domenica 26 dicembre 2010

lunedì 20 dicembre 2010

IL NUOVO ORGANO

di Carlo Fermalvento


E’ stato inaugurato, giovedì 17 dicembre 2010 il nuovo organo a canne, interamente meccanico, della chiesa della Trasfigurazione del Signore di San Miniato Basso. Decine le persone presenti alla cerimonia presenziata dal Vescovo di San Miniato Mons. Fausto Tardelli. Presenti anche il Vescovo Emerito di Volterra, nonché Presidente Emerito dell’Associazione Nazionale Santa Cecilia, Vasco Giuseppe Bertelli e il Sindaco di San Miniato Vittorio Gabbanini.
Padre Theo Flury, monaco dell’Abbazia benedettina di Einsiedeln e docente al Pontificio Istituto di musica sacra a Roma e la Corale di San Genesio, diretta da Carlo Fermalvento, hanno allietato il pubblico con una splendida liturgia-concerto tratta dall’esperienza di San Filippo Neri.

L’Organo della Chiesa della Trasfigurazione opera di Nicola Puccini

Padre Theo Flury durante il concerto

La Corale di San Genesio durante il concerto

Costruito con passione e competenza dall’artigiano organaro Nicola Puccini di Migliarino (Pisa), l’imponente strumento musicale, con le sue 1500 canne, è collocato alla sinistra dell’altare, a destra per chi entra. Si aggiunge, così, un tassello fondamentale per la nuova chiesa progettata dall’arch. Silvia Lensi e inaugurata nell’aprile 2009.
Questo organo non è un normale strumento del suo genere. Si tratta infatti di un Organum Anticum, cioè di un Organo Anteriore, tipologia, in fase di brevettazione, ideata proprio da Nicola Puccini. Questo rivoluzionario modello a canne, unico in Toscana e secondo in Italia, prevede la posizione dell’organista rivolto verso l’altare e l’assemblea, in modo da seguire le liturgie senza dare le spalle al celebrante e, all’occorrenza, dirigere anche il coro.
Le particolarità del nuovo organo di San Miniato Basso non finiscono qui. Sono stati inseriti, oltre al tradizionale apparato sonoro, anche alcuni “effetti speciali” accessori, come usignoli, timpano, tremolo, carillon e zampogne, rendendo possibile anche l’esecuzione del repertorio ottocentesco italiano e di leggere in chiesa le Fiabe Musicali.

Nicola Puccini, maestro organaro, assieme alla sua opera


La Voce liturgica dell'Organo

La storia c’insegna che la partecipazione degli strumenti allo svolgimento dei riti religiosi è un fenomeno riscontrabile, senza limitazione di aree geografiche o di tipologie culturali e cultuali, in periodi ben precedenti all’avvento del cristianesimo.
Come scrive in un suo studio Mons. Giuseppe Liberto, intorno alla liturgia cattolica, così come nei riti di altre confessioni religiose, parlare di evento sonoro, sia esso vocale che strumentale, non può prescindere dalla presa di coscienza di quel legame psicologico che ci porta, attraverso la musica, ad una maggiore percezione degli stati d’animo cui siamo soggetti.
Il termine “strumento” indica il “mezzo”, nel caso specifico “mezzo espressivo”, nel nostro caso “mezzo idoneo” ad esprimere l’evento liturgico.

L’organo della Chiesa della Trasfigurazione, particolare

Da un primo periodo, del quale è nota a tutti la diffidenza di alcuni Padri della Chiesa nei confronti di qualsiasi strumento musicale nelle celebrazioni liturgiche, si è passati gradualmente ad accogliere l’organo all’interno della chiesa. Perse quelle connotazioni che lo legavano alle dissolutezze della società romana, erano tangibili i vantaggi intrinseci dell’organo nel sostegno delle voci. L’uso o il riuso dell’organo non può perdere però la sua iniziale finalità.
L’organo di chiesa nasce con una destinazione ben precisa: quella del servizio al culto e non certo l’altra con finalità concertistiche, anche se queste poi verranno praticate con una esplosione creativa fascinosa.
A partire dal IX sec., l’organo consolidò la sua presenza all’interno dei riti cattolici. Poco a poco poi gli si affiancarono anche altri strumenti, dai fiati rinascimentali ai grandi complessi orchestrali barocchi e romantici. I Papi dovettero richiamare ad una maggiore sobrietà musicale all’interno della liturgia perché la musica prendeva sempre più spazio sonoro occultando o prolungando indebitamente lo svolgimento naturale dei riti.

L’organo della Chiesa della Trasfigurazione, particolare

E’ noto l’intervento di Benedetto XIV con la sua enciclica Annus qui del 1749 nella quale il Papa dà i necessari ammonimenti generali circa il vero stile musicale da chiesa. Il concertismo e poi il teatro d’opera avevano preso campo e stile nella liturgia. Lo stesso intento ebbe Pio X nel 1903 col suo ben noto Motu Proprio. L’organo, intanto, rimane lo strumento quotidiano delle celebrazioni liturgiche. La sua validità pratica ed artistica resta sempre fortemente attuale.
La svolta della riforma liturgica conciliare metterà in chiaro l’uso dell’organo nella Liturgia con documenti ben precisi e norme chiare. Ovviamente non sarà più ammissibile che l’organista domini arbitrariamente la celebrazione, come spesso si faceva prima del Concilio, ma sarà altrettanto inammissibile che l’organo sia considerato il tappabuchi della situazione. Si tratterà allora di coordinare i compiti dei vari e diversificati ministeri liturgici che, nel rispetto dei ruoli e delle norme celebrative gestiscano gli spazi rituali con specifiche competenze. L’esercizio di un ministero comporta sempre svolgere un servizio.
La destinazione primaria dell’organo è quella cultuale, l’unica che giustifichi l’esistenza dello strumento all’interno delle chiese. L’organo è innanzitutto a servizio dell’assemblea orante. La musica che accompagna i canti deve essere perfettamente adatta ed espressiva alla sua funzione cultuale; non è perciò fine a se stessa, ma destinata a servire la celebrazione del Mistero rivelato da Dio e messo in opera dalla Chiesa.

L’organo della Chiesa della Trasfigurazione, particolare

Non basta conoscere la musica per interpretare la preghiera; è necessario che si conosca dall’interno e per esperienza la natura liturgica di questa preghiera. L’edificio-chiesa non è sala da concerto o galleria d’arte, ma luogo sacro in cui la comunità orante si raccoglie per rendere culto a Dio santificandosi. L’organo è strumento che, a modo suo, aiuta a realizzare questi fini primari.
La seconda destinazione è quella culturale. Nel corso dei secoli, l’organo ha subito modifiche e mutazioni finalizzate alla naturale evoluzione dello stesso strumento, con particolare attenzione alla resa tecnico-fonica, sempre nel rispetto del proprio ruolo a servizio liturgico.
Senza queste evoluzioni con le diverse tipologie esistenti in ogni epoca e in ogni luogo con preziosi e polifonici adattamenti epocali ed ambientali, oggi suoneremmo ancora l’organo idraulico di Ctesibio.

L’organo della Chiesa della Trasfigurazione, particolare

Abbiamo quindi una storia quasi millenaria che ci mostra quanto siano sempre state fruttuose per l’evoluzione dell’arte organaria le variegate osmosi tra tecniche ed estetiche di epoche diverse e di luoghi distinti. Questo ha fatto sì che ogni tipologia storico-stilistica della letteratura organistica avesse lo strumento esteticamente adatto a potere riprodurla.
Così la Congregazione del Culto Divino istruiva: «Creino nelle chiese un ambiente di bellezza e di meditazione che aiuti e favorisca, anche in coloro che sono lontani dalla chiesa una disposizione a recepire i valori dello spirito».

domenica 12 dicembre 2010

INTERPRETAZIONI CERAMICHE

di Francesco Fiumalbi

La facciata del Duomo di San Miniato ha da sempre suggerito particolari stimoli di riflessione. La sua grandezza, il suo fascino. In tutto questo la presenza dei cosiddetti “bacini” ceramici gioca un ruolo decisamente di primo piano.
Si tratta di manufatti prodotti dalla cottura dell’argilla con vari additivi, quali feldspati, allumina, ossido di ferro, quarzo, (1) dalla tipica forma di un recipiente per liquidi e per questo prendono il caratteristico nome di “bacini” (2). Al supporto, di color “cuoio”non uniforme, per le condizioni non costanti di cottura, è applicato uno strato di smalto in diverse colorazioni (3). Si notano vari pigmenti, come il bianco, il bruno, l’azzurro e il verde, frutto dell’utilizzo di minerali come il cobalto e la manganese. Lo strato di finitura non presenta una qualità elevata, in quanto steso in modo parziale o irregolare (4).

Facciata del Duomo di San Miniato
Foto di Francesco Fiumalbi

Questi elementi costituiscono il supporto per affascinanti raffigurazioni: all’interno dei bacini “superiori” si trovano animali, particolari architettonici, motivi decorativi di varia foggia, e presentano una dimensione maggiore rispetto a quelli “inferiori” che, invece, contengono forme ovali riempite da graticci, che richiamano vagamente a certi tipi di conchiglie. Originariamente erano in numero di 32, oggi ne rimangono soltanto 28.

Secondo gli studi effettuati da Berti e Tongiorgi (5), in occasione dei restauri avvenuti fra il 1979 e il 1980, tali manufatti ceramici potrebbero essere di manifattura maghrebina, anche se non si possono escludere provenienze diverse. A tale conclusione sono giunti attraverso l’analisi della materia prima, della fattura delle lavorazioni e dallo studio delle raffigurazioni. Probabilmente, questi elementi furono trasportati da imbarcazioni pisane, che per aumentare la propria capacità di carico, e quindi i guadagni, riempivano lo spazio fra le anfore con tali manufatti ceramici.
La disposizione dei bacini sugli edifici religiosi è una pratica molto antica e, per certi aspetti, ancora molto da chiarire. Questo uso decorativo, almeno nella parte centrale della Toscana, è caratterizzato da due fasi. In un primo tempo, si assiste ad un posizionamento di bacini in stretto rapporto con gli elementi architettonici presenti in facciata, per esempio all’interno degli archetti pensili di coronamento, come nelle chiese di San Zeno, San Piero a Grado e San Martino a Pisa. Successivamente, i bacini assumono una connotazione diversa nell’orchestrazione della facciata: perdono gli schemi più antichi, assumendo un ruolo decisamente indipendente, come nella chiesa di Santo Stefano extra Moenia (Pisa), nella Pieve di San Giovanni Evangelista a Monterappoli, nella Pieve dei Santi Ippolito e Biagio a Castelfiorentino, nella chiesa di San Pietro a Marcignana e, appunto, nel Duomo di San Miniato (6). Per le prime è stata indicata una datazione fra il 1000 e la prima metà dell’XII secolo, mentre per le seconde fra la seconda metà dell’XII secolo e la metà del ‘200.

Per vedere gli edifici a cui si fa riferimento, cliccare sui link qua sotto:

 Chiesa di San Pietro, Marcignana, Empoli
Foto di Francesco Fiumalbi

L’esempio costituito dalla facciata del Duomo di San Miniato, fra quelli elencati, è forse uno dei più tardi, in cui i bacini vanno a costituire un preciso disegno. Come notano Berti e Tongiorgi, gli elementi ceramici sanminiatesi sono stati inseriti al momento della costruzione della facciata (7). Questo particolare, già ipotizzato dalla Cristiani-Testi (8), è risultato evidente nel 1979 allorquando i bacini furono rimossi dalla loro collocazione per poter essere sottoposti ad operazioni di restauro conservativo.

Abbiamo visto cosa sono questi bacini, come sono fatti, quali modelli architettonici hanno ispirato la facciata del Duomo di San Miniato. Siamo giunti alla fatidica domanda: quale significato hanno questi elementi ceramici?
Non è assolutamente facile rispondere. Innanzitutto occorre precisare che esistono due interpretazioni molto diverse fra loro: una lega i bacini ceramici alla simbologia cristiana, mentre l’altra si limita al dato puramente estetico-decorativo. Analizzeremo entrambe e proveremo a trarre una conclusione.

1. SIMBOLOGIA TEOLOGICA:
“La stella bianca e verde al sommo del fastigio sta per la Stella Polare, punto di riferimento e guida ai naviganti, ai fedeli; ed i bacini delle due zone sono raggruppati secondo il disegno delle costellazioni, dei carri delle Orse; quindi se la facciata, battuta dal sole, doveva riverberare per la cristallina dei bacini, gli splendori della volta celeste. La Chiesa terrena, come il Regno eterno, la stella polare e le Orse, poste a trasfigurante similitudine e concetto”.
Canonico Lorenzo Cavini, 1969 (9).

2. DECORAZIONE ESTETICA:
“I bacini architetturali articolano direttrici di visuale divergenti e di nuovo convergenti rispetto all’asse della facciata (…) secondo una composizione apparentemente di totale libertà inventiva, nella quale invece l’estro giocoso dell’apertura pluridirezionale e del cromatismo più raffinato non esorbitano mai da una rigorosa e sorvegliata intenzione formale. (…) Si soddisfa così al duplice scopo di porre gli archetti degli spioventi laterali come passaggio necessario alla comprensione di questa originalissima concezione architettonica, ed insieme di predisporre un’ulteriore convergenza verso il fastigio superiore.”
Maria Laura Cristiani Testi, 1967 (10).

Bacini ceramici della facciata del Duomo, particolare
Foto di Francesco Fiumalbi

Queste sono le due interpretazioni relative alla disposizione dei bacini ceramici sulla facciata del Duomo di San Miniato. Come avrete notato, le due tesi sono state sviluppate nella seconda metà degli anni ’60 del ‘900. Chi ha scritto sulla Cattedrale, negli anni successivi, come si è comportato?
Dilvo Lotti nel 1981 afferma che l’ipotesi del Canonico Cavini sia quella corretta, sostenendo che gli schemi della Cristiani Testi siano decisamente troppo fantasiosi e privi di coerenza formale con la reale apparecchiatura muraria (11).
Berti e Tongiorgi, sempre nel 1981, affermano l’esatto contrario: l’ipotesi della Cristiani Testi è plausibile, definendo la sua analisi “brillante” (12).
Nel 2004, Onnis basa la trattazione dei bacini ceramici su quanto aveva precedentemente affermato la Cristiani Testi, definendo la sua opera “fondamentale” (13).
Ad oggi, sul sito internet del Comune di San Miniato, si afferma che i bacini si trovano addirittura sulla facciata della Torre di Matilde, riportando poi l’ipotesi del Cavini relativa all’Orsa Maggiore e l’Orsa Minore.
Stessa interpretazione riportata anche in altri siti internet:
In questi altri, invece, si tace prudentemente sull’argomento:

Ma come stanno veramente le cose? Quale significato attribuire ai bacini ceramici della facciata del Duomo si San Miniato? Teologia o formalismo estetico?

Iniziamo dalla tesi avanzata dalla Cristiani Testi. L’allieva di Ragghianti, propone uno schema compositivo della facciata, all’interno del quale andrebbero ad inserirsi i bacini ceramici.

La Facciata del Duomo di San Miniato
secondo lo schema compositivo proposto dalla Cristiani Testi
Ricostruzione a cura di Francesco Fiumalbi

Occorre precisare che nel 1967, al momento in cui scrive, la Cristiani Testi non disponeva dei mezzi avanzati per il raddrizzamento fotografico che abbiamo oggi. E così, un po’ per imprecisione e un po’ per corroborare la sua tesi, afferma che i bacini ceramici si dispongono secondo precisissimi assi convergenti, nella parte superiore, e divergenti, in quella inferiore. Come invece appare evidente dalla nostra immagine, tale circostanza non avviene, almeno non nei termini avanzati dalla Cristiani Testi. Addirittura la griglia che propone, tenendo fermi i nodi superiori, non va a coincidere esattamente con il basamento. Si tratta, è evidente, di una forzatura grafica.

Particolare dello schema compositivo proposto dalla Cristiani Testi per la facciata del Duomo di San Miniato

Come possiamo vedere nel particolare proposto, nessuno dei bacini si inserisce perfettamente all’interno della griglia. Non si riscontra nemmeno quella raffinata geometria a cui allude la Cristiani Testi, se non, in modo del tutto parziale, soltanto nei bacini “inferiori”.
Negli anni ’60 del secolo scorso, era molto frequente la ricerca di griglie distributive, sia per i progetti di nuove costruzioni, sia per lo studio dei monumenti più antichi. SI tratta per lo più di inutili e fuorvianti costrizioni grafiche. Con l’affermarsi di metodi di controllo fotografico tecnologicamente avanzati, molti delle ipotesi basate su presunti schemi sono venute a cadere. In un certo senso, non è del tutto fuori luogo l’affermazione sulla scarsa attendibilità dello schema, avanzata da Dilvo Lotti (14). Anche perché uno schema compositivo del genere non tiene conto minimamente di cosa succede al coronamento, vale a dire in quella parte della facciata prossima alla copertura, sia centralmente che lateralmente, e risulta impensabile che, ammettendo il rigore geometrico dell’ignoto progettista, queste parti non siano coerentemente orchestrate col resto della facciata.

Passiamo ora a verificare la tesi “teologica” avanzata dal Canonico Lorenzo Cavini, secondo la quale, i bacini “superiori” andrebbero a disporsi formando il disegno dell’Orsa Maggiore da una parte e di quella Minore dall’altra.

Rappresentazione schematica della tesi del Canonico Lorenzo Cavini

Polaris, NASA, ESA, N. Evans (Harvard-Smithsonian CfA), and H. Bond (STScI), Hubble, 2006
Immagine di pubblico dominio, secondo le disposizioni sulla licenza NASA:

Come possiamo vedere, confrontando lo schema proposto dal Cavini con la reale conformazione celeste detta “Polaris”, ovvero il sistema della Stella Polare, i due modelli non sono neanche lontani parenti. Tralasciamo il discorso sulla rotazione del sistema stellare, in quanto chi avrebbe progettato la disposizione dei bacini ceramici potrebbe aver adottato un diverso sistema di riferimento. Tuttavia le incongruenze sono molteplici. I bacini ceramici sono 8 per parte, più la Stella Polare, per un totale di 17. Le due Orse, quella Minore e quella Maggiore, ne hanno soltanto 7, compresa la stella polare: 14 in tutto.
Ammettendo che l’Orsa Minore sia alla parte sinistra e quella Maggiore sulla destra, uno dei metodi per riconoscere la Stella Polare è quello di prolungare la linea individuata da due precisi elementi del Carro Maggiore, che per questo prendono il nome di “Puntatori” (15). Come invece appare evidente nello schema sulla facciata del Duomo, prolungando l’asse dei due puntatori, si arriva ad un punto privo di qualsiasi significato. La stessa circostanza avviene anche considerando i due sistemi a parti invertite.
Qualcuno potrebbe avanzare la critica a questa verifica affermando che in fondo la composizione dei bacini ceramici è una raffigurazione simbolica e che non ha certo la pretesa di avere una qualche precisione scientifica. E invece no. Se l’anonimo progettista dello schema distributivo delle ceramiche avesse compiuto un ragionamento di così alto livello teologico, secondo voi, sarebbe poi caduto in una rappresentazione scadente, incongruente e del tutto approssimativa? Senza contare che le raffigurazioni all’interno dei bacini denotano immagini che non hanno niente a che vedere con l’astronomia o la teologia. In più questa tesi non propone nessuna spiegazione riguardo alla disposizione dei bacini “inferiori”. E allora come è possibile che gli elementi superiori abbiano un significato così elegante e complesso mentre quelli inferiori non ne abbiano alcuno?
E’ stato ipotizzato dalla Cristiani Testi, con buona ragione, che la costruzione di questa facciata sia da attribuirsi a maestranze federiciane (16). E come è possibile che Federico II di Svevia, così attento all’astronomia (17) (18), avrebbe poi lasciato un’opera così maldestramente orchestrata?
Anche questa tesi non sta in piedi.

Bacini ceramici della facciata del Duomo, particolare
Foto di Francesco Fiumalbi

Le due interpretazioni sono affascinanti, ma non per questo altrettanto corrette. Alla luce di tutte queste considerazioni che hanno, di fatto, messo in discussione oltre 40 anni di ricerche, quale significato hanno davvero i bacini ceramici?

Probabilmente nessuno. O meglio, non hanno un preciso significato teologico e nemmeno così fortemente compositivo. La soluzione dell’enigma è forse più semplice di quanto si pensi.
Verosimilmente i bacini vanno a “mitigare” quella che altrimenti sarebbe stata percepita come una cortina muraria possente. Troppo possente per una chiesa. Si tratterebbe quindi di opere di “alleggerimento” formale e di impreziosimento materico. Non si spiega altrimenti. Sia i bacini che gli elementi marmorei sarebbero, secondo questa ipotesi, incastonati per conferire eleganza, slancio, armonia. Non è un caso che il colore chiaro contrasti col rosso vivo del laterizio, che la disposizione sia, di fatto, libera da costrizioni geometrico-distributive della facciata. Mera decorazione.
Diverso è il discorso riguardo all’intarsio marmoreo (con alcuni incavi per alloggiare pietre preziose o forse elementi in metallo) che il Canonico Lorenzo Cavini ha riconosciuto come la stella polare. Probabilmente indica un altro corpo celeste: il Sole. Non è un caso che la Stella Polare nella simbologia più diffusa sia rappresentata da otto punte (19) mentre questo elemento non ha “punte”, ma piuttosto dei “raggi”. E non 8, ma 14.

 
La composizione marmorea che indicherebbe la “Stella Polare” secondo la tesi del Canonico Lorenzo Cavini. Forse si tratta di un simbolo legato al Sole.
Foto di Francesco Fiumalbi

Riferimenti biblici al simbolo del sole legati a Dio o a Gesù ne troviamo a decine. Di seguito si riportano due fra i più significativi.

“La mia giustizia sorgerà come un sole e i suoi raggi porteranno la guarigione...il giorno in cui io manifesterò la mia potenza, voi schiaccerete i malvagi...
Libro di Malachia, 3, 20-21

“Grazie alla bontà misericordiosa del nostro Dio, per cui verrà a visitarci dall'alto un sole che sorge per rischiarare quelli che stanno nelle tenebre e nell'ombra della morte e dirigere i nostri passi sulla via della pace
Luca 1, 78-79

Il “sole” e la “croce passante”
Foto di Francesco Fiumalbi

Le parole del Vangelo di Luca “un sole che sorge” sono molto significative. Come si nota dalla foto, al di sopra dell’intarsio che abbiamo indicato come il Sole vi è una croce “passante”, ovvero un vero e proprio buco nella muratura. Considerando che l’orientamento della chiesa è pressoché disposto lungo l’asse est-ovest è facile verificare come la luce del Sole passi direttamente dal buco nei momenti che seguono l’alba. La luce del Sole che filtra attraverso la croce. Purtroppo durante il giorno la facciata, seguendo il moto terrestre, ruota e si dispone in una diversa posizione rispetto al Sole, vanificando il simbolo che invece si viene a creare all’alba. Ed ecco che al di sotto viene posizionato proprio un Sole. Proprio quel sole che indica, come abbiamo visto, la Passione e la Resurrezione, quindi la vita di Gesù, il vero sole che non tramonta mai.

"Di nuovo Gesù parlò loro e disse: «Io sono la luce del mondo; chi segue me, non camminerà nelle tenebre, ma avrà la luce della vita»". Gv 8,12

Non è un caso neppure che il giorno festivo dedicato alle celebrazioni religiose sia la domenica, ovvero il giorno anticamente dedicato proprio al Sole. Di questo rimane nella cultura anglosassone la dizione di Sunday, il giorno del Sole. Nella tradizione cristiana la domenica è invece la Pasqua settimanale, infatti Gesù è risorto il giorno dopo il sabato.
Anche la data del Natale di Gesù, la festa in cui i cristiani celebrano il mistero dell'Incarnazione era, in epoca pagana, la festa del Sol Invictus, il Sole Invicibile, con chiaro riferimento al solstizio d'inverno. Infatti, dopo tale data il Sole, anche se di pochi minuti, riprendeva campo sulle tenebre. Nel IV secolo, non avendo ancora fissato una data precisa per la festa del Natale, l'Imperatore Costantino ufficializzò questa data simbolica, rafforzando la figura di Cristo come vero Sole, che porta la vera vita.


Come si è precisato in molti altri articoli, anche questo non può definirsi un’opera esatta, né tantomeno compiuta. Potrebbero esserci approssimazioni, errori di valutazione, come solo chi tenta di dare risposte alle continue domande può commettere. Invito quindi chiunque abbia qualcosa da dire a farsi avanti. Il bello di questo blog è che si può anche criticare chi scrive. Vorrei che ciascuno di voi si ponesse le stesse domande che qui vengono proposte. Interpretare l’ambiente che ci circonda non è mai facile e la possibilità di un sereno dibattito non può che far crescere ciascuno di noi.

Se tu hai una mela, e io ho una mela, e ce le scambiamo, allora tu ed io abbiamo sempre una mela per uno. Ma se tu hai un'idea, ed io ho un'idea, e ce le scambiamo, allora abbiamo entrambi due idee.

(Inizialmente si era supposto un collegamento con il simbolo del sole con 14 raggi con il numero delle stazioni tradizionali della via Crucis, dove la 15-esima, il cerchio centrale, sarebbe stara ad indicare la Resurrezione. Passione e Resurrezione di Cristo, che si  è fatto vero uomo per la Salvezza del mondo. Questa tesi è erronea in quanto il rito della via Crucis ebbe inizio sul finire del '200 e si diffuse in Europa solo a partire dal 1342. Tale datazione contrasta con quella della realizzazione dell'intarsio (20))


NOTE BIBLIOGRAFICHE:
(1) http://it.wikipedia.org/wiki/Ceramica
(2) http://dizionari.corriere.it/dizionario_italiano/B/bacino.shtml
(3) Berti, Tongiorgi, I Bacini ceramici del Duomo di San Miniato, Sagep Editrice, Genova, 1981, pag. 13
(4) Ibidem, pag. 15.
(5) Ibidem, pag. 16.
(6) Ibidem, pag. 14.
(7) Ibidem, pag. 16.
(8) Cristiani-Testi Maria Laura, San Miniato al Tedesco, Marchi e Bertolli, Firenze, 1967, pag. 43.
(9) Lotti Dilvo, San Miniato nel Tempo, Pacini Editore, Pisa, 1981, pagg. 84-85.
(10) Cristiani-Testi Maria Laura, Op. Cit., pag. 44-45.
(11) Lotti Dilvo, Op. Cit., pagg. 84.
(12) Berti, Tongiorgi, Op. Cit. pag. 7.
(13) Onnis Francesco, Biografia di una architettura, in AAVV La Cattedrale di San Miniato, Pisa, 2004, pag
(14) Lotti Dilvo, Op. Cit., pag. 84.
(16) Cristiani-Testi Maria Laura, Op. Cit., pag. 41
(20) http://it.wikipedia.org/wiki/Via_Crucis#Stazioni_tradizionali

domenica 5 dicembre 2010

MONUMENTO AI GIARDINI

di Francesco Fiumalbi


Ai Giardini Pubblici davanti piazza Dante Alighieri c’è un piccolo, quanto curioso, monumento. Per la precisione, è situato in prossimità del cosiddetto “chalet”. Molti di voi lo avranno certamente notato e chissà, fra i più giovani, in quanti si saranno soffermati a cercare di carpirne il significato.


Il monumento ai Giardini Pubblici di Piazza Dante Alighieri

Innanzitutto, la prima cosa da chiederci è per quale motivo sia stato realizzato e da chi. Girandoci intorno, sul lato nord, cioè quello che guarda in direzione dello chalet si rintraccia una scritta. Seppur un po’ consumata dal tempo e parzialmente rivestita da una piccola colonia di muschio, risulta ancora leggibile, anche se non più così chiaramente.


Monumento ai Giardini, particolare dell’epigrafe


Questa scritta, è curioso, non si nota a prima vista. Bisogna “farci” l’occhio. Vale a dire che se qualcuno vi passa davanti di sfuggita non la noterà mai, vuoi per la modesta incisione, vuoi perché si trova praticamente a ridosso di una siepe.
Ing. Arch. Mario Salvadori, d’antica famiglia sanminiatese, creò questi giardini decrescenti da questo storico colle verso l’operosa pianura. Nel centenario i cittadini ricordano grati”.
Ecco, adesso si spiegano molte cose. E’ quindi il monumento celebrativo per il centenario dalla costruzione dei giardini. Infatti in prossimità dell’epigrafe troviamo anche due date 1883 – 1983.

Monumento ai Giardini, particolare

Il progettista, dunque, fu Mario Salvadori, omonimo del Mario Salvadori ingegnere strutturista della Columbia University negli Stati Uniti, di qualche decennio più giovane. Si tratta di uno strano caso di omonimia. Chi desidera avere informazioni sull’omonimo Mario Salvadori:

Ma il “nostro” uomo è un altro: è l’artista di questa composizione. In realtà non vuole farsi chiamare artista, ma più semplicemente “capo mastro”. Si chiama Silvano Bini.
E’ veramente incredibile come da mani così tozze e consumate da anni di duro lavoro in cantiere, possano uscire delle piccole/grandi opere di scultura. Come questa.


Il monumento ai Giardini Pubblici di Piazza Dante Alighieri

Fu Dilvo Lotti che lo contattò per farlo. Silvano Bini accettò e realizzò per la Città di San Miniato questa sua opera, come detto, nel 1983.
Con questo monumento celebrativo ha sicuramente raggiunto l’obiettivo di incuriosire, di far avvicinare, di porre delle domande. Cosa sarà mai? Che significato ha?
Ed è geniale il mix di elementi che attraggono l’attenzione del passante. Non si può non fare a meno di soffermarsi davanti, anche solo per un momento. La risposta a tutto sta nella parte retrostante, vicino alla siepe. Il centenario dei giardini.

Il monumento ai Giardini Pubblici di Piazza Dante Alighieri

In quest’opera si ritrovano molteplici aspetti ludici. Innanzitutto il puzzle: l’arte di incastrare piccoli tasselli diversi per costituire un complesso che va oltre al significato di ogni singolo elemento. Questo accade sia con gli elementi in laterizio del basamento, ma anche fra le varie parti della composizione: laterizio, pietra, ferro. Materiali da costruzione. Grezzi, talvolta poveri. Ma sapientemente orchestrati in modo da creare nuove forme, nuovi significati. Non si può non notare l’aspetto ironico nell’essere così apparentemente casuale all’interno di un ambiente fortemente progettato, calibrato, qual è quello dei Giardini Pubblici. Una sorta di “ciuffo ribelle”, che non si piega, che vuol far vita a sé, ma che dipende dal contesto, senza il quale la sua rivoluzionaria posizione non sarebbe più tale. C’è anche un aspetto teatrale nelle figure scolpite, in pietra. Sono come maschere.

Monumento ai Giardini, particolare
 

Non è un caso che Silvano Bini, si compiaccia del fatto che i bambini sono i maggiori fruitori della sua opera. E’ molto contento di questo. Ed ha il solo rammarico per quella siepe sul retro: impedisce ai bambini di correrci attorno.
Divertente è anche un episodio avvenuto pochi giorni prima del posizionamento di questo manufatto. Silvano Bini lo racconta come se fosse avvenuto ieri. Arrivò nel suo laboratorio “l’architetto Piampiani del Comune” e chiese spiegazioni riguardo ai ferri arcuati. Evidentemente non erano di suo gradimento e avrebbe preferito che fossero tolti immediatamente. Silvano Bini, dal canto suo, si giustificò dicendo che i due ferri servivano per caricare e calare la sua opera. Il giorno dell’inaugurazione gli elementi metallici erano ancora al suo posto. E lo sono ancora oggi, con grande compiacimento da parte di Silvano Bini.

Il monumento ai giardini, particolare



Questo, come tutti gli altri articoli del blog, non può mai considerarsi opera compiuta. Se qualcuno ha altre informazioni, aneddoti, particolarità, etc che contraddistinguono questo monumento è invitato a condividerle con gli altri. Potete farlo commentando qua sotto, scrivendoci su Facebook, oppure per e-mail all'indirizzo smartarc.blogspot@gmail.com
Ogni contributo significativo sarà aggiunto al post.

domenica 28 novembre 2010

IL TRASPORTO DI SAN GIACOMO

di Francesco Fiumalbi

La chiesa detta “di San Domenico” è una delle più affascinanti fra quelle presenti a San Miniato. Terza in ordine di grandezza, la chiesa deve il suo appellativo al convento domenicano. In realtà l’edificio di culto è intitolato ai Santi Jacopo e Lucia. Questa doppia dedica deve, probabilmente, la sua origine alla fusione di due chiese distinte, anche se non esistono documenti in merito.
Vista la mole di informazioni e opere artistiche relative a questa chiesa, è praticamente impossibile esaurirne la trattazione in un’unica soluzione. In questo articolo ci occuperemo soltanto di un piccolo aspetto: un dipinto riferito a San Jacopo.

Chiesa dei SS Jacopo e Lucia, facciata

All’interno della chiesa dei Santi Jacopo e Lucia di San Miniato vi è, infatti, un affresco molto particolare. Tale opera pittorica è situata nella controfacciata della chiesa, nella parte destra per chi entra, al di sopra di un piccolo altare, inserito in quello che comunemente viene definito un “arcosolio”, cioè una nicchia culminata da un arco, in cui veniva inserito un sepolcro o un altare. Secondo la tradizione sanminiatese, raffigura il trasporto via mare del corpo di San Giacomo verso le rive della Galizia. Vediamo chi era San Giacomo e quale attinenza ha con la chiesa dei SS. Jacopo e Lucia.

San Jacopo è uno dei nomi con cui, spesso, è conosciuto l’apostolo Giacomo detto “il Maggiore”. Figlio di Zebedeo e Salomé, era il fratello di Giovanni apostolo.

Passando lungo il mare della Galilea, vide Simone e Andrea, fratello di Simone, mentre gettavano le reti in mare; erano infatti pescatori. Gesù disse loro: «Seguitemi, vi farò diventare pescatori di uomini». E subito, lasciate le reti, lo seguirono. Andando un poco oltre, vide sulla barca anche Giacomo di Zebedèo e Giovanni suo fratello mentre riassettavano le reti. Li chiamò. Ed essi, lasciato il loro padre Zebedèo sulla barca con i garzoni, lo seguirono
Marco, 1, 16-22.


L'affresco raffigurante Il trasporto di San Giacomo
Immagine tratta da Guido Carocci,
Il Valdarno. Da Firenze al mare, p. 86.

Era quindi un comune pescatore che traeva il proprio sostentamento dalle acque del Lago di Tiberiade. Gesù lo chiamò a diventare, insieme ad altri, “pescatore di uomini”. Seguì, insieme agli altri apostoli, le vicende terrene di Cristo e fu testimone, assieme all’apostolo Pietro, della Trasfigurazione. Giacomo (o Jacopo) assunse un ruolo di spicco all’interno della comunità cristiana di Gerusalemme, tanto che il re Erode Agrippa Primo ne comandò la morte, che avvenne, secondo la tradizione raccolta da Jacopo da Varazze nella “Legenda Aurea”, per decapitazione. Tuttavia non sussistono documenti che attestano questo particolare. Giacomo (o Jacopo) fu quindi il primo martire fra gli apostoli. Sempre secondo la tradizione, i seguaci di Giacomo (o Jacopo) trasportarono il suo corpo in Galizia (anche se non mancano leggende che narrano diversamente), presso l’attuale Santiago de Compostela (Sancti Jacobi, che in spagnolo antico veniva pronunciato Sant Yago, quindi Santiago).
La ricorrenza di San Giacomo, San Jacopo o Sant Yago, viene festeggiata il 25 luglio.
Non è possibile stabilire una datazione esatta per questo affresco. Sappiamo che nel 1324 gli “operai della chiesa” ottennero dai Signori Dodici, ovvero la massima Magistratura del Comune, di poter ingrandire la chiesa nella direzione delle mura cittadine, quindi verso sud (1). Questo avvenne quando la chiesa dei SS. Jacopo e Lucia era una suffraganea della pieve di SS Maria Assunta e Genesio, poi chiesa Cattedrale. Infatti, l’edificio fu concesso ai padri domenicani solo nel 1330 per volontà di Ugone Malpigli, allorquando la parrocchia rimase vacante, a seguito della morte del suo ultimo priore, tale padre Betto (2). In tutto il ‘300 si registrano moltissimi lasciti, specialmente a seguito della peste del 1348. Queste offerte o benefici fondiari, andavano a “dotare” le cappelle che venivano costruite: San Matteo (poi Sant’Urbano), Corpus Domini (poi Grifoni), SS Cosma e Damiano (poi Chellini-Sanminiati-Pazzi), S. Giovanni Battista e della SS. Annunziata (3). Abbiamo notizia che nel 1394 si eseguirono lavori per la facciata, per i quali fu alienata un’abitazione posta in Borgonuovo (4). Nel 1404 fu portata a termine una cappella in onore anche di San Jacopo che il Maestro Giovanni di Maestro Jacopo de’ Bernardi aveva lasciato in sospeso nel 1384 (5), e che furono completate dai figli Ser Jacobus e Magister Hieronymus, come segnalato da una perduta iscrizione sul dipinto (6).
Potrebbe darsi, quindi, che la piccola cappella in questione con il relativo apparato pittorico sia proprio quella dell’affresco in questione. Una conferma potrebbe venire da un punto di vista stilistico, collocando la pittura appunto fra la fine del ‘300 e gli inizi del ‘400, anche se non possiamo escludere successive modifiche. La sorte della cappella dedicata a San Jacopo seguì quella delle altre situate lungo le pareti della navata che furono tamponate lungo tutto il ‘600. Al loro posto, furono disposti altrettanti altari, cosicché non conosciamo le raffigurazioni precedentemente situate all’interno degli arcosolii tre-quattrocenteschi (7). Per esempio, la stessa cappella dedicata a San Jacopo, doveva contenere la tavola con San Gerolamo nello studio, di Cenni di Francesco, oggi al Museo Diocesano di Arte Sacra (8).
Il particolare che inevitabilmente colpisce di questo affresco è rappresentato dal gruppo di pesci che nuota nel mare al di sotto dell’imbarcazione. Queste figure marine sono caratterizzate da corpo di pesce e da teste umane o demoniache. E’ stata ipotizzato un collegamento con la missione di Giacomo, ovvero quella di essere un “pescatore di uomini” e quindi chiamato a discernere fra i demoni e gli uomini “da pescare”, così come un normale pescatore, una volta tirate su le reti, prende il pesce buono e rigetta in mare quello non buono (9). Tuttavia, più plausibile pare la riflessione avanzata da Rossano Nistri: "(...) L’episodio dell’arrivo del corpo di un santo al luogo cui era destinato (come aveva notato il bollandista Hippolyte Delehaye) è un tema topico delle narrazioni agiografiche ed ha la funzione di accreditare la volontà divina e la sua potenza protettiva sul santo stesso. (...) Il fatto che tra gli abitanti degli abissi ci siano soltanto creature mostruose (pluriteriomorfe o antropoteriomorfe: v. Jurgis Baltrusaitis) e neanche un pesce buono mi induce a ritenere che (...) l’intento narrativo sia la descrizione figurata, secondo l’immaginario diffuso all’epoca, dei perigli immani che la navicella ha affrontato nell’aperto mare oceano (...) e che ha potuto superare solo perché protetta dalla volontà divina: tanto più pericolo, tanto maggiore la benevolenza divina di cui il santo è destinatario e che è capace di riversare sull’umanità come intercessore".
Interessante è anche il modo in cui viene raffigurato il vento: un essere molto curioso con la faccia simile a quella umana. E’ evidente il richiamo al passo dei Vangeli Sinottici de “La Tempesta Sedata” (Matteo 8,23-27; Marco 4,35-41; Luca 8,22-25) in cui Gesù “sgrida” i venti. Sembra che il vento sia un’entità vera e propria che, nel caso del trasporto del corpo di San Giacomo, attraverso lo Spirito Santo, conduce la barca sulle rive della Galizia. Il vento quale strumento della volontà divina.
 
Cercheremo ora di capire l’ambito artistico entro cui si colloca il nostro affresco.  Non è assolutamente facile e per questo occorre precisare che quanto si dirà è frutto di considerazioni logiche fortemente suscettibili d’errore.
L’ambito pittorico in cui si colloca è da ricercarsi nei pittori della cosiddetta “Scuola Giottesca”, vale a dire quel movimento pittorico del XIV secolo, al quale fecero parte un gran numero di artisti legati dall'insegnamento e dall'imitazione dei modelli di Giotto (10).
Per prima cosa dobbiamo notare che l’affresco è stato, molto probabilmente, realizzato se non in due tempi, da due mani diverse. Osserviamo, infatti, che mentre l’imbarcazione con la salma di San Giacomo è caratterizzata da una buona dovizia di particolari, le figure dei pesci risultano invece semplificate e lo stesso moto ondoso nella parte superiore è decisamente più definito rispetto alla porzione inferiore; senza dimenticare una certa variazione cromatica, che però potrebbe essere dovuta ad un diverso stato di conservazione. Le due figure, poste nelle pareti laterali della nicchia, potrebbero essere state dipinte da un’altra mano ancora. I colori sono decisamente diversi (per esempio i capelli delle figure, ma anche le vesti), mentre abbastanza simili paiono le aureole. La cosa è abbastanza plausibile, in quanto la cappella è stata realizzata in fasi successive. Poi era molto frequente che il maestro pittore realizzasse solo la parte principale, l’elemento cardine degli affreschi (ma anche delle altre pitture in genere), lasciando agli allievi le porzioni secondarie. Lo stesso maestro potrebbe aver realizzato le figure di San Pietro e San Paolo, rispettivamente alla sinistra e alla destra dell’altare, e le figure all’intradosso dell’arco che corona la cappella, che dovrebbero ritrarre i medesimi santi (11).
Mentre i soggetti marini sono sostanzialmente inediti nel panorama pittorico del tempo, è lecito chiederci a chi si potrebbe essere ispirato il nostro pittore per la raffigurazione della scena principale, ovvero del trasporto su nave del corpo di San Giacomo. E’ bene precisare che quanto si affermerà è soltanto un’ipotesi e come tale va considerata, in quanto non sussistono approfonditi studi in questo senso e chi scrive non è assolutamente esperto di pittura.
Gli storici dell’arte su questo affresco paiono divisi: da una parte Bernard Berenson (12), Van Marle (13) concordano sull’attribuirne la paternità a Rossello di Jacopo Franchi, proponendo come datazione il secondo decennio del ‘400 e ipotizzando la medesima mano anche per l’altra cappella situata nella parte sinistra, per chi entra, della controfacciata; di diverso avviso Federico Zeri (14) che avvicina la paternità dell’opera a Pseudo-Ambrogio di Baldese, ipotesi inizialmente avanzata da Serena Padovani (15) che però rimane prudente, chiamando l’autore Maestro del trasporto di San Giacomo.
Appare evidente come nessuna delle ipotesi sopracitate soddisfi in pieno il problema dell’attribuzione dell’affresco in questione. E allora chi potrebbe essere stato?

Non è possibile rispondere alla domanda. Tuttavia chi scrive vuole proporre una nuova traccia da seguire. Il soggetto dell’imbarcazione ricorda molto da vicino un affresco realizzato da Andrea di Bonaiuto nel Cappellone degli Spagnoli presso il convento di Santa Maria Novella a Firenze. La pittura raffigura "La navicella degli apostoli nel mare di Galilea".

Clicca qui per vedere l’affresco di Andrea di Bonaiuto in Santa Maria Novella:

E’ evidente che l’opera di Andrea di Bonaiuto sia di una fattura decisamente più raffinata, però sembrerebbe costituire il modello a cui il nostro artista potrebbe essersi ispirato. In particolare per la sistemazione della poppa della nave, l’albero, la vela e le funi atte al governo della vela sembrano avere una matrice comune. Andrea di Bonaiuto affrescò il Cappellone degli Spagnoli attorno al 1365, mentre lo ritroviamo attivo al Camposanto di Pisa attorno al 1377.
Il nostro affresco è, con ogni probabilità, posteriore di alcuni anni, ma sia l’ambito geografico in cui opera Andrea di Bonaiuto e la stesso Ordine domenicano del convento di Santa Maria Novella e della chiesa dei SS. Jacopo e Lucia di San Miniato avvalorano quella che comunque rimane un’ipotesi e cioè che il nostro artista doveva conoscere l’opera di Andrea di Bonaiuto. Il nome del nostro artista è sicuramente da ricercarsi nell’ambito fiorentino, fra coloro che lavorarono per i Domenicani, tenendo conto che la cappella di San Jacopo fu ultimata nel 1404. Questo termine temporale non farebbe cadere le ipotesi avanzate dagli storici, che comunque ci sembrano parzialmente erronee.
Mentre per Pseudo-Ambrogio di Baldese sembra corretta la vicinanza con le figure laterali di San Pietro e San Paolo, vedi la Madonna col Bambino custodita al Museo d’Arte Sacra di Certaldo, lo stesso non può dirsi della parte alta dell’affresco, ovvero dell’imbarcazione col corpo di San Giacomo. Federico Zeri nota che uno dei tratti caratteristici di Pseudo-Ambrogio di Baldese è il naso ben dritto. Circostanza che ritroviamo nelle figure laterali, ma non nei personaggi che stanno sulla barca. Di questo e delle figure dei pesci, l’autore per il momento rimane ignoto.

Clicca qui per vedere la Madonna col Bambino di Pseudo-Ambrogio di Baldese:


 
 NOTE BIBLIOGRAFICHE:
(1) Cronaca di San Jacopo, c. 34, in T.S. Centi, P. Morelli, L. Tognetti, “SS. Jacopo e Lucia: una chiesa, un convento”, Accademia degli Euteleti, San Miniato, 1995, pag. 84.
(2) Cronaca di San Jacopo, c. 3, in T.S. Centi, P. Morelli, L. Tognetti, Op. Cit., pag. 86.
(3) T.S. Centi, P. Morelli, L. Tognetti, Op. Cit., pagg. 89-101.
(4) Cronaca di San Jacopo, c. 3, in T.S. Centi, P. Morelli, L. Tognetti, Op. Cit., pag. 86.
(5) Ibidem.
(6) Pasquinucci Simona, “Dipinti Trecenteschi: ricostruzione di un arredo”, in D’Aniello Antonia (a cura di), “Pittura e Scultura nella chiesa di San Domenico a San Miniato”, CRSM, Pacini Editore, San Miniato, 1998, pag. 31.
(7) Casini Claudio, “La scultura: ritrovamenti dell’arredo liturgico”, in D’Aniello Op. Cit., pag. 21.
(8) Pasquinucci Simona, Op. Cit., pag 31.
(9) Cronaca di San Jacopo, c. 3, in T.S. Centi, P. Morelli, L. Tognetti, Op. Cit., pag. 135.
(10) http://it.wikipedia.org/wiki/Scuola_giottesca
(11) Pasquinucci Simona, Op. Cit., pag 31.
(12) Berenson Bernard, “Due illustratori italiani dello Speculum Salvationis”, in Bollettino d’Arte, V, 1926, pagg. 289-320.
(13) Van Marle, “The Development of the Italian School of Painting”, IX, 1927, L’Aja.
(14) notizia riportata da Linda Pisani in “Pittura Tardogotica a Firenze negli anni trenta del Quattrocento: il caso dello Pseudo Ambrogio di Baldese” in Mitteilungen des Kunsthistorischen Institutes in Florenz, 45. Bd., H. 1/2 (2001), pp. 1-36.
(15) Padovani Serena, in “Tesori d’Arte Antica a San Miniato”, a cura di P. Torriti, Genova, 1979.
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