domenica 4 settembre 2016

DA CAPO O DA PIEDI? - Racconto di Giancarlo Pertici

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Racconto di Giancarlo Pertici

Da capo o da piedi?

Domanda questa che oggi risulterebbe priva di qualsiasi significato e che non troverebbe risposta proprio perché susciterebbe, non tanto una risposta, quanto un altra domanda. Per rispondere alla quale, bisognerebbe partire da lontano, almeno nel tempo.

Da bambino particolarmente fortunato, quale ero, forse una volta che nonno Nuti non era a casa ma in uno dei suoi soliti viaggi a Firenzuola, la prima volta che mi trovai a rispondere a tale domanda, ero con zia Pia che, sorridente, mi infilava il pigiama. Io intanto, inginocchiato, aspettavo il momento della preghiera prima di entrare a letto. In quella cameretta, l'unica, casualmente a solo, di casa Brucci, affacciata tramite una porta a vetri su 'Gargozzi', in quegli anni 50 ci entrava appena una rete da una piazza e un canterale ai piedi, a fare da camera a l'ultima ragazza da marito rimasta in casa. Le altre già tutte sistemate anche se con esiti diversi. Ma quella notte, la prima forse, per dormire mi toccava di farlo insieme a zia Pia. Tempi quelli nei quali era raro, parlare o anche solo pensare alla stanza, dove si era soliti passare la notte, come a 'camera propria'. Pensieri e concetti da signori e non da figli del popolo abituati da sempre a 'condividere' tutto, anche il letto.

Da quando in casa Brucci anche Umbertina, con figlie al seguito, era rientrata da Livorno dopo la fine del matrimonio, gli spazi si erano nuovamente ristretti. I due giovanotti di casa, Magnino e Barnaghino, a dormire nel salottino buio, in due reti da una piazza. Nell'unica camera con vista e luce sulla valle un lettino bastardo per tre: Berta e figlie. Berta da capo e le figlie da piedi. Nella camera buia di mezzo e di passaggio il letto matrimoniale con tanto di bandoni di Livia e Musolino, i vecchi di casa.

In casa Vannini noi avevamo una camera tutta per noi. Ma dopo la nascita di mia sorella ben presto mancò il posto per un altro letto. Per me è l'occasione per condividere con nonno Nuti, oltre ai momenti nell'orto o in giro per San Miniato o nella camminata pomeridiana nelle campagne, anche la notte. Il nostro è un letto da una piazza e mezzo, testata di bandoni e materasso di vegetale. Letto destinato a cambiare camera adeguandosi ai bisogni anche degli altri, fino alla mia entrata in seminario per il primo letto tutto mio, da una piazza. Per quello è nonna Livia che mi fa fare su misura un materasso di lana: dote minima per accedere al seminario. Lana tutta di recupero da coltroni e materassi di famiglia. Sono anni quelli nei quali non si butta via nulla. Quando muore anche il più misero dei miseri in quegli anni, anche se sembra non possedere nulla, ha sempre qualcosa di prezioso da lasciare, da conservare o riutilizzare: materasso, cuscini e coltrone. Fu così che qualche coltrone vecchio diventa il mio materasso da una piazza per il seminario, cuscino compreso.

Mentre al mare, in colonia, alla Stella Maris a Calabrone, per me come per tutti i bambini del dopo guerra, è la prima vera esperienza di un letto tutto mio, con tanto di 'copertina' a righe di cotone, tutte uguali, in una camerata di oltre 20 lettini tutti in fila con tanto di comodino in una camera luminosa, a più finestre: un lusso, come sembrano sottolineare gli occhi meravigliati di tutti quei bambini del popolo.
Quando invece è il momento delle vacanze al Leccio o agli Alberi, si pone la stessa identica domanda. Con zia Gina e zia Margherita al Leccio dormo da capo il cuscino appoggiato sotto quel grande finestrone che si affaccia proprio dell'Egola. A gli Alberi, quando arriva anche zio Alberto, mi tocca a dormire da piedi tra zio a zia, ma solo al ritorno da veglia, mai prima delle 11.
Poi, all'uscita di seminario con materasso al seguito, seminuovo, visti i suoi cinque anni di vita, dopo un brevissimo periodo in una di quelle stanze buie di casa Vannini, trasmigro fuori casa, nel salottino buio di nonna Livia, ora che si è trasferita accanto a San Rocco e che Umbertina e figlie hanno messo su casa per conto proprio.

Ma il primo ricordo, del primissimo letto, resta quello della cameretta buia di soffitta, contiguo alla culla, appena dopo la nascita di Maurizia, mia sorella. Ricordo di un materasso, forse l'unico, di sfoglie, e di quella buca al centro che quasi mi calamita e dalla quale cerco invano di sfuggire. È forse anche per questo che quasi ogni notte 'evado' per calarmi dalle sbarre, dentro quella culla, finendo addormentato tra le braccia di mia sorella. Così almeno nei ricordi di mamma, che alla mattina ci ritrovava abbracciati e pisciosi.

Poi arriva il momento, codificato anche negli usi, di 'rifare' il materasso. Non tutti gli anni. Ma a turno in casa ogni anno c'è almeno un materasso da rifare, senza contare quelli che arrivano in eredità e consigliano qualche rifacimento eccezionale. Sveglia di prima mattina, sgomberando una stanza dove lavorare, anche se spesso il lavoro si fa in terrazza, in quella terrazza in dotazione alle nostre due stanze del mezzanino in casa Vannini. Se il materasso è di lana, quasi sempre è così, il lavoro è fatto a mano, almeno in parte, teso ad allargare ogni singolo fiocco. E l'immagine che mi è rimasta di quei momenti, almeno la prima, è legata all'arrivo già la sera avanti di Alfredino, il figliolo di Rosmunda, a portare la cardatrice, una sorta di pendolo con dei chiodi a fungere da pettine per allargare la lana divenuta compatta.

Poi la mattina presto, dopo aver aperto il sacco e dopo aver svuotato il contenuto sopra un lenzuolo, quella massa compatta prende la via della terrazza e, grazie al vento, disperde nell'aria e nell'orto sottostante fibre esauste e granuli di polvere compatta, finché non ne rimangono che fiocchi di lana che pare quasi infeltrita. Mentre mamma, quale prima operazione, lava a mano il sacco e lo tende al filo a prendere il primo sole che arriva da Pian delle Fornaci e dintorni, Alfredino principia a lavorare la lana alla cardatrice, per una prima passata, mentre compaiono mani generose ad allargare un fiocco alla volta, per un lavoro che pare non finire mai; le dita, quasi tutte femminili, col passare delle ore, che si indolenziscono così tanto da reclamare requie. È qui che entra in ballo il soccorso del vicino, di tanti vicini, che a turno prendono posto a sedere su quelle seggioline tronche sistemate, alcune in cucina, altre in terrazza, talune anche nel giardino sottostante di casa Vannini. Lana recuperata nell'aspetto e in tutta la sua sofficità che, un po' alla volta, ritorna in camera sopra un telo pulito adagiato sul letto in attesa che il sacco sia asciutto.

Poi è la volta di Alfredino, ma molto più spesso è nonna Livia che reclama la maggiore esperienza, visti i letti disseminati in casa Brucci e i figli da custodire. Livia che accuratamente inizia a riempire il sacco, cercando la maggiore uniformità possibile, dai lati al centro, un po' più colmo nel mezzo sempre con l'uso esclusivo delle mani. Ogni tanto una scrollatina al tutto sbattendolo sulla rete. Un'occhiata a traguardare gli angoli e gli spigoli, con una palpeggiatina su tutta la superficie prima di decidersi all'operazione finale: la chiusura del sacco. Poi le fettuccine a orlare i lati, quelli sopra e quelli sotto, e un ago da lana, dai 15 cm in sù, per trapuntare il sacco, ad intervalli regolari per renderlo omogeneo di spessore. Operazione che si conclude sempre nel pomeriggio. Aria di festa ma con quel pizzico di tensione nell'aria che la massaia di casa dispensa con le sue occhiate cariche di preoccupazione, mentre calcola mentalmente il momento finale, per poter rifare il letto per la notte, per il capoccio di casa, alternate a sorrisi elargiti ad ogni arrivo di chi si accomoda da qualche parte ad allargare lana.

Una pausa pranzo frugale. Per quei pochi che rimangono, ma sono veramente pochi, un piatto di pasta che la 'signora' Corinna prepara ogni volta sulla 'scepre dell'orto'... carica del sentire di salvia e ramerino. Mentre a camera rifatta, ripristinato l'ordine in cucina con tanto di tavolo e sedie, sul finire degli anni 50, arriva il gelato confezionato Algida da Pietrone; pinguini per tutti, sopratutto per noi bambini.

Nel frattempo Alfredino, caricata la cardatrice sull'ape, nel salutare noi tutti di casa, e dando un'ultima occhiata al materasso tornato a nuova vita, in segno di augurio, ma sottovoce, quasi in tono confidenziale... quasi "ché altri non sentano"... accompagnandola, quella occhiata, con quella che può sembrare una carezza, a rasare quasi tutta la superficie del materasso a nuovo, dopo un sospiro e dopo aver ripreso fiato... fa "è come tutte le cose nuove, ma nel giro di una settimana ci si dovrebbe dormireee.." strascicando quell'e finale, come per non nominare il nome di Dio invano.




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