lunedì 25 maggio 2015

QUATTRO NOVEMBRE 1966 - Racconto di Giancarlo Pertici

↖ RACCONTI DALLO SCIOA

di Giancarlo Pertici

QUATTRO NOVEMBRE 1966

Quella mattina mio padre partì presto, come al solito. Era festa allora, quel 4 novembre del 1966. E lui come ogni giorno di festa, la mattina la dedica a rifinire qualche lavoro, magari la boiacca ad un pavimento o la stuccatura di un rivestimento giusto per chiudere un cantiere. Per me è l'anno del diploma e quel giorno di festa mi fa comodo per mettermi in pari in “Diritto”, per questo non sono andato con lui a dargli una mano. Me ne sto ancora a letto, in quella camerina singola, a casa di mia nonna, quando qualcuno mi sveglia che sono già quasi le nove.

È mio padre che mi cerca, lui che fino a dopo mezzogiorno non è mai di ritorno. – "Sono partito per andare a Montopoli in Barberia a finire quel lavoro del Ciampini, ma deve essere uscito il Vaghera perché non si arriva alle Capanne. Allora sono andato verso Empoli, volevo arrivare a vedere un lavoro da principiare per il Cecconi tra Brusciana e Castello, ma l'Elsa è di fori e non si passa neppure lì. Allora ho riprovato ad andare a Montopoli passando da Montebicchieri ma nel frattempo anche l'Enzi deve aver dato di fuori, perché alla Borghigiana è tutto un lago" – Questi in sintesi i ricordi, anche se non in ordine, anche se qualcuno fa riferimento probabilmente a fatti successivi, mentre mio padre me li riferisce eccitato e io volo lontano ad immaginare luoghi e fatti.

Il segnale è chiaro – “Alzati che andiamo a vedere cosa è successo” – Vestito in fretta, un caffè dal Bulleri in Piazza e partiamo. – "Proviamo a vedere se si arriva a Marcignana da Primo, l'Anglia è alta e si dovrebbe passare" – Con la Anglia, macchina familiare ben alta da terra, facciamo tanti giri verso Roffia. Cerchiamo di andare verso Ventignano. Facciamo il giro da Calenzano per calare a Poggio a Pino e anche deviando verso il Molin Novo, ma è tutto allagato. Ogni rio, ogni fosso ha invaso strade e campi. Ritorniamo in San Miniato. Verso mezzogiorno sono in cima di Rocca con amici a guardarci intorno; pochi i lembi di terra non invasa dalle acque. Al ritorno a casa la televisione, con poche sbiadite immagini, annuncia che l'Arno ha rotto a Firenze, come già anche la radio aveva annunciato in mattinata.

È il giorno dopo, che di prima mattina, partiamo attrezzati con stivali alti, scope e una balla di segatura, che tenevamo in serbo per togliere la boiacca ai pavimenti. Segatura che ora potrebbe far comodo per altro, mentre ci incamminiamo verso Marcignana. Arriviamo appena fino all'Osteria Bianca, poi è tutta una distesa d'acqua e una pattuglia di Carabinieri ci rispedisce indietro. Andiamo allora in direzione di Brusciana, o almeno tentiamo di farlo, per cercare una cugina di babbo che abita proprio là, appena dopo il passaggio a livello. Strada interrotta e viaggio mesto di ritorno passando da Poggio a Pino fino a San Miniato.

È solo al terzo giorno che viene tolto il blocco del traffico in direzione di Marcignana. A passo d'uomo scivoliamo leggermente, tenendo il centro della strada o quella che riteniamo tale, su un leggero strato di motriglia frammista ad olio e benzina, che ricopre l'asfalto e sembra uniformare il tutto, campi compresi ai lati. Ci guidano, a non perdere l'orientamento, i filari delle viti che costeggiano la strada e che delimitano le fosse dei campi adiacenti. Campi che sembrano essere stati addobbati per un film di fantascienza o di fantasia, uno di quelli della Walt Disney, una moderna “Mary Poppins”. A guardare bene la scena sembra quasi un “Day After” (quando quel film non era ancora uscito) e richiama alla mente immagini, che da lontano fanno pensare a quelle di manichini ammucchiati in una discarica, quelle dei primi fotografi arrivati nei famigerati “Campi di Lavoro” nazisti.

Similmente a gambe all'aria, mucche e vitelli dalla pancia gonfia, sembrano lì in posa, pronti a tirarsi in piedi... se solo qualcuno desse loro una mano. Fanno quasi ombra a polli, conigli, cani e gatti, identici gli atteggiamenti, ricoperti, come sono, quasi tutti, da uno strato uniforme di melma. Solo alcuni piccioni e un branco di faraone sembrano essersi salvate. Guardano, gli occhi sbarrati, la stessa identica scena, dal bordo dei tetti e appollaiati sul filo di ferro delle vigne, in attesa di scorgere qualcosa di commestibile da mettere sotto il becco. Ma la coreografia, che fa da cornice e da sfondo a un'immagine difficile da rimandare verbalmente, perché tale sembra essere, e che se mancasse renderebbe la stessa scena imperfetta, sembra assumere le sembianze o di una surreale “Capannuccia” o di un affrettato Albero di Natale, dove ogni pioppo, chiamato a sorreggere i filari delle viti, è adornato ad arte da improbabili e macabri addobbi, dall'aria tutt'altro che natalizia, messi lì a suggerire e a rendere ben conto di cosa si produca in quantità e per qualità in quella particolare zona dell'Empolese: il vetro.

Mi devo quasi stropicciare gli occhi per credere a quello che mi si para davanti. Anche il Pertici spegne il motore e ferma l'auto. Scendiamo a terra, armati di “schantilly”, i piedi agguantati dalla motriglia che blocca qualsiasi tentativo di incedere oltre, anche se attratti dalla scena che abbiamo davanti. Ogni dove fiaschi e damigiane, prodotte nelle vicine vetrerie in quantità, con fogge e colori diversi, trasportate nei campi e sparpagliate in ogni posizione. Le damigiane sembrano quasi delle innaturali, enormi Zucche, frutto di qualche improbabile mutazione genetica del futuro, nate in abbondanza, sopratutto vicino alle fosse e a ridosso dei filari delle viti, che si alternano quasi strategicamente alle carcasse di mucche e vitelli. E sui filari l'addobbo, strategico e fantasioso al di là di ogni possibile immaginazione, fatto di fiaschi e bottiglie che per un gioco improbabile e inimmaginabile, sono infilate, a capo fitto, nelle canne che sorreggono i filari stessi, mentre il vento, che le fa oscillare, e che si insinua tra i filari, produce suoni che, col tintinnare dei vetri, assomiglia tanto al sommesso avviso del Sacrestano che, al momento della Consacrazione, suona il campanello, mentre in sottofondo quei suoni sostituiscono degnamente il leggero accompagnamento dell'organo. A destra e a sinistra l'immagine è identica, una forma di natura morta, variabili i colori e gli addobbi, tutti simili, nessuno eguale, come colpi di pennello per un quadro all'apparenza astratto.

Poi la ripresa del cammino, con l'acqua a lambire i bordi della strada, fino a ridosso del paese. E proprio lì a sinistra, nella prima corte, la casa di Primo. Visita inattesa la nostra. Impossibile comunicare per i telefoni fuori uso da giorni. – Stiamo tutti bene! Abbiamo solo fame, perché non c'è rimasto nulla o quasi da mangiare. Quel poco ce lo ha dato il vicino di casa. Noi non abbiamo potuto salvare nulla, almeno per il momento. – È così che Primo ci racconta di quella notte, della piena che ha invaso tutto, dell'abbandono della loro casa, tramite una finestra sul tetto dei vicini, dopo essere saliti nelle camere al primo piano e aver dovuto abbandonare anche quelle perché minacciate dalle botti sottostanti che nella notte hanno buttato all'aria i solai del primo piano. È un racconto a più voci, secondo i ricordi e i momenti anche dei figli. Non una parola dalla moglie.

Forse pensa a quanto non ha più, alla cucina andata, ai polli morti, e ai sacrifici andati in fumo. – Non sono passati gli aiuti con le barche a rifornirvi di acqua e viveri? Ci avevano assicurato che tutte le famiglie anche quelle nelle campagne erano state raggiunte dai Vigili del Fuoco e dai volontari. – È mio padre. Pensa a quanto non abbiamo portato con noi, al fatto che ci siamo limitati a portarci dietro solo una balla di segatura e ad alcune paia di stivali trovati dal Bagagli, mentre potevamo ben portarci dietro una spalla del maiale, lavorato appena due mesi prima. – In effetti sono passati nei giorni successivi. – È l'amara constatazione di Primo, che da buon cristiano e da sacrestano impegnato tende a perdonare, la “dimenticanza” – Forse dovevamo fare come gli Ebrei nella fuga dall'Egitto, contrassegnare la nostra porta col “sangue dell'agnello” ossia con la “Falce e Martello” per ricevere gli aiuti, perché si sono dimenticati di noi. Ci hanno saltato non solo al primo giro, ma anche nel giro di ieri. –

Nei giorni successivi gli aiuti arrivano anche a loro, terminata l'urgenza, quando già noi gli abbiamo portato la spalla e due filoni di pane del Perondi. Ma la “festa” alla balla di segatura, negli occhi che brillano di gioia, quelli della donna di casa, sono altra cosa!!! Riempiono il cuore, dando la misura reale delle cose che contano. Ora può tentare di riportare in vita la cucina per riprincipiare a vivere, la donna di casa.
Sembrava il nostro modesto unico tributo all'alluvione, noi che dall'alto della collina di San Miniato, avevamo assistito impotenti al naturale scempio, senza subire nessun danno diretto, mentre sull'altra sponda dell'Arno interi paesi e famiglie vivevano sommersi dall'acqua.

È dopo circa una settimana che passiamo anche noi l'Arno, in soccorso dei parenti di Gina, cugina di mamma, lei che in vecchiaia (già oltre i 50) aveva sposato un Santacrocese, molto più giovane di lei, morto poi prematuramente. Gina che nel giro di pochi mesi era passata dall'appellativo di Zitella a quello di Vedova. Parenti acquisiti quindi, in quanto suocero e suocera di Gina, sorpresi dall'alluvione sulla Via del Bosco, a ridosso del Quartier Cinese, nel loro negozio di articoli di regalo tra il Bar d'angolo e la Sala Corse. Un vero scempio, quello subito, per una quantità inimmaginabile di merce da buttare e per altra da tentare di recuperare almeno in parte.

Le donne, quelle impegnate in prima persona in questa immane opera di recupero, una sorta di “Angeli del fango”, contano così anche nelle mani di Maurizia, di mamma, di Gina, di zia Berta, di Irma e di Anna. È questa la pattuglia di donne discenda da San Miniato a dar man forte. A distanza di così tanti anni, non ricordo bene quanti i giorni di questa operazione, vissuta da pendolari.

Ricordo con affetto e immutata ironia le battute e gli scherzetti sopratutto di Zia Berta, e sopratutto quando “prende per il culo” senza pudore la cugina Gina che dà della “mamma” alla suocera, benché nella realtà questa sia di qualche anno più giovane di lei; mentre un po' alla volta, giorno per giorno, prende corpo e valore, l'opera di recupero, tra risciacqui vari e lucidatura sopratutto, di tutti quegli articoli in vetro e in ceramica che vanno a fare mostra di sé sopra una serie di tavoli di fortuna allineati in giardino. E pochi giorni dopo, già prima della fine del mese, la rimozione degli scaffali vecchi non più utilizzabili e l'allestimento della nuova mostra, tra articoli vecchi recuperati e quelli nuovi appena ricomprati, suggellati da una cena tra amici e parenti. Tra questi anche io e babbo che non abbiamo mosso foglia, accanto ai nostrali “angeli del fango”, quasi a dichiarare la fine di un incubo.



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