Nastraie, erano chiamate le
ragazze e le spose che lavoravano in Borgonuovo, nella fabbrica del sor Silvio
Pontanari.
È da non credere, ma Borgonuovo, negli anni tra
le due guerre, era la “zona industriale” di San Miniato! In centro metri di
strada c'erano il mulino del Messerini, tenuto d’occhio, dalle scale di casa
sua, da Beppone, factotum nel paradiso della farina e ba-bau per i bambini che
passavano in strada; il frantoio del Franceschelli, uomo fatalista, che di ogni
evento incolpava le monache perché si sciancavano;
la fabbrica dei nastri del Pontanari e, più avanti, il frantoio della Barnini.
In seguito, la fabbrica dei nastri era passata
al Volpini. Come il cavalier Pio, uomo di gran peso nella sanminiato democristiana,
fosse venuto in possesso della fabbrica del sor Pontanari, fattosi fuori con
una schioppettata, era un mistero, tipo di quelli noti a tutti!
Il posto dove il Pontanari si era sparato una
domenica sera, me l’avrà mostrato mille volte, mia madre, operaia al
nastrificio per quasi sett’antanni, liquidata con pensione al minimo e
necessariamente gratificata con l’integrazione dello Stato Italiano! Quando
finalmente arrivò alla pensione, non si capacitava di come le potessero dare
quella miseria: era entrata in fabbrica che
ancora l’unità d’Italia non era compiuta, ed ne era uscita che s’andava sulla
luna! Ci doveva per forza essere un errore.
“Ci credo, signora, che lei abbia lavorato tutti
codesti anni; è il suo padrone che se n’è dimenticato!”, si sentì dire quella
volta che andò all’Inps! E a costui non venne in mente neppure alla fine: preferì chi non aveva fatto nulla
per lui, alle operaie che per lui avevano fatto tutto! Ma lasciamo perdere!
Cominciai a bazzicare la fabbrica prima ancora dell’asilo
di Suor Maria Pia a San Paolo, e ci tornavo tutte le volte che mia madre non
sapeva a chi lasciarmi. Ero il coccolino delle operaie. Non mi perdevano
d’occhio un attimo nei rari momenti che potevo gironzolare tra gli orditi e i
rocchetti di cotone. Per lo più dormivo nella cassa dove finivano i nastri tessuti
da mia madre; non di rado scambiando il posto con qualche topo di passaggio!
La fabbrica mi pareva immensa; tutte le stanze
erano occupate da macchinari sempre in movimento, in un frastuono che cambiava ogni
volta che un telaio s’inceppava, qualche arriccio si strappava o il rocchetto
usciva dalla navetta.
Le fabri’ine
(erano chiamate anche così) l’ho conosciute tutte: quelle che ci lavorarono
poco tempo, e le altre che ci andarono in pensione. Ricordo pure Santi, il
meccanico. Non aveva un attimo di respiro; c’era sempre qualche guasto da
riparare. Viveva da solo dentro la fabbrica in una stanzina al secondo piano a
ridosso del magazzino delle spedizioni. A stargli dietro ci pensava un po’ mia
madre lavandogli i panni, ma soprattutto portandogli da casa qualcosa da
mangiare. Non erano avanzi: la prima porzione era per lui.
Successe una notte di primavera del ’43 che mia
madre sognasse Santi, morto qualche mese prima. Lo incontrò alla curva del
piazzale, nel sogno.
“Che fai qui?” gli chiese lei.
“Sono venuto a ricompensarti. Prendi questi
cinque numeri e mettili sulla ruota di Firenze”. Al momento di salutarsi, a mia
madre venne in mente che era sabato e il botteghino era chiuso. Lo disse a
Santi. “Mettili la settimana prossima” rispose lui, nel sogno.
Appena fece giorno, svegliò il figlio Carlo e lo
spedì in bicicletta a Empoli a mettere i numeri. Uscirono sparpagliati su
diverse ruote. Lei continuò tutta la vita a giocare quei numeri e mai una volta
che uscissero tutti insieme sulla stessa ruota!
Mia madre, Concetta, era una specie di
capofabbrica per la sua anzianità lavorativa: apriva e chiudeva la fabbrica; dava
una mano alle operaie meno esperte; riparava i guasti come le aveva insegnato
Santi; era un riferimento per tutte quando capitava un imprevisto.
Viene da dire che le operaie fossero una
famiglia, anche fuori dalla fabbrica: né poteva essere altrimenti dato il tempo
che passavano insieme sei giorni su sette, mattina e pomeriggio, a volte dopo
cena, erano al telaio, alla filanda, all’ arcolaio.
Unico svago, la chiocciolata, con le marinelle
e i martinoni, raccolti nell’orto della fabbrica e debitamente cotti in
umido, a modo nostro, affogati nel pomodoro con un bel battuto di zenzero, una
specie di pic-nic che facevano tutte
assieme sul prato della rocca, a Ferragosto.
Quando in rocca non poterono più andare, causa le
macerie della torre, le ferie le facevano
al mare! Pio noleggiava il Giglioli ed il Santini per un giorno dalla mattina
alla sera. Le spediva a Marina di Pisa, a sue spese. Un anno tonarono che era
buio pesto, per un guasto al taxi. La mamma di Ludina, al massimo della
preoccupazione, minacciava fuoco e fiamme contro la figliola. Addirittura
giurava di metterla “ in una foglia di ginepro” ( sarebbe a dire: “in un guscio di noce”), come se il ritardo
fosse dipeso da lei. Quando la vide, che
era quasi mezzanotte, l’unica cose che seppe dirgli fu se aveva cenato.
Il lavoro
non mancava mai, neppure negli anni delle guerre. Anzi, in quei periodi alle
commesse delle ditte di Prato, si aggiungevano quelle del Poligrafico dello
Stato con ordini di forniture massicce di nastri grigioverde e tricolori.
A scompigliare tutto ci pensò il passaggio del fronte
bellico nell’estate del ’44. La fabbrica si salvò dalle mine, ma l’eccidio del
duomo colpi duramente le persone. Mia madre perse il figlio ventenne; Pio tre
familiari, tra cui la figlia Vittoria; molte operaie ebbero la casa distrutta
dalle mine. A stento, il lavoro riprese a metà del ’45!
Tina Gazzarrini, le sorelle Bonistalli, Wanda e Milia, Gina di
Frillo, Riccarda, Viviana , Ardenia non rientrarono: avevano trovato lavoro
altrove. Mia madre ritornò in fabbrica che già Vittoria Ciarini, Valeria di’ vValentini,
la Parri con le nuove arrivate avevano ripreso il lavoro da mesi.
Non era facile ricominciare dopo quanto era
successo!
Invece l’affetto reciproco, intrecciandosi con le
vicende personali di ciascuna di loro, generò una sincera amicizia che durò fin
quando una alla volta se ne andarono, non solo dal lavoro. Ludina di’ pParri fu
la prima: non aveva compiuto cinquant’anni! Viveva con la madre nel palazzo
degli Stipendiari e le “bambine”, così Concetta e Luisina chiamavano le operaie
più giovani, l’assistettero giorno e
notte.
Nel dopoguerra era arrivata in fabbrica anche
Luisina. Nata e vissuta in Borghizzi, dagli anni ‘20 si era trasferita per
qualche tempo in Sicilia e poi dalle parti di San Donnino, dove ogni anno, fino
alla morte, sarebbe ritornata a trovare gli amici. Rientrata a San Miniato dopo
il ’45, legò subito con tutti, specialmente con Concetta, per via dell’età.
Imparò subito ad arrangiarsi a pari delle altre quando il telaio si fermava.
Saliva sullo scaleo, strisciava sotto il telaio, senza far pesare il suo
disagio per gli acciacchi dell’età: aveva pure un’anca semi-bloccata. Una delle tante volte che il nipote più piccolo
venne a trovarla in fabbrica, per un gelato o per qualche figurina, non la
trovò. Il telaio era fermo. Nessuno ne sapeva niente. Era qui, ora; era là…., Hai
visto Luisina? Ma Luisina non si trovava, mi raccontava mia madre. Qualcuna si
mise a chiamarla, ma il rumore dei telai copriva la voce. Pensò di aspettarla:
prima o poi da qualche parte sarebbe arrivata, nello spogliatoi o aveva la
borsa e i panni. Appoggiata al muro dietro il telaio c’era una scala: Luisina - ormai aveva quasi ottant'anni, era salita lassù, e distesa sul l’orditoio sistemava il cotone da infilare con la passina nei pettini. Questo facevano le nastraie, come se il telaio fosse un'appendice del loro corpo.
Alla fine degli anni ’50 morì quasi improvvisamente Pietrino, il
figlio di Pio e la sua morte segnò il destino della fabbrica. Pio, riaprendo la
fabbrica subito dopo la guerra, pensava soprattutto all’avvenire di questo
figlio, orfano e solo suo erede. Ora però si sentiva stanco e demotivato.
Tirarono avanti, un’altra decina d’anni, Maria
Branzi – la Branzina - Giovanna di
Ghiandone, Valeria, Vittoria, Luisina e mia madre, che non intendeva smettere.
Quando finalmente si decise, Pio vendé a Bighero!
La fabbrica rimase aperta ancora per qualche
tempo con tre operaie più giovani a cui si aggiunsero alcune giovanissime
apprendiste e la gente di casa Taddei. I telai furono sostituiti con macchinari
moderni per aumentare e diversificare la
produzione. Ma i locali, gli impianti, tutto l’ambiente era fuori dalle norme
di sicurezza : la fabbrica rischiava la chiusura.
Non rimase altro da fare: portare la produzione
a San Miniato Basso, dove Bighero aveva un opificio in funzione da anni, e
chiudere la fabbrica dei nastri.
Pio fece appena in tempo a vedere la sua
fabbrica trasformata in appartamenti: morì alla Casa di Riposo Del Campana
Guazzesi, ove si era ritirato, regalando tutto alla Cattedrale.
Foto Collezione Maria
Branzi
Per gentile
disponibilità
Da sinistra a destra: Concetta Benvenuti (madre di Giuseppe Chelli), Luidina Parri, Valeria Valentini e Maria Branzi
Foto Collezione Maria
Branzi
Per gentile
disponibilità
Da sinistra a destra: Tina Gazzarrini, Vittoria
Volpini, Liduina Parri, Wanda Bonistalli, Pio Volpini, Pietro Volpini, Vittoria
Ciarini, Santi, ??, Concetta Benvenuti, Viviana Ciarini, Emilia Bonistalli
Foto Collezione Giuseppe
Chelli
Per gentile
disponibilità
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