domenica 30 agosto 2015

VELOCITA' - Racconto di Stefano Bartoli


di Stefano Bartoli

Velocità

Era una fresca mattina d’inizio primavera dell’anno 1939, o forse del 1940, i ragazzi, come il solito, si stavano ritrovando davanti agli scalini e al cancello che danno accesso al Collegio, in S. Martino.

Il primo ad arrivare fu il Lungo, frenò distendendo le gambe e lasciando strusciare la suola sull’asfalto, poi le tese, rigide e divaricate, e iniziò a muovere i fianchi lentamente, avanti e indietro, appoggiato al sellino della bicicletta che prese a dondolare avanti e indietro.
Poco dopo lo raggiunse Ciccio, guance arrossate, cappello un po’ a sghimbescio, due guance rosse come mele deliziose e quasi immediatamente il Cianci, con il mozzicone di sigaretta all'angolo della bocca che non capivi mai se era accesa o spenta, la tirava lentamente con le labbra, inspirava, traspirava e poi fuori dalle narici, con molta calma, assaporando il gusto del tabacco di una “nazionale”, portava i neri capelli ricci lunghi e arruffati, al naturale. 

Tutti avevano a tracolla un gavettino, fissato di fianco o dietro la schiena, dentro il frugale pasto di mezzogiorno. Ecco Martellone, si alzava sui pedali e pompava giù, prima a destra e poi a sinistra, la bicicletta dondolava da un lato e poi dall’altro e il sellino oscillava vuoto sotto il cavallo dei pantaloni, un fisico possente, una muscolatura impressionante che circondava una struttura ossea di tutto rispetto. Per ultimo arriva lo Smilzo, detto anche Nasello, per quella abbondanza di narici e quella linea del naso un po’ storta ed un po’ gobba. Lui amava scherzarci sopra definendo il Suo profilo “a veliero”. Brevi saluti silenziosi, un cenno della mano, una testa che si abbassa, sguardi che s’incrociano e occhi che sorridono poi gli sguardi cominciano a fissare la strada là davanti, la ripida e breve discesa lastricata che passa di sotto la porta di S. Martino e la strada che curva subito a destra, in discesa. Il Lungo dondola più lentamente, è quasi fermo, Ciccio tira su con il naso e stringe le manopole della bicicletta, il Cianci ha smesso di fumare ed ha buttato in terra il mozzicone.

All’improvviso il fischio del treno lacera l’aria quieta del mattino, è in arrivo da Empoli alla stazione di S. Miniato, è quello il segnale per la partenza della corsa. I ragazzi scattano in avanti e si buttano giù per la scesa, a rotta di collo, la strettoia della prima curva è micidiale, o passi per primo o perdi tempo, Nasello è il più lesto, sorride un po’ beffardo. Un breve tratto e devono affrontare una curva ad U che piega a sinistra, poi la discesa si distende verso il basso, piegata sulla destra in un lungo tratto che si adagia sempre dolcemente a sinistra. Il vento soffia fra i capelli e fischia nelle orecchie, meno male che Ciccio aveva calzato bene il cappello in testa e girato la tesa di dietro, appoggiandola sul collo, altrimenti lo avrebbe perso per strada.

Fatti poco più di trecento metri intravedi sulla sinistra la stradina che porta alla villa dei Mori Taddei, ma non puoi distrarti, in fondo Ti attendono un paio di curve a destra niente male. I ragazzi filano come schegge, la testa incassata fra le spalle e bassa, con la fronte all’altezza del manubrio, i corpi allungati all’indietro, le gambe strette per tagliare meglio l’aria. La difficile curva ad U che piega a destra e inizia l’ultimo tratto, ancora giù, piegando a destra e poi l’ultima ampia curva a sinistra che immette in via Aldo Moro. L’aria asciutta del colle li ha abbandonati e ora sono avvolti dall’umidità della strada pianeggiante, la guazza è caduta abbondante nella notte e lo avverti dalla pesantezza dell’aria. Esaurita la spinta della scesa le gambe devono iniziare a pedalare, i muscoli delle cosce e i polpacci sembrano gonfiarsi nello sforzo, il fiato comincia a farsi più corto, i respiri potenti e affannosi, il sangue riduce la sua portata alla parte alta del corpo e corre giù, dove c’è più bisogno, anche Lui scorre più veloce. Il cuore è uno stantuffo e pompa nel petto, gli occhi dei ragazzi sbirciano le posizioni degli altri senza perdere la concentrazione.

L’incrocio con la Tosco Romagnola è attraversato in un baleno, poi avanti per viale Marconi. Non c’è tempo per ammirare gli alberi fronzuti, si pedala e si soffre per arrivare primi. A un centinaio di metri dalla stazione si sente un secondo fischio, è il treno che riparte diretto a Pontedera, questo macchinista ha furia, accidenti a Lui, oppure sono pochi i passeggeri che sono scesi o saliti, le due operazioni sono durate meno del previsto. Le ultime pedalate sono rabbiose, il Lungo è passato al comando, subito dietro di Lui i Cianci. La stazione, i ragazzi quasi randellano le bici a terra o lungo il muro e iniziano a correre a piedi lungo i binari. Oggi non sarebbe possibile salire ma all’epoca i treni andavano a carbone e prendevano lentamente velocità. Gli ultimi passi di corsa, un salto, la mano destra che afferra il maniglione dell’ultimo vagone e tira su di scatto il resto del corpo. I ragazzi salgono veloci e si girano indietro per aiutare chi viene dopo. Sorrisi allargano le bocche che soffiano per far passare più aria. Dai Ciccio allunga altrimenti fai tardi e il caporeparto ti addebita mezza giornata di paga. Un ultimo sforzo, mani robuste che lo afferrano e lo tirano su e poi tutti dentro il vagone.

I giovani si accasciano sulle panche di legno, attenti a non rovesciare i gavettini, iniziano a parlottare e a prendersi in giro. Fra una ventina di minuti saranno ai cancelli della Piaggio di Pontedera per accedere ai reparti dove si producono motori per aerei, c’è aria di guerra e buona parte delle industrie è stata convertita alla produzione bellica. Ogni mattina, quasi, lo stesso copione poi, all’inizio dell’estate qualcosa cambiò in modo inatteso e repentino. La strada che porta da La Scala a S. Miniato era stata chiusa, non ricordiamo per quale motivo, la corriera blu, per arrivare al centro del paese doveva passare dalla salita che immette in via Guicciardini.

Nessuno dei ragazzi sapeva e la partenza avvenne con il solito copione e la medesima incoscienza.

Scendevano veloci, come sempre, ma alla seconda curva il suono del potente clacson dell’autobus fece Loro gelare il sangue nelle vene. I primi passarono indenni, il penultimo era il Cianci, vide il muso della corriera che si allargava sulla destra e invadeva la Sua corsia di marcia, decise di non toccare i freni, un colpo di reni per piegare rapidamente a destra e allargare la curva, poi a sinistra per raddrizzarsi. Il blu della carrozzeria e il grosso fanale anteriore che quasi lo sfiora e poi …. via é passato. Nemmeno il tempo di rallegrarsi che sente un tonfo sordo dietro di Lui e poi le urla terrorizzate dei passeggeri.

Martellone era l’ultimo, il destino gli aveva chiuso l’ultimo spazio e Lui così grande e possente non aveva la rapida agilità degli altri per provare a “scartare”. La bicicletta e il corpo sono un ammasso contorto sotto il muso dell’autobus, non c’è più niente da fare. Urla di rabbia e di dolore riempiono l’aria non più quieta del mattino. Chi avrà il coraggio di dirlo ai Suoi genitori? Come faremo senza di Lui?

Il Cianci era mio padre e quei momenti lo hanno accompagnato per tutta la vita, li ricordava spesso, anche da vecchio. E quell’incidente ha involontariamente segnato anche la mia. Non ho mai avuto una bicicletta, sono diventato proprietario di una solo da adulto. Quando chiedevo mio padre rispondeva sempre: San Miniato non è un paese da biciclette, troppo salite, troppe discese e troppe curve. Le biciclette vanno bene per chi vive in piano.

A volte aggiungeva: Ho perso mio padre a sette anni, mia sorella poco dopo, uno dei miei migliori amici a quattordici, la perdita di un figlio non la sopporterei. Non mi sento di giudicare mio padre, Lui ha agito sempre nel modo che riteneva fosse migliore per me però io ho un punto di vista diverso e mi sono sempre regolato in modo differente. Io ho sempre consentito ai miei figli di fare esperienze e Li ho spesso anche aiutati a farle, anche se questo, a volte, mi ha dato apprensione.



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