domenica 17 marzo 2019

[18/18] SAN MINIATO NELL’ISTORIA FIORENTINA DI LEONARDO BRUNI ARETINO



18 [1396] Congiura di Benedetto Mangiadori

Per la venuta di tante genti nimiche i Fiorentini cominciarono a temere, e subito condussono a soldo messer Bartolomeo pratese e gli altri condottieri congregati insieme, come se la loro compagnia fussi finita, e compartironli per le terre. Era venuto in questo tempo Bernardone chiamato per capitano generale dal popolo fiorentino e diputato a tutta la importanza delle cose, il quale era di nazione guascone, e nientedimeno consueto lungo tempo per Italia al mestieri dell'arme. Costui menò seco secento cavalli e più di dugento fanti pratichi alla guerra. Con queste genti si fermò a Samminiato e Fucecchio. Oltre di questo, richiesti i Bolognesi e gli altri collegati di favore, mandarono alcuni ajuti, benché fussino pochi e venissino molto tardi.
In questo mezzo Paolo Orsino e Ottobuono da Parma si mossono colle genti di quello di Pisa e entrarono nel contado di Lucca: dove congiunti col conte Giovanni da Barbiano, aspettavano la venuta del conte Alberigo di Lombardia, e scorrevano ostilmente tutto il paese. Essendo i Lucchesi posti in gran pericolo, domandavano gli ajuti dei Fiorentini : a’ quali deliberando i Fiorentini di sovvenire, ordinarono che Bernardone capitano si muovessi da Santo Miniato e passassi per la via di Fucecchio in quello di Lucca. Trovandosi adunque nel contado de' Lucchesi l'esercito de' Fiorentini, e essendo ognuno vòlto a quelle parti, messer Jacopo d'Appiano, che molto innanzi l'aveva fabbricato, fece impresa di pigliare Samminiato.
Era Benedetto Mangiadori samminiatese uomo nobile a casa sua e insino allora riputato fedele. Costui, trovandosi in quello tempo a Pisa, messer Jacopo d'Appiano con grandi premj lo dispose a fare un grande e pericoloso fatto: e questo fu di prendere subitamente Samminiato, e levato il romore, pel mezzo dqgli amici suoi e degli ajuti che vi sarebbono a tempo tórre quella terra a’ Fiorentini. La cosa pareva da riuscire, perché nessune guardie de' Fiorentini erano rimase dentro, e grande numero di genti nimiche si trovavano a Pisa e nelle circostanze da potere essere a Samminiato in poche ore. Il modo del trattato era ordinato in questa forma. La residenza e casa del vicario posta in sulle estreme parti della terra stava in maniera, che di dentro e di fuori si poteva entrare e uscire. Deliberò adunque occupare questa, e mettere dentro per quella via il soccorso de’ nimici. Il perché, composto la cosa a questo modo, Benedetto con diciassette cavalli si mosse da Pisa, e in sulla prima ora della notte giunse a Samminiato: e poi che fu nella terra così armato e con quegli compagni che avea menati seco, se n’andò al vicario, come se avessi a significare qualche cosa d'importanza e di necessaria prestezza, e fu messo dentro senza alcun sospetto. Lui, come fu condotto innanzi al cospetto del vicario, trattò fuori l'arme, l'assaltò insieme co’ suoi, e non avendo sospetto di tal cosa, l’ammazzò: di poi, levato il romore e chiamato i terrazzani alla libertà, fece segno a’ nimici che venissino con prestezza. I terrazzani, spaventati da prima, stimando che fussino i nimici collo esercito e non si fidando l’uno dell' altro, stavano in grande timore: ma passato alquanto di tempo, non comparendo alcuno soccorso de' nimici, si ragunarono insieme, e confortando l'uno l'altro, deliberarono assaltare quelli del trattato. Il perché con grande impeto s’appresentarono alla casa del vicario: e bench’ella fussi forte, e quelli che l'avevano occupata egregiamente la difendessino, nientedimeno chi da una parte e chi dall'altra la combattevano e mettevano fuoco nelle porte. Finalmente quegli che v'erano dentro, non si confidando potere resistere a tanta forza e non vedendo comparire alcuno sussidio, cominciarono a fare pensiero di fuggirsi. Benedetto di notte per certi precipizj s’uscì della terra, e de’ suoi compagni ne fu presi alcuni, e gli altri fuggendo e occultandosi scamparono. La casa del vicario fu ricuperata dopo mezza notte, che era stata presa in sulle prime tenebre.
Era circa mezzanotte, quando a Firenze venne la novella, come il vicario era suto morto e la sua casa presa, e i nimici erano chiamati e aspettati. Il perché i magistrati per questa novella feciono chiamare prestamente i cittadini, e tutta la città stette quella notte in grande timore, perché pareva loro, se avessino perduta una terra fortissima di sito e capace di grande moltitudine di gente, dove potevano fare la sedia della guerra, correre pericolo della libertà: e stimavano certamente sì grande numero di gente nimiche essere ragunate a questo fine. Consultando adunque quello fussi da fare di questa cosa, e stimando senza dubbio la terra essere perduta, in sul fare del dì venne un altro avviso, che riferì la terra essere conservata e quegli del trattato cacciati fuori. Per questa seconda novella la città ne prese tanto conforto, che gli parve essere liberata da grandissimo pericolo: e maravigliandosi, come il soccorso non era venuto a quegli del trattato, si trovò, che venendo di notte  la fanteria de' nimici, sì riscontrò negli aguati de’ nostri, che per altra cagione s'erano posti a voler pigliare gli usciti: e per questo i nimici stimarono il trattato essere scoperto, e tornaronsi addrieto. E in questa maniera più tosto a caso si venne a salvare la terra che per alcuna providenza degli uomini. Ma fatto alto il giorno, Ceccolino fratello di Biorclo, venendo colle genti d'arme a cavallo, trovò quegli del trattato essere stati cacciati: il perché prestamente si ritornò a Pisa.
Dopo il trattato scoperto a Santo Miniato, il capitano dello esercito fiorentino si ritrasse di quello di Lucca a Fucecchio, e veduto il pericolo di quello trattato, attendeva solo a guardare le terre. In questo mezzo il conte Alberigo, capitano generale del duca Giovan Galeazzo, colle sue genti d'arme era cavalcato in quello di Siena, e convocato appresso di sé tutti gli altri condottieri: e in questa forma tutte le genti nimiche s'erano messe insieme.

L. Bruni, Istoria fiorentina di Leonardo Aretino tradotta in volgare da Donato Acciajuoli, Felice Le Monnier, Firenze, 1861, pp. 568-571.



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