venerdì 13 maggio 2016

COME LIBELLULE - RACCONTO DI GIANCARLO PERTICI


Non è mai un silenzio assoluto. È un silenzio diverso. Quello che precede quella calma apparente, quella calma piatta che improvvisa irrompe sulla polverosa piazza di paese, in piena estate ad inizio pomeriggio, e che la rende indefinibile, come se il paese fosse disabitato: un paese fantasma. Calma che pare annunciata già dalle mandate con le quali Nello serra il portone del mulino, dopo aver fermato le macine, prima di gridare - 'Butta la pasta' - a Marina che, affacciata alla finestra di cucina, ogni giorno a quell'ora di mezzo, è in attesa di un segnale. Segnale che ha effetto 'domino', come se l'orologio di paese - che non c'è - si mettesse a battere l'ora convenuta; segnale per la bottegaia di piazza, che rimette le imposte e serra la bottega di commestibili, aperta dalle 7 di mattina. Segnale per la 'Venta', che cava dal forno l'ultima infornata di pane insieme alle teglie di patate e al pane riscaldato del giorno avanti.

A ruota, anche per l'autofficina del Leoni, che è anche autonoleggio e pare non chiudere mai.. ma appena passato il 'tocco', spente tutte le luci, riposte chiavi e cacciaviti anche se a portone aperto, mentre scocca l'ora del pranzo e della pennichella ...il Leoni sale in casa. Stesse identiche mosse la parrucchiera d'angolo che chiude a due mandate la porta del negozio, anche se non c'è nulla da sottrarre, forse un po' di shampoo. Se qualche bicicletta si annuncia, sua la scia di polvere sollevata sulla via e sulla piazza, è per il ritorno a pranzo del manovale, degli uomini ad opra nelle vigne del Masi, e quanti tornano con l'ultima corriera che fa tappa all'incrocio per 'le Mura'. È sempre così sul finire degli anni '50 quando sulle strade polverose, sopratutto di campagna, transitano solo vecchie corriere, qualche autocarro o qualche motociclo. Poche le autovetture.

Poi silenzio assoluto, che tutti sembrano rispettare iniziando dai piccioni che di solito stazionano davanti al mulino in attesa delle puliture e degli avanzi, e che a quell'ora si rifugiano nella soffitta del mugnaio e sopra il forno. Le nane di Marina fanno ritorno dal loro giro, lungo e dentro l'Egola. Partite alle prime luci dell'alba, sono state avvistate anche a tuffarsi nell'ultima pescaia, dopo il ponticino in ferro e fin verso la Sughera, e a rastrellare fino all'ultimo granello rimasto nei campi ai lati, oramai mietuti del grano e dell'orzo. Anche i passerotti e le rondini sembrano osservare le consegne. In quell'ora di mezzo solo le mosche volano indisturbate nel loro sozzo rito quotidiano ad indicare dove è passato l'ultimo carro di buoi, lasciandone fresche tracce. Solo un ronzio, appena percettibile tra il frinire delle cicale, che talvolta si perde nel silenzio. È un frinire così intenso e costante che pare quasi di non sentirlo. Anzi! Non lo senti. È questa l'ora di mezzo in estate, quando anche la via che sale verso la Sughera resta deserta, e la polvere che staziona sempre a mezz'aria scompare all'improvviso come nebbia al sole estivo, deposto sui rovi e sulle more ai lati l'ultimo velo.

È l'ora di mezzo che in estate annuncia il pranzo e il successivo momento della siesta, per tutti o quasi. Per noi bambini che in estate, in quegli anni '50, ci ritroviamo su quella piazza, è il momento buono per 'altro'. Partiamo. Per dove, non sempre lo sappiamo. Certamente all'aria aperta, tra sole ed ombre, a vivere il nostro pomeriggio in piena libertà verso nuove scoperte, diverse ogni giorno... per un gruppo, il nostro, piuttosto misto. Tutti maschietti, o quasi, dai 7 fino ai 12 anni a ritrovarsi alla pescaia dietro il mulino. Io, che, ospite fisso di zia Rosanna in estate, esco di casa insieme a Renato; stesse scale, io al primo piano, lui al secondo. Cesare e Pietrino dall'altro lato della piazza. Il figliolo di Umbertina, di cui non ricordo né il nome e neppure il soprannome, ha sempre idee nuove e strane ogni giorno. E anche quel giorno annuncia la sua idea su per l'Egola, alla caccia di pesche. Quelle di pasta bianca, che lui solo conosce. Sa dove sono, le ha già assaggiate: sono mature.

E in quell'ora, dentro Egola, lì seduti, dietro il mulino, sul bordo di quella pescaia, i piedi immersi fino alle caviglie, all'ombra del noce di Nello, facciamo la conta di chi arriva e di chi manca. Aspettiamo il via che coincide quasi sempre col rumore delle macine riavviate da Nello, mentre qualche mamma, dalla piazza si affaccia a turno per accertarsi di dove siamo e cosa stiamo combinando. Qualcuno arriva attrezzato di lenza e amo. Qualcun altro ha preso in prestito, senza farsene avvedere, il bilancino, di cui suo nonno è particolarmente geloso. Sandali in mano, a piedi nudi, in perfetto silenzio, abbandoniamo la postazione d'attesa e iniziamo a risalire quel tratto che è tutto ombreggiato, prima dell'ansa esposta a pieno sole. Una leggera brezza inizia ad intrufolarsi in quell'immobile pomeriggio e in quel silenzio surreale. E il frinire delle cicale pare ondeggiare avanti e indietro, come un eco mal riuscito. Le more e i rovi, dai colori immacolati, neppure sfiorati dalle polveri che ricoprono ogni cosa a bordo strada; quei roghi che pendono dalle rive fin quasi a toccare, in alcuni punti, il letto e l'acqua cheta, non paiano neppure accorgersi di quella brezza leggera, anche se ne fremono, mentre questa si insinua tra foglia e foglia, con fare gentile. Brezza leggera che fa ondeggiare quella che sembra una colonia di libellule, che a quell'ora riposa, tra sole ed ombra, qualcuna a mezz'aria, altre come nell'atto di abbeverarsi nell'acqua che in quel punto è perfettamente stagnante, tiepida sotto i nostri piedi.

E noi, in perfetto silenzio, rasentando la sponda a monte libera da rovi e da arbusti, per non rompere quel clima magico che sembra tenere insieme, legata per fili invisibili, quella colonia silenziosa, ma anche a passo svelto, strusciando i piedi, evitando qualsiasi rumore, passiamo oltre, fino ai margini della segheria. In lontananza il 'flop' di un tuffo, seguito da altri 'flop' a segnare il nostro avvicinamento a quella pozza sempre al sole, regno indiscusso di ranocchi e girini, che rompono quel silenzio nel loro gioco ripetuto all'infinito; un po' lo stesso gioco che nella grande pescaia a monte, i più grandi, quelli che sanno nuotare, fanno sotto gli occhi meravigliati di noi più piccoli. E sguardi nascosti, gli unici, spettatori ogni giorno della stessa scena, svelano la loro discreta e distratta presenza che si nota solo a momenti, quando i rovi e le fronde mosse dalla leggera brezza, lasciano intravedere sopratutto merli in cova.

Li riconosci dal becco giallo e dai voli in libertà da e verso la siepe nel loro rituale in cerca di cibo, abbondante in estate. E intanto cerchiamo di far perdere le nostre traccie, mentre a stormi una miriade di pesciolini cambia sponda, fuggendo al nostro passaggio per rifugiarsi sotto i rovi che sfiorano o si immergono sotto l'altra sponda. Lo facciamo lasciando l'illusione, a chi si è affacciato dietro al mulino per l'ultima volta, che nostra intenzione è starcene lì, quieti quieti con i piedi a mollo, a non far nulla, sopratutto a non fare malestri. Operazione che riesce quasi sempre. A volte si conclude con la defezione di chi, in retroguardia, viene raggiunto da un ordine perentorio che non ammette repliche. È quasi sempre una mamma o un nonno che s'avvede all'ultimo momento del cambio di programma del gruppo e corre ai ripari, e che sbotta - "Torna subito a casa!" -

Qualche moccioso, spesso a seguire il fratello più grande, vorrebbe unirsi al gruppo, e con successo anche, fintanto che restiamo fermi nei dintorni di casa. Ma appena ci muoviamo, siamo noi più grandicelli, a lasciare indietro quelli troppo piccoli, quelli che non possono arrampicarsi su per le pareti della pescaia, o risalire sulle sponde piene di rovi per giungere così ai piedi del pesco in estate e del noce o del fico a settembre. Li lasciamo, spesso a 'frignare' seduti sugli scalini del forno, anche se rischiano di richiamare l'attenzione di qualche mamma.

Mentre ci incamminiamo proprio diretti a quel campo che si apre ai piedi della segheria, giusto alla fine di quella specie di laguna, enclave preferita di libellule di ogni tipo e colore, che ci lasciamo alle spalle, immobili a mezz'aria, per nulla turbate dal nostro rispettoso passaggio. Passaggio in apnea, in punta di piedi, il nostro, lo sguardo rivolto alla meta che appena si intravede oltre la curva, oltre la segheria, e che riflette la luce del sole sulla sua superficie: la prima grande pescaia. È quasi sempre, ma non sempre, la nostra meta. Dipende da chi si ferma per primo, tra i più grandi, infrangendo la consegna del silenzio, oramai a distanza di sicurezza. Quasi un boato costellato di risate, dal risciaquìo dei tuffi a ripetizione, che si consuma nel giro di pochi minuti fino a quando ci disperdiamo, ma a distanza di uno sguardo, in tanti piccoli gruppetti, comunque a portata di voce.

I più grandi al centro della pescaia, dove non si tocca. Qualcuno si inerpica per i ciglioni e raggiunge il pesco o il fico di turno, tutto dipende dalla stagione, a fare incetta del necessario per l'ora di merenda. Scalzi e semi ignudi, facciamo il giro delle pozze alla ricerca dei pesciolini rimasti prigionieri. Chi getta la lenza, chi invece tenta la sorte col bilancino. Una scaglia di mattone basta a ridisegnare sopra uno scoglio liscio lo schema del 'filetto': pochi sassi e si gioca a turno. Ore che sfuggono veloci al nostro controllo. Senza riferimenti veri, nessuno con l'orologio, andiamo avanti a sensazioni, prevalentemente epidermiche quando il sole va a nascondersi oltre la siepe. Come nel Paradiso Terrestre è in quel momento che ci accorgiamo di essere nudi, o quasi nudi. I pochi vestiti sopra un masso. I primi brividi di freddo, difficile asciugarsi all'ombra. La brezza, sempre la stessa, ora non è più tiepida, ma pizzica la pelle. I polpastrelli delle mani e dei piedi avvizziti. È l'aria che è cambiata, ridisegnata da nuove creature e dai loro voli radenti, quando, le ombre allungate, riprendiamo il cammino in quel corridoio tra il cielo e il corso del rio.

Nessuna traccia delle libellule dell'ora di mezzo, ora il cielo è solcato da decine e decine di rondini a fare la spola, da un ciglione all'altro, scansando miracolosamente ognuno di noi, qualunque mossa facciamo. Sono loro che col loro garrito stanno tentando di avvisarci dell'ora tarda. È un po' che le sentiamo ed ogni volta rimandiamo la partenza, fino all'ultimo. Partenza in disordine sparso, chi prende a destra, chi a sinistra, chi risale fino alla strada maestra, per fare ritorno su quella piazza in mille rivoli, possibilmente arrivando contro sole, quel poco che ne è rimasto, quasi a suggerire altri passatempi, altri luoghi, lontano da pericoli.

La piazza è particolarmente animata in quell'ora che sta per annunciare l'ora di cena. In bottega per il quartino di vino, per la boccetta dell'olio e per qualche etto di pasta. L'autofficina, ora che i più sono tornati dal lavoro, fa da rimessaggio anche per motori e motocarri. Il forno, qualche volta, ma non sempre, è in funzione ad ospitare teglie colme di patate, qualche arrosto sopratutto di nane, di cui è popolato l'Egola. Frenesia particolare sottolineata dalla radio che a quell'ora diffonde le ultime notizie e le ultime canzoni, sopratutto dell'ultimo Festival della Canzone Italiana di Sanremo.

Qualche strillo, il chiaro segnale di qualche sculaccione andato a segno, seguito da un pianto dirotto, a fare la spia che non tutto è andato liscio. Dai capelli e dai panni fradici è facile capire dove siamo stati tutto il pomeriggio. Ma 'nonna Marina' con me non fa mai una piega. Non mi domanda neppure dove sono stato. Non gli mentirei. Sa che di regola non faccio malestri. Mi accoglie sempre con un sorriso. - "Aiutami ad apparecchiare, che tra poco torna zia e zio. Ma prima vai al mulino da Nello, ti deve mandare in giro per commissioni. Ma fai alla svelta. Stasera per cena... pastasciutta e nana".- "E collo di papero" - faccio io di rimando, a completare e sottolineare una specie di filastrocca che declamiamo a turno ogni qualvolta, una delle nane di Marina viene sacrificata, col olive ...sull'altare... ovvero nel forno della Venta.




Foto dell'estate del 58 nell'autofficina di piazza
trasformata per l'occasione in salone per il Pranzo di Nozze
tra Brucci Alberto, detto Barnaghino e Rosanna Gennai.

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