avvisare che è l'ora di merenda. Saranno le
quattro o le cinque, tutto dipende dalla stagione. In inverno è alle
quattro spaccate che, dal vano montacarichi a piano terra, si apre lo
sportello a saliscendi per far passare un vassoio colmo di polpette,
dalla cucina fin sopra la mensola esterna, in quel corridoio di
passaggio tra la Cappella delle suore e l'ingresso principale
dell'Ospedale. In estate invece l'orario è più approssimativo, tra
le cinque e le cinque e mezzo del pomeriggio. Le polpette quelle
preparate da suor Maria Letizia, aiutante cuoca di quella cucina, per
noi bambini di Piazza Santa Caterina nati, quasi tutti, proprio lì,
dentro quell'ospedale, come molti dei nostri genitori e quasi tutti i
nostri nonni. Ospedale centro gravitazionale della nostra vita, dei
nostri giochi, e del nostro futuro e spesso anche di quello
lavorativo. E quelle polpette calde, a bollore, da quella mensola
passano velocemente nelle nostre mani, che fanno fatica a tenerle, e
nel nostro stomaco dopo aver scottato le papille gustative della
lingua. Ma solo una polpetta per ciascuno!! Suor Maria Letizia pare
che ci conti!! non ne avanza mai nemmeno una e nessuno ne resta mai
senza. E con lo stomaco soddisfatto torniamo ai nostri giochi, mentre
cominciamo solo allora a gustare fino in fondo quella polpetta
ingurgitata in fretta e furia, ora che le papille gustative si sono
raffreddate e che sentiamo tutti i gusti oltre la noce moscata,
l'aglio, il prezzemolo, a volte l'uovo assieme all'ingrediente
principale che è la patata, e qualche volta anche il lesso. Non ci
sono in giro polpette buone come quelle! Ci deve essere qualche
ingrediente segreto!!! E ogni volta tentiamo di indovinare quale; ma
senza risultati apprezzabili. Solo da grande capirò che
l'ingrediente segreto era, e resta, … la fame, semplice fame.
Quello di suor Maria Letizia è un gesto di vicinanza mentre tanti sguardi ci sorvegliano nei nostri giri, nei nostri giochi su e giù per quella piazza, tra il prato pesticciato e le lastre di pietra della strada che circonda tutta quella piazza, la nostra piazza. Sono occhi di genitori, dei parenti che lavorano in ospedale, sbirciano a più riprese, ad intervalli regolari, dalle finestre aperte o socchiuse dei vari piani; verso noi bambini soli, padroni assoluti del campo. Qualche nonno “innocuo” seduto in panchina o sul monumento ai caduti, o sugli scalini della cisterna centrale che sembra dominare la piazza stessa. E noi bambini, spettatori (oggi si direbbe testimoni) di quella vitale quotidianità che ci conduce per mano, ad attraversare quegli anni pieni di euforia e di stupore verso il nuovo che avanza.
Quotidianità
che inizia ogni giorno presto, molto presto su quella piazza. E'
ancora buio quando avviene il primo cambio di turno dell'ospedale. La
città che ancora dorme e deve avviarsi….le botteghe, le prime che
aprono, poi le officine degli artigiani, quindi gli uffici. E alla
spicciolata le potresti contare e riconoscere le infermiere, quando
firmano il cartellino d'ingresso, sia che vadano in medicina, sia che
salgano in chirurgia, sia che vadano lassù in psichiatria o scendano
al padiglione Montegrappa adibito a Sanatorio. Col buio e, se
d'inverno, tutte intabarrate, non sempre è facile riconoscerle…
Gina Ferlin di turno al Sanatorio, Maria Rugiati addetta al
“bastardaio” (nome infame, ma era chiamato così in quegli anni
'50), Maria di' Caciagli diretta in Medicina sempre all'ultimo
rintocco lei che abita lì a due passi, accanto all'Alimentari di
Pietro. Talvolta dal Poggio, arriva anche se perennemente in ritardo
quando è di mattina, Cesarina di' Schiacciola che di cognome fa
Badalassi. Puntuale invece come un orologio, a tutte le ore, Adriana…
la mia zia Adriana, scortata sempre dalla Chira e dalla Simona, due
splendidi barboni neri giganti ai quali sono particolarmente
affezionato. Poi alla spicciolata quasi in fila indiana, qualcuno te
lo perdi. Fai in tempo a riconoscere Anna la Botti, Adelina di'
Dainelli, la prima da via Maioli e la seconda da Sotto il Ponte.
Mentre il Lastrucci dal Poggio e lo Zeffiri da piazza Buonaparte
quando arrivano sembrano due Dottori… almeno quella è l'aria si
danno! anche se sono due infermieri. Borsetto sotto il braccio,
tenuto come se fosse la borsetta di pronto soccorso di un dottore,
sempre prodighi per chiunque di consigli, quasi fossero terapie. Per
ultime le monache, non perché arrivano dopo tutti gli altri, ma
perché non arrivano affatto, non ne hanno bisogno. Loro ci sono e
basta! in ogni momento. Mi ricordo con affetto di suor Giuseppina,
sempre in sala operatoria, di Suor Vincenza addetta al guardaroba e
di suor Maria Letizia addetta alle cucine… le altre non ne ricordo
il nome.
Quando
piombiamo in piazza, appena mangiato, di ritorno da scuola,
all'inizio del pomeriggio, la lezione da fare… Quanta voglia di
giocare e di correre!!!!! In tempo a diventare spettatori del cambio
di turno, i movimenti quasi sempre gli stessi che ci affascinano e
attirano la nostra attenzione. Ci fermiamo quando arriva Lillo, ad
inizio pomeriggio. La sua bicicletta da donna di un color celestino
sbiadito, la catena rumorosa e lente. La sua pedalata lanciata a
superare quella cunetta, che a piedi non senti, quella di fronte alla
Ragnaia, prima del falso piano davanti l'ospedale. E lui, il Lillo,
supera quella cunetta di slancio e continua a pedalare fitto fitto
fin davanti al portone di ingresso... (e noi ad ammirare la manovra)
e passato il portone, a pedali fermi, la gamba destra levata in volo…
si prepara ad atterrare all'altezza dell'ingresso di servizio, lato
Cappella... e lo fa saltando a terra, mentre con la mano destra
afferra il sellino, e con la sinistra il manubrio, per una manovra al
volo a girare e depositare la bicicletta in posizione di partenza,
muso rivolto verso la piazza. E noi a bocca aperta, ogni giorno, a
meravigliarci di nonno Lillo e soprattutto dei suoi anni, ben oltre i
60.
Ed io unico spettatore “super partes”, lassù più in alto di tutti. E' infatti a quell'ora d'estate, in cerca di aria, di refrigerio dalla calura del pomeriggio, che mi rifugio nel mio nascondiglio segreto da dove posso vedere e dominare tutto, non visto. E' su quell'abete (che ancor oggi domina tutta la piazza) la cui chioma adombra la strada fino a lambire le persiane di casa Nardini, che salgo con estrema facilità. Un esercizio quasi quotidiano, ripetuto ed imparato a memoria, eseguito con la complicità dell'abete stesso che mi da una mano. La mano... la sua, sotto forma di un ramo che sembra allungarsi per tirarmi su, per quella curvatura che, nel dondolarmi leggermente, quasi mi accarezza fino a lasciarsi abbracciare dalle mie gambe. Esercizio facile, nonostante i calzoni corti. E su per il tronco, oltre la forcella, adornato ed attrezzato da tanti rami simmetrici, ben distribuiti per larghezza e per altezza. E' come salire su una scala, c'è anche il passamano a mantenere il dovuto equilibrio benché una mano occupata a portare con me quel tesoretto che tengo gelosamente dentro una sporta di paglia: i giornalini preferiti di Tex Willer e quelli del Vittorioso. Quando mi seggo nel mio scranno esclusivo, poggio i piedi comodamente a scelta su due diverse pedane, per leggio una forcella a quattro dita, due rami equidistanti a sorreggermi la schiena all'altezza della vita e all'altezza delle scapole...
E'
cambio di turno. Infermiere quasi tutte donne, mai le stesse. Noi
bambini non ci fermiamo, d'abitudine, ad osservare il cambio. Io
sempre invece da lassù, quando arriva nonna Livia , la mia nonna,
partita da là, da Via Pietro Bagnoli, appena due passi. Quando esce
di casa, da quell'uscio, largo e tutto a vetri, già sporto di una
bottega nel passato, non si incammina subito, ma si siede su quella
seggiolina che se ne sta lì, fissa, appoggiata al muro, e che serve
soprattutto la sera per osservare il passeggio e il passaggio per
l'ospedale. E su quella seggiolina si siede, per aspettare le
compagne di turno, quelle che da anni insieme a lei condividono le
mansioni del reparto di chirurgia: Ottorina e Quirina. Ottorina
arriva già col fiatone, tutto quel saliscendi lei che abita alle
Colline. Quirina invece... anzi! anche lei, nonostante abiti a metà
di Via Paolo Maioli, giusto davanti a casa Taviani, ma per ragioni
diverse, arriva anch'essa col fiatone. La ragione è evidente quando
sbuca all'altezza di Pancole. Ondeggia quasi, per riuscire a
trasportare tutto il suo peso distribuito soprattutto in larghezza,
le gambe che, forse solo per scommessa, continuano a sorreggerla. Si
aspettano tutte le volte quando sono di turno nel pomeriggio, per
fare ingresso insieme, quasi una passerella. Ed è questa che ammiro
mentre arrivano vestite di tutto punto con i loro camici bianchi,
spesso a braccetto, ordine casuale, mentre noi le rimettiamo
mentalmente in ordine di grandezza. Prima Quirina, seconda Ottorina e
terza Livia... ordine di grandezza di culi e di fianchi. Formazione
che occupa ben oltre la metà della sede stradale, e che si scioglie
all'ingresso, all'altezza della guardiola del custode, che a turno è
o il Cucchi o il Turini, per firmare il cartellino d'ingresso.
Da
lassù, dal mio nascondiglio personale dove i rumori arrivano prima,
come la sirena dell'ambulanza in lontananza, quando è per la salita
del Poggio o ancora “di là”, in San Miniato, basta un minimo
cenno e tutto si ferma. Nessuno in istrada e tutti ai bordi della
piazza davanti all'ingresso dell'ospedale pronti per non perdersi
nulla, silenzio assoluto quasi a voler accompagnare quella sirena
lungo tutto il percorso, dal Riposo fino in Sant'Andrea e giù in
Piazza dei Polli, attorno al monumento di Canapone passando davanti
al Bar di' Micheletti, su per Via Paolo Maioli prima, e Via Pietro
Bagnoli poi, senza soste, per sbucare, alla vista oltre che
all'udito, all'altezza della bottega di Olimpia. E lì già si
capisce dall'ambulanza, di città o di campagna, cosa può essere
successo e dove. Di lassù un via vai di infermieri, di dottori per
le prime cure, quelle urgenti se si tratta di un incidente… allora
sangue, grida di dolore ad allontanare i curiosi, i più piccoli
strattonati per mano da mamma o da nonna. Tra gli infermieri spesso
noti il Mascagni o il Corri, con suor Giuseppina seguita dal dottor
Nardini a coordinare la macchina di primo soccorso. Talvolta facce
conosciute, amici, conoscenti… magari per banali incidenti o
malesseri passeggeri, e alla fine, quando riparte l'ambulanza vuota,
tutti di nuovo al gioco, ai nostri passatempi consueti, mentre i
nonni riconquistano le posizioni precedenti.
Ogni
tanto arriva il camion carico di carbon fossile, credo si tratti di
antracite, e scarica all'angolo della Chiesa fin quasi davanti al suo
portone. Massa che, alla vista, sembra emanare tanfi rancidi e che
invade la piazza, mentre subdola penetra e corrode le mani, e ricopre
le lastre di un velo di polvere nera. E' allora che arriva in piazza
Paolino Matteucci a presiedere lo scarico e le operazioni
conseguenti. Lavoro il suo che porta a termine con l'aiuto di qualche
ragazzo più grande, …lo sgombero della piazza, ...la messa in
deposito dell'antracite, giù nel seminterrato a magazzino,
attraverso due finestrelle ovali che si affacciano all'altezza del
marciapiede. Lavoro faticoso, senza guanti, …le sole mani a
spostare i pezzi più grossi e badili dal corto manico a raccogliere
i detriti per gettarli giù in quella specie di imbuto in muratura,
fino al deposito accanto alle caldaie. Operazione che si conclude
dopo una solerte spazzatura di tutto quell'angolo di piazza. Per i
ragazzi volontari in premio una “misera” polpetta ciascuno,
delusi nel ricordo, anche a distanza di anni, delle mani sanguinanti
e di quel misero premio.
Ben
altra ricompensa è quella di nonna Livia, se gli riempio la conca
dell'orto tutta d'acqua piovana per il bucato. Di regola è una
schiacciola, quel gelato racchiuso tra due Cialde, a scelta crema e
limone o crema e cioccolato, che Cionce fa uscire quasi per magia da
un'arnese con dentro una molla, …ma costa 10 lire! Gli altri
giorni, e non tutti, mi accontento di un cono da 5 lire, un gusto,
una leccata e via. Quando è il giorno di bucato, sembra che tutte le
donne si diano appuntamento. Basta che cominci una e viene a mente
anche all'altra, per una catena umana che parte dalla piazza fin
dentro gli anditi di casa. D'estate, le cisterne di casa oramai
prosciugate, e quella cisterna al centro di Piazza Santa Caterina che
sembra non finire mai, scorta per i giorni difficili d'estate. Io mi
sono attrezzato con due piccole mezzine di stagno. Se la pompa è
carica, allora è abbastanza semplice, anche se duro l'avvio.
Facciamo a turno a chi pompa; a volte anche in due, se l'acqua è
laggiù in fondo alla cisterna ed è così pesa da farla salire. Ma
se la pompa, pompa a vuoto, allora abbiamo bisogno dell'aiuto di un
grande ...un nonno basta!! …che ricarichi la pompa dopo aver
attinto acqua con un secchio legato ad una corda. Le riempio tutte e
due e riesco a portarle senza farle fregare per terra, anche se il
manico mi sega le dita. Conto i viaggi, facendo il conto alla
rovescia… almeno 15 viaggi… 14… 13... 12… A volte è un conto
che non accontenta nonna. Devo riempirle anche il pillone accanto,
per il risciacquo… altri 10 viaggi. Con Berto che deve riempire la
conca della sua nonna Primetta, nell'orto accanto, ci diamo una mano
a vicenda, sia nel pompare che nel portare le mezzine, lui che ce
n'ha una sola ma più grande. E che è giorno che preannuncia il
bucato, te ne accorgi anche dalle inevitabili scie d'acqua sulle
lastre, ad indicare tragitti e destinatari. A volte ti domandi perché
il Mazzetti o il Geri non facciano il bucato quella settimana…
nessuna scia da e verso il loro andito.
E
d'estate, sia la domenica che i giorni feriali, preciso come un
orologio Cionce a dispensare gelati e sorrisi, assieme al buonumore…
non me lo ricordo una volta arrabbiato o scortese verso noi bambini
invadenti e appiccicosi. Ogni domenica in estate, anche a servire i
malati sia dell'ospedale sia del sanatorio e con una sosta fissa
davanti al ricovero. Non sarebbe domenica senza il gelato o i duri di
menta di Cionce, che noi aspettiamo su quel prato, tra quelle siepi,
sopra quegli alberi piantati li apposta per noi intenti ai nostri
soliti giochi. E cambia poco tra giorni feriali e giorni festivi.
L'ora non è sempre la stessa. Può essere ad inizio pomeriggio, come
a fine o tarda serata, ma da quando gli è arrivato il 1100 Fiat
nuovo, ogni giorno il dott. Nardini, o a turno il suo figlio
Giuliano, ci caricano tutti quelli che siamo in piazza e ci fanno
fare un giro, a volte anche due. Se non ci entriamo tutti, allora a
turno!! Gli altri in fila sul marciapiede a salutare come si
trattasse di un lungo viaggio. Io cerco sempre di non salire per
primo per sedermi accanto al finestrino e guardare fuori il prato, le
siepi e le panchine che, pare, fuggano veloci… un po' come, quando
per la fiera il mi' babbo mi monta sull'autoscontro.
A
una certa ora della sera, appena fatto buio, è l'ora d'uscita di
Duilio, che porta a spasso il cane del prete. Un giro veloce della
piazza da un albero all'altro. Non ci degna neppure di uno sguardo
quel cane, sembra la controfigura di quella bestia che quando si
affaccia alla finestra, quasi si mangerebbe chi ha avuto l'ardire di
suonare a quella porta. Poi giù verso il Sanatorio seguito come
un'ombra da Duilio fino in fondo a Pian delle Fornaci e ritorno. E
noi bambini, non del tutto tranquillizzati, intenti, sì al gioco del
momento, ma lo sguardo vigile verso l'uscita di Via Ferrucci, in
attesa del ritorno e del passaggio di quel cane, evitando anche
movimenti bruschi, nonostante le rassicurazioni ripetute ad ogni giro
dal Prete e da Duilio.
Alla
sera, quando si accendono i lampioni in piazza, ad inizio di
primavera, appena avanti cena, di rientro dai nostri giri… da Sotto
il Ponte, da Gargozzi, da Pian delle Fornaci, ci ritroviamo spesso a
godere di quegli scampoli ultimi di gioco e di libertà, mentre
aspettiamo il ritorno dal lavoro del babbo. Ad orari diversi ognuno
aspetta il ritorno del proprio, in bici, a piedi, a completare
tragitto fatto con treno o autobus. E' un rientro alla spicciolata
che col tempo potresti anche memorizzare… ora arriva il tale... tra
poco il mio… ora è la volta di… Fra i primi ecco Natale Sani,
lui che lavora da Silo di' Testi in San Miniato, arriva fino in
piazza a richiamare Lisetta a casa, c'è da apparecchiare. A ruota
arriva il suo cognato il Moncalvini che si ferma subito a casa.
Intanto la Maestra Rossi Noemi, zia della famosa Eleonora Rossi
Drago, è l'imbrunire, chiude il portone ben dopo la fine della TV
dei Ragazzi. Portone rimasto aperto tutto il pomeriggio per noi
bambini, soprattutto per le bambine. I Fratelli Capecchi, Vittorio e
Amedeo, sono sempre gli ultimi ad arrivare, spesso dopo le 8, loro
che abitano in via Ferrucci subito dopo la piazza. Anche Magnino da
Firenze arriva tardi, quando io ho già cenato e le mia cugine Ginina
e Daniela già richiamate da Livia in casa da tempo, per
apparecchiare. Barnaghino arriva appena un pò prima di Magnino. Lui
torna da Empoli con la “Danti & Biagioni” , lui che ha messo
società con il Giunti e il Centi. Beppe Zingoni l'arrotino, che
abita agli ultimi numeri di via Pietro Bagnoli, lo vedi arrivare ma
non si affaccia in piazza. Se ha bisogno, arriva fino dal Giorgi,
quando gli manca qualcosa per bottega. Per ultimi transitano Gino di'
Dainelli che ha chiuso la sua merceria, Enrico Latini dal suo
calzaturificio, l'Altini tipografo. E' un ritiro alla spicciolata,
che non sembra concludersi mai. Qualche luce che non si spenge mai,
qualche portone sempre aperto come quello dell'Ospedale e il turno di
notte della sorveglianza. Mentre qualcuno esce… si va a veglia!! da
Pietro, da Mandorlino, al Circolino, o in piazza dal Micheletti. La
vita che continua e sembra non fermarsi mai, nemmeno di notte.
Poi
c'è il dì di festa, e la Piazza si trasforma. Tutti col vestito
bono, le scarpe tirate a lucido, il fiocco lavato e stirato tra i
capelli di Maurizia, i fiori in mano, il velo a coprire la permanente
appena fatta delle donne. A capo nudo gli uomini, che in coda, appena
dietro all'immagine della Madonna, ...quelli della congregazione del
SS. Sacramento, …cappa d'ordinanza, a portare a turno il simulacro.
E' festa solenne, solennità della Madonna, che in Santa Caterina
porta il titolo di “Divina Pastora”. E noi bambini tutti in
processione! Candela accesa in mano, i primi dietro la croce uscendo
di chiesa verso Pancole per tornare di nuovo in piazza Santa
Caterina, diretti “fuori porta” fino al Padiglione Montegrappa,
al Sanatorio. Festa solenne! La banda a suonare per accompagnare gli
inni alla Madonna che risuonano su tutta la piazza, …la strada in
festa, lumini accesi alle finestre e tappeti ad ogni davanzale. Chi
si affaccia alla finestra. I malati in fila davanti l'ingresso
dell'ospedale. Nessuno assente. Le serrande del Bar di Mandorlino
abbassate a mezza aria, sembrano quasi genuflesse in segno di
rispetto. Le finestre delle suore di San Paolo, aperte a far entrare
musica e canto in quell'ambiente di clausura. E sulla piazzetta di
Pancole, il terrazzino del Ricovero adorno di fiori, lumini, festoni
e tappeti lungo il parapetto a dare il benvenuto e ad accompagnare la
processione in quell'ultimo giro. E ai lati della strada i passanti
in rispettosa attesa, cappello in mano gli uomini, pezzola in capo le
donne anche genuflesse. Nessuno sulla piazza, sul prato o sulle
panchine ad oziare …è dì di festa, e anche solenne in Santa
Caterina.
Ci
sono delle figure fisse che compaiono sempre tutti i giorni e che
istintivamente talvolta ignoriamo per motivi diversi anche se simili.
Almeno a me fanno una certa e identica impressione. Sono il Barbiere
(Baggiacco), il Cappellano (un frate Cappuccino dalla fluente barba
bianca) e il Rosi, che vende anche mobili, ma all'Ospedale gira
quando c'è il morto, perché lui vende anche le bare. E qui ancor
oggi me li rivedo; Baggiacco a fare la barba ai morti, anche se la
faceva pure ai vivi, ...il Frate a dare l'estrema unzione e il Rosi a
fare il suo mestiere, spesso chiamato a proposito da mia madre che si
occupava di vestire i morti.
Quando
poi la festa è grande, come il Natale, e quando dopo ancora, tutti
si ritrovano a festeggiare l'ultimo dell'anno, due sono le
possibilità in quella San Miniato degli anni '50: o il Circolino
della Sciòa o il Circolo dei Signori “di là”. Qualunque sia la
scelta o la possibilità per quelle giovani coppie, …sono giovani
coppie tutti i nostri genitori… noi bambini siamo talvolta di
inciampo e veniamo lasciati in custodia ai nonni. Ma nello Sciòa c'è
l'Ultimo dell'Anno anche per noi bambini. Grande festa a giocare a
tombola, con gradite sorprese in palio, in una di quelle ultime casa
di Via Ferrucci, prima della casa di Pellegrina. Autore, regista,
attore, presentatore unico e inimitabile Marino Taccini. Come non
ricordarsi di Marino!! Sono stati i miei primi “veglioni”, tra
coriandoli, spuma e spumante, vincite a tombola e tante risate fino
alla mezzanotte a buttare piatti vecchi dalle finestre… mai
divertito così tanto!! Marino anche nonno, anche appassionato
partecipe del coro parrocchiale e di quello della Cattedrale.
C'è
poi un momento del tutto particolare che noi bambini e ragazzi
aspettiamo con trepidazione. Sono i giorni della settimana di
Passione. Al termine della messa del Giovedì Santo, “si legano le
campane” che vengono sciolte solo nella notte di Pasqua. In quei
due giorni la piazza e la città, orfana del suono consueto delle
campane ad accompagnare le varie fasi delle giornata… dal
Mattutino, all'Ave Maria, all'annuncio di morti e matrimoni, e delle
diverse celebrazioni. Privati del rintocco delle ore coloro che
lavorano nei campi, viene in soccorso uno strumento nuovo, inatteso,
entrato già nella tradizione locale sia per le modalità di uso sia
per gli orari: la “raganella”. Strumento artigianale di legno,
piuttosto pesante, da portare anche a tracolla, il cui suono nulla ha
a che fare con qualsiasi altro strumento musicale. E' un gracidare
sordo, rumore quasi metallico, frutto del martellamento ripetuto,
quasi fosse un batacchio, su una specie di campana, questa la forma
approssimativa della cella acustica, ma di legno. Risultato! Un
vibrato triste e prolungato, quasi un lamento, in tinta e in linea
con l'atmosfera di questi giorni tristi, i giorni della Passione. E
noi bambini, incaricati a pieno titolo da Duilio stesso, della
gestione della raganella, salvo seguire le istruzioni sui luoghi e
sugli orari da rispettare, partiamo in gruppo per turni, i compiti
ben scanditi. Chi a trasportare e chi a girare la manovella partendo
dal portone stesso della Chiesa, prima “raganellata” che facciamo
durare anche ben oltre ogni bisogno. Altra sosta e altra suonata
all'altezza del monumento ai caduti. Poi di filata, fino in piazzetta
di Pancole per far sentire il suo lugubre richiamo anche nella
vallata che guarda La Scala, per fermarsi quasi sempre, anche se non
dovuto, davanti all'asilo di San Paolo. C'è poi il compito da
eseguire “fuori porta” quel richiamo rivolti verso la valle del
Sasso, fermi davanti al Sanatorio ultima suonata. Si comincia la
mattina di prima ora e si finisce la sera dopo l'imbrunire, ...in
quella Piazza, la nostra piazza come lo era per i nostri genitori e
per i nostri nonni, la raganella sempre la stessa.
Piazza
XX Settembre oggi
Foto
di Francesco Fiumalbi
Persone
in Piazza XX Settembre (Santa Caterina) in occasione della Festa
della Divina Pastora
Foto
della collezione di Giancarlo Pertici
Bambine
nel prato di Piazza XX Settembre
Foto
della collezione di Giancarlo Pertici