domenica 30 gennaio 2011

IL LABIRINTO DEL DUOMO DI SAN MINIATO - NUOVI FILONI DI RICERCA (quarta parte)

di Francesco Fiumalbi

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Un’altra ipotesi, che potrebbe legarsi a quella precedentemente enunciata, ma non necessariamente, è quella che vede nella “Triplice Cinta” un simbolo strettamente teologico. Come detto, la figura del quadrato (nel nostro caso un rettangolo) potrebbe rappresentare la Terra. Tre figure quadrate (o rettangolari) concentriche potrebbe significare, nella simbologia medievale, l’insieme dei tre Mondi: Terrestre, Firmamentale e Celeste (o Divino) che insieme formano il Macrocosmo (1). Questa interpretazione, unita a quella che vede nella Triplice Cinta sanminiatese lo schema della città di Gerusalemme quale simbolo per i pellegrini diretti a Roma e in Terra Santa è forse quella più plausibile.
Senza dimenticare che la stessa San Miniato, in epoca imperiale, era dotata appunto di 3 cerchie murarie (2): quella più esterna, coincidente approssimativamente col “Terziere” di Castelvecchio, la seconda dal “prato” del Duomo i cui cardini erano appunto la Torre delle Cornacchie (distrutta nel XIX sec.) e la Torre di Matilde (oggi torre campanaria) e, infine, la rocca vera e propria (da non confondere per sineddoche con la torre federiciana).  La chiesa di Santa Maria (poi chiesa Cattedrale) si trovava fra la seconda e la terza cerchia. Che sia solo un caso?

La “Triplice Cinta” del Duomo di San Miniato
Foto di Francesco Fiumalbi

Le riflessioni proposte lasciano indubbiamente più interrogativi di quelli a cui volevano rispondere. Appare ancora prematuro stabilire con certezza la natura e il significato del bassorilievo marmoreo posto nella facciata del Duomo. Le ricerche proseguono, muovendosi in direzioni talvolta parallele, talvolta incidenti.
E’ probabile che questo manufatto abbia origini antichissime e che sia stato utilizzato, nel corso dei secoli, in contesti e con scopi anche molto diversi fra loro. Quello che è certo è che il bassorilievo è stato “incastonato” successivamente alla costruzione nel paramento della facciata del Duomo. Abbiamo ipotizzato che il suo posizionamento abbia avuto a che vedere con lo spostamento del “Titolo” della Pieve di San Genesio alla chiesa di Santa Maria in castrum Sancti Miniati. Forse si tratta di un qualcosa che ha origine nell’insediamento romano che piano piano sta emergendo dagli scavi condotti dal Prof. Federico Cantini (3), quindi di origine pagana, e poi riutilizzato nella pieve. I riferimenti in giro per l’Europa parlano chiaro: il labirinto-“triplice cinta” è un simbolo che si trova sempre in prossimità di importanti percorsi internazionali, molto battuti anche da pellegrini e religiosi, proprio come la via Francigena.
Non vi sono certezze. Abbiamo proposto tutte le interpretazioni possibili ad oggi, anche quelle più fantasiose e improbabili al fine di poter suggerire spunti a qualcuno ben più informato di noi. Rimane il fascino per un manufatto appartenente alla storia e alla cultura dei secoli passati, che ci appartiene ancora oggi e che, con le conoscenze odierne, non siamo in grado di decifrare, almeno non compiutamente.

Chiunque abbia notizie, conoscenze, deduzioni e voglia contribuire alla ricerca del significato di questo simbolo scolpito nel marmo, è invitato a farlo.


(…continua?)

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NOTE BIBLIOGRAFICHE
(1) Uberi Marisa e Coluzzi Giulio, I luoghi delle Triplici Cinte in Italia, Eremon Edizioni, Aprilia, 2008.
(2) Cristiani Testi, San Miniato al Tedesco, Firenze, 1967, pagg. 58-59.
(3) Cantini-Salvestrini (a cura di), “Vico Wallari – San Genesio. Ricerca storica e indagini archeologiche su una comunità del medio Valdarno Inferiore fra Alto e Pieno Medioevo”, Firenze University Press, Firenze, 2010

domenica 23 gennaio 2011

FONTI ALLE FATE E LA STREGA BARBUCCIA

di Francesco Fiumalbi

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Come abbiamo visto nei precedenti articoli, le Fonti alle Fate, luogo “magico” per definizione, hanno da sempre suggerito particolari stimoli per racconti e novelle all’interno della tradizione popolare sanminiatese. Una testimonianza di questo è rappresentata dal romanzo di Guido Pieragnoli “La Bruna di Poggighisi”. Si tratta di un racconto ambientato nel ‘500, nel periodo dell’assedio e conquista di San Miniato da parte degli Spagnoli di Carlo V.
Edito in San Miniato, dalla Tipografia Bongi nel 1886, narra le vicissitudini amorose e politiche che gravitano attorno alla giovane Bianca, la Bruna di Poggighisi, contesa fra il sanminiatese Messer Goro e lo spagnolo Capitano Ruiz. Storia, passione, giochi di potere e battaglie si intrecciano in un mix avvincente e ricco di colpi di scena. Il tutto all’interno della quinta scenografica rappresentata dalla Città di San Miniato.
Uno dei personaggi attorno al quale ruotano le vicende del romanzo è la Strega Barbuccia, una sorta di chiromante alla quale la popolazione si rivolge per conoscere il proprio destino. E quale luogo poteva ospitare la dimora di Barbuccia?

Di seguito vengono riportati alcuni brani che parlano della Strega Barbuccia e del posto dove si era insediata.

(…) In quel punto la campagna era orrida; la china del poggio scendeva giù a picco, sprofondando in un ampio burrone in mezzo a una piccola ma folta boscaglia di acacie, che intrecciava i loro tralci lunghi e flessuosi, formando come un tappo verde. (…)

Oltre la sua orridezza, quel luogo aveva anche una storia o, meglio, una leggenda paurosa, sicché ognuno ne rifuggiva, e nemmeno il cacciatore azzardavasi per quelle parti, quantunque sapesse che quegli sterpi e quei gruppetti d’acacie ponessero volentieri e numerose i loro nidi le lepri e i conigli selvatici.
Erano ormai diversi anni che le paurose fiabe di spiriti e di streghe avevano fatto abbandonare da tutti quei luoghi – vi si diceva che la notte vedevansi aggirare se quel precipizio mille fantasmi, vi si sentivano urli di pazzi, suoni strampalati e rauchi, rumori infernali, e a quando a quando vedevansi vagare in quella solitudine frotte di lumicini misteriosi.

La vegetazione nei pressi di Fonte alle Fate
Foto di Francesco Fiumalbi

Anche di giorno, si diceva, chi vi si avventurasse a passare in quelle vicinanze si sentiva come inseguito da un essere in grado ad internarsi nella boscaglia di acacie, ove una frotta di demoni, sotto le sembianze di fate affascinatrici, lo circondava, e, dopo avergli fatto apparire dinanzi, in mezzo a fasci di luce, tutte le bellezze e gli incanti del Paradiso, o lo uccidevano cibandosi poi delle sue carni, o lo cangiavano a bestia o in tronco d’albero!
Ed era voce comune in paese che quei pochi, i quali, o per spavalderia, o per altra ragione, eransi avventurati nel luogo maledetto, non erano più ritornati.
Queste idee superstiziose poi, queste generazioni, o degenerazioni, di una fantasia malata venivano anco rinvigorite dalle favole, dai romanzi e poemi che si scrivevano in quei tempi, che venivano letti da tutti e che il popolo cantava continuamente – (…).

Non è dunque da meravigliarsi se anche a San Miniato la superstizione aveva raggiunto un grado abbastanza elevato; e vi sono alcuni che vogliono appunto farsi forti del fatto di questa superstizione invadente e incombente, per avvalorare la favola – poiché quasi generalmente per favola sia ritenuta – che il paese sia stato preso dagli Spagnuoli sparpagliando per il poggio presso i bastioni delle capre con dei lumicini attaccati alle corna, perloché i difensori, credendo quelli fantasmi, presi dal terrore, fuggirono abbandonando la cittadella, che immediatamente fu presa.
Il luogo di cui sopra abbiamo parlato, e che ancora nel suo nome – Fonti delle Fate – ricorda superstizioni e paure, era, ai tempi in cui seguono i fatti da noi narrati, frequentato fuor dell’ordinario, e tutti, uomini e donne, giovani e vecchi, vi si avventuravano tenendo tutti la medesima direzione, come se mirassero ad una meta comune.
E – ciò che accresceva la stranezza della cosa – il concorso di gente aumentava specialmente sull’imbrunire, rimaneva sospeso per un’ora circa, poi riprendeva, a notte fatta in direzione contraria, verso il paese.
Tutti, però, procedevano silenziosi, senza guardarsi nemmeno, come se fossero penitenti reduci da un pellegrinaggio religioso. (…)

Il lettore avrà già capito di che si tratta; tutta quella gente torna dall’interrogare la strega Barbuccia (…).

Fonti alle Fate
Foto di Francesco Fiumalbi

Di dove fosse venuta questa strega, e chi fosse, a nessuno era mai riuscito di saperlo – certo è che in brevissimo tempo essa era riuscita a cattivarsi le simpatie della popolazione; e questo trionfo sollecito devesi forse in gran parte all’avere la scaltra strega cominciata la sua carriera in San Miniato con l’assicurare gli abitanti di esser riuscita coi suoi esorcismi a liberare dagli spiriti il famoso burrone.
Questa cosa bastò perché tutti accorressero – col fanatismo proprio delle popolazioni ignoranti e superstiziose – intorno alla vecchia per farsi dire il futuro, per aver contezza delle cose di quello e di quell’altro (poiché San Miniato è stato sempre San Miniato, e i fatti degli altri hanno sempre fatto gola a tutti) per guarire da una malattia, per avere acque e intingoli di ogni genere per l’amore, per l’odio, per la gelosia, per la vita e per la morte. (…)

Barbuccia era di una bruttezza straordinaria, quasi schifosa, ed al primo vedersela dinanzi si provava ribrezzo e spavento.
Doveva il suo nome ad un ciuffetto di peli folti ed insipidi che le copriva tutta la punta del mento aguzzo, ed ad una lanugine di un nero sbiadito che le si stendeva a guisa di baffi sul labbro superiore – aveva due occhietti piccoli e tondi, avvivati da un bagliore viperino, i quali quando ti fissavano ti facevano tremare fino nelle più intime fibre come sotto l’effetto di una ben nutrita scossa elettrica – i capelli, grigi di un grigio di cenere sporca, corti e ispidi, cadevano sulla fronte e giù per le spalle, arricciolati, ributtanti come i piccoli serpentelli della testa di Medusa – gli orecchi lunghi e schiacciati, il naso camuso, dalle larghe narici compresse e porose, che si perdeva quasi in mezzo alle due protuberanze acuminate degli zigomi, la pelle incartapecorita, aderente alle ossa, grinzosa, gialla come per itterizia, le mani lunghe, scarne, aguzze, il corpo rilasciato e un po’ curvo davano a quella donna un aspetto dei più stomachevoli.


Fonti alle Fate
Interno camera laterale destra
Foto di Francesco Fiumalbi
E ciò che la rendeva anche più schifosa era il sudiciume aggrumato sui suoi abiti laceri e sulle sue carni: chi avesse avuto buon naso o si fosse trovato vicino a Barbuccia, avrebbe potuto accorgersi come da quel corpo esalasse un profumo…. Che non era certamente di rose e gelsomini.
Oltre tutto poi, quella donna aveva d’intorno a sé qualche cosa di fosco e di lugubre; pareva che l’avvolgesse tutta una nebbia, una caligine piena di terrore: le sue carni erano abitualmente presso che ghiacce, e se per caso fosse giunta a toccarti, quel tocco ti faceva l’effetto medesimo del corpo ghiaccio di un serpente che ti avvinghiasse la mano.
Aveva un modo di ridere poi, che, piuttosto che un sorriso, ti sembrava una ferita schifosa che si aprisse, poiché le labbra sottili e cadenti si schiudevano dilatandosi, e scoprivano l’ampia bocca sdentata, rossa di un rosso sanguigno.
Barbuccia, da donna tetra e fosca qual era, aveva voluto porre la sua dimora nel luogo più orrido dei dintorni. In quella parte di campagna che abbiamo descritta, e che i Samminiatesi ritenevano da sì lungo tempo come un luogo maledetto; fu là che la strega fondò, per così dire, il suo palazzo, ove ogni giorno concorrevano a frotta i credenzoni, che lasciavano poi nel grembo della megera dei bravi baiocchi.
Quel palazzo era formato da due ampie grotte scavate nella roccia del poggio, l’una attigua all’altra, precisamente in quel punto ove attualmente si trovano le fonti.
Le acacie e i platani ricoprivano totalmente quel luogo tetro e misterioso dove non penetrava raggio di sole e donde non si scorgeva nemmeno un lembo di cielo.
Una porta di legno, grossa e tarlata, chiudeva l’ingresso della spelonca più grande, che comunicava con l’altra per mezzo di una apertura, che meglio si potrebbe chiamare un pertugio che una porta. (…)

Fonti alle Fate
La sorgente naturale
Foto di Francesco Fiumalbi

In quella stanza c’era di che incutere paura e ribrezzo.
Le pareti, affatto nude, stillavano umido da ogni parte; e negli angoli l’acqua che cadeva a gocce, tintinnando con un tintinnio uniforme e lugubre, aveva formato delle ampie venature nere, che in quella oscurità prendevano le apparenze di drappi funerei.
Di faccia alla porta d’entrata, sopra un tavolino logoro e tarlato ardeva una lampada a olio che mandava per tutta la grotta una luce rossiccia e tremolante, che accresceva terrore a quella specie di tomba; accanto al lume un teschio di morto, tutto sconquassato, ghignava sinistramente con le mascelle bianche e sconnesse e, sparse sul tavolino, una quantità di bacchette di varia lunghezza e di varii colori, bocce e fiaccole di ogni grandezza, filtri, vasetti, un arsenale insomma da farmacista.
In un angolo della grotta, accanto alla porta, ardeva un braciere con entro delle lunghe spranghe di ferro incrociate e, sorretto da queste, un grosso paiuolo in rame entro il quale bolliva gorgogliando una strana mistura.
L’atmosfera di quell’ambiente era assolutamente irrespirabile, pregna di vapori soffocanti e di esalazioni varie ed acute che mozzavano pesantemente il respiro; un fumo leggero, ma pungente, una specie di caligine, che penetrava nelle narici e nelle fauci fin quasi a soffocare, dava a quel luogo tutto l’aspetto del foro di una mina da poco tempo bruciata. (…)

Le pareti rocciose erano adornate solamente da schifosi corpi di rettili inchiodati a pancia all’aria e davano a quell’ambiente qualche cosa di originale e di nuovo, che usciva dal comune e al terrore naturale dava una nota di poesia strana. (…)

L’altra stanza era di aspetto men triste e men lugubre dell’altra – anche questa scavata nella roccia, umida e buia, ma spoglia delle cupe suppellettili che adornavano l’altra: l’ammobiliavano solamente un letto grandissimo, due sedie ed un piccolo tavolino; una lanterna ad olio, pendente dal soffitto, rischiarava di una luce soffocata l’ambiente. (…)

 Fonti alle Fate
Calcare sulla parete esterna
Foto di Francesco Fiumalbi


La strega Barbuccia non poteva che abitare proprio a Fonti alle Fate. Quale luogo così misterioso e, in un certo senso, così lontano, là nel bel mezzo di un boscoso e freddo versante collinare.
E’ incredibile la ricchezza dei dettagli che ci propone l’abile narratore. La minuzia delle sue parole ci fa correre col pensiero alle immagini odierne delle Fonti alle Fate. Le “grotte”, la vegetazione, l’umidità. Sembra che l’autore del romanzo vi sia stato da poco, tanto l’immagine odierna è similare a quella narrata .
Non siamo in grado di decifrare se il termine usato “grotta” rispecchi l’antico sentire sanminiatese o se sia stato creato ai fini del romanzo. Abbiamo visto, infatti, nell’articolo GEOGRAFIA DELLE FATE, come la struttura delle Fonti non sia stata scavata, ma sia stata costruita di fianco allo scosceso pendio collinare. E che dire della roccia che costituirebbe le pareti della grotta? Probabilmente il calcare ricopriva gran parte delle superfici interne, suggerendo proprio questa immagine.
L’autore parla di grotte nel numero di 2. Sempre nel sopracitato articolo vi ricorderete che in realtà gli ambienti dovrebbero essere 3, uno per ogni arcata. Di fatto però, la porzione sinistra, oggi, è tamponata, chiusa e non è stato possibile verificarne la cavità. Potrebbe darsi che lo fosse anche alla fine del XIX secolo, quando Pieragnoli scrive il suo racconto. Curioso, invece, che nel romanzo gli altri due ambienti, verosimilmente quello centrale e quello di destra siano comunicanti, attraverso un piccolo pertugio. Anche per questo particolare non possiamo stabilirne l’autenticità. Oggi le due “camere” non sono collegate, ma non è da escludersi che lo fossero in passato.
L’umidità che trasuda da tutte le superfici e quelle “venature nere”, in gergo tecnico “colaticci”, rispecchiano fedelmente la situazione odierna.
Colpisce davvero, infine, la descrizione del versante della collina. Potrebbe essere stato scritto nei nostri giorni. La boscaglia di acacie è davvero orrida come nella descrizione del romanzo, come un vero e proprio Lucus, il bosco sacro nelle credenze pagane, e che racchiude in sé l’affascinante mistero delle Fate e dalla loro Fonte.


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domenica 16 gennaio 2011

CASTRUM MORIORI

di Francesco Fiumalbi


Castrum Moriori, Castello di Moriolo. Il nome è altisonante. Parlare di “castello” evoca solitamente talune immagini cinematografiche: fortezze gigantesche, cavalieri, principesse e damigelle. Nella realtà, questo insediamento militare doveva essere molto piccolo, appena una torre chiusa all’interno di un recinto. Forse ci sarà stato un cavallo, qualche arma in metallo; nessuna principessa vi ha mai soggiornato e le damigelle non dovevano essere più che massaie.

Pronti, si parte! Direzione “Castello” di Moriolo
Il Team di Smartarc: da sinistra Luciano Marrucci, Alessio Guardini, Meri Bertini, Fabio Cappelli, Rita Costagli, Massimo Bertini, foto di Francesco Fiumalbi

Moriolo oggi è una frazione del Comune di San Miniato e si trova su un rilievo a sud/ovest del Capoluogo, lungo la strada che conduce in Valdegola, chiamata via Volterrana.
Non conosciamo l’origine di questo “castello”, anche se il termine “Moriolo” viene menzionato per la prima volta nel 786 (1), nel periodo di ascesa di Carlo Magno e di incertezza per la caduta del regno longobardo avvenuta soltanto pochi anni prima. Il nostro territorio è stato abitato fin dall’epoca arcaica (2) per cui non conosciamo esattamente il periodo in cui è nato questo insediamento. Secondo il Pieri, il toponimo di Moriolo deriverebbe dal gentilizio romano Murrius (3). Se questa tesi è corretta dovremmo forse ricercare l’origine di questo piccolo nucleo nell’ambito dei pagus romani, ovvero quei piccoli centri giurisdizionali agricoli.
Il piccolo centro di Moriolo fu concesso in feudo ai signori di San Miniato nel 983 (4). Pochi anni prima, nel 943, la consorteria lucchese dei Lambardi aveva ottenuto da Eriberto, pievano di Vico Wallari (San Genesio), le terre sul colle sanminiatese attraverso un contratto di Enfiteusi. Nel 991 Ugo e Fraolmo, figli del fu Ugo (Lambardi) furono nominati fra i signori di San Miniato (5), dove probabilmente già nel 962 doveva esservi un piccolo avamposto imperiale, voluto da Ottone I durante la sua discesa in Italia (6). E’ difficile ricostruire questi passaggi, l’intreccio dei poteri e della reale disposizione dei pesi politico-governativi di questo periodo, tuttavia possiamo affermare che durante il X secolo Moriolo entra definitivamente a far parte dell’influenza di San Miniato che aveva visto accrescere di molto la sua popolazione.

San Miniato vista da Moriolo
Foto di Francesco Fiumalbi

Moriolo, perché costruire qui un avamposto militare?
Il rilievo collinare su cui sorge è, come detto, a sud/ovest del Capoluogo. Era una postazione facilmente difendibile e posta a controllo della viabilità. Si trova infatti nella “gobba” orientale dell’immaginario cammello completato dal poggio dove invece sussiste la chiesa dedicata a San Germano. La strada Volterrana passa, oggi come allora, attraverso una “sella”, un piccolo valico, facilmente controllabile. Dal castello poi era possibile vedere gran parte della valle dell’Ensi (il fiumiciattolo che scorre a sud di San Miniato) e intravedere la Valdegola. Quest’ultima doveva essere invece controllata, almeno parzialmente, da un altro piccolo insediamento situato presso l’attuale Località Sorrezzana, proprio al di sopra del ponte sul Torrente Egola (che doveva trovarsi più o meno dove c’è quello attuale), e che costituiva un punto di osservazione privilegiato per una buona porzione della vallata. Occorre precisare che questa localizzazione non è condivisa da tutti. Il Lotti afferma infatti che il castello doveva trovarsi esattamente dove è collocata la chiesa (7), formando un “borgo fortificato”. Appare evidente l’errore, tradito da certa storiografia romantica. Non si trattava affatto di un borgo, ma di qualche casa sparsa che aveva come punto di riferimento una torre con un piccolo recinto difensivo. In effetti l’area in cui sorge la chiesa dedicata a San Germano è un luogo di pochissimi metri più alto rispetto all’altra “gobba”, ma più distante rispetto alla strada, unica e vera matrice. Che si trattasse di una torre ce ne fornisce prova il notaio e cronista sanminiatese Giovanni di Lemmo Armaleoni da Comugnori che parla inequivocabilmente di Turrim de Morioro (8).

Il “valico” fra le due “gobbe” del “cammello” di Moriolo
Foto di Francesco Fiumalbi

Il sistema insediativo medioevale, così come nelle epoche precedenti e successive, si basa fortemente sul sistema viario, che solo a tratti corrisponde con quello attuale. Non disponendo di mezzi di locomozione a motore le strade seguivano precise conformazioni, andando ad adattarsi all’orografia del terreno. Vi erano quindi soltanto vie di fondovalle e vie di crinale. Non esistevano i “tornanti”, nati praticamente con l’automobile, e la viabilità di mezza costa, salvo rarissime eccezioni. Osservando la viabilità odierna, si vede bene che la strada attuale non coincide interamente con quella originaria. Il tratto sul versante nord, verso la valle dell’Ensi è stato sicuramente modificato, mentre quello in direzione sud, verso Sorrezzana e Genovini, compreso il cosiddetto “valico” fra le due “gobbe” doveva essere pressoché coincidente con la viabilità odierna, salvo che per il tratto conclusivo.
Il sistema militare di un “libero comune” come quello di San Miniato in epoca medioevale si basava fortemente su tutta una serie di “postazioni” messe a presidio della viabilità. Le contrade cittadine, organizzate secondo apposite “Società d’Arme” potevano contare su vere e proprie masnade dislocate nei castelli del territorio (9). Si trattava per lo più di piccolissimi nuclei militari spesso controllati direttamente da quei signori che detenevano la proprietà dei terreni circostanti e che ricoprivano importanti cariche civiche. Questi piccoli insediamenti dovevano nascere oltre che per presidiare la viabilità anche per mettere al riparo da ruberie e incursioni il raccolto e il bestiame (10).

Carta di Moriolo e dintorni
Disegno su base CTR 10000 di Francesco Fiumalbi

Torniamo al “castello” di Moriolo. Questo piccolo fortilizio sarebbe passato quasi inosservato nella storia locale se non fosse che rivestì un ruolo abbastanza significativo nell’ambito delle lotte di inizio ‘300. In quegli anni il territorio del Comune di San Miniato si trovava praticamente schiacciato fra due superpotenze, Pisa e Firenze, e per questo suo essere terra di confine farà da scenario ad innumerevoli scontri bellici.
Nelle parole che seguiranno si propone una ricostruzione degli avvenimenti di inizio ‘300 al solo scopo di inquadrare in un contesto più ampio le vicende del Castello di Moriolo, senza la pretesa di essere esaustivi e puntuali.
Nel 1284 Pisa venne sconfitta da Genova nella famosa “Battaglia della Meloria”. Il definitivo declino della città avvenne con la rinuncia a qualsiasi pretesa sulla Corsica e alla cessione ai genovesi di gran parte della Sardegna nel 1299. Pisa si trova ad essere, nel giro di pochi anni, una città senza mare, e per questo comincia a nutrire mire sempre maggiori nell’entroterra, dove poter trovare sostentamento per una popolazione molto grande. Forte dell’alleanza con il Sacro Romano Impero (che viveva il plurisecolare problema della stabilizzazione della Toscana, che non risolverà mai), nel 1313 Pisa chiamò al governo un vicario dell’Imperatore Arrigo VII di Lussemburgo: il Capitano di ventura Uguccione della Faggiola (11). Questi, grazie ad un esercito formato da molti mercenari tedeschi, cominciò una vera e propria campagna di conquiste: assediò e occupò la città di Lucca e mise a ferro e a fuoco buona parte del Valdarno Inferiore. L’apice delle sue vittorie fu raggiunto nel 1315 con la clamorosa vittoria pisana, che aveva praticamente tutti contro (Firenze, Siena, Angioini, etc), presso Montecatini.

Ciò che rimane del Castello di Moriolo,
foto scattata per gentile concessione della proprietà, sig. Lami.

Nel territorio di San Miniato le vicende non sono meno complesse. Anche se dichiaratamente nemiche, Firenze e Pisa facevano ottimi affari commerciali e le gabelle imposte dal libero comune di San Miniato, considerate esose, frenavano il “business” fra le due città. Nel 1313 Uguccione della Faggiola riesce a mettere in scacco buona parte dei castelli del territorio di San Miniato. Ci fu una vera e propria insurrezione, complici anche le mal ricucite lotte intestine fra “Magnati” e “Popolani” del 1308 (12). Non è possibile stabilire quali dei piccoli castelli furono assediati e conquistati e quali si consegnarono ai pisani. Di fatto molti fortilizi caddero nelle mani di Uguccione della Faggiola, fra cui Cigoli, Agliati, Balconevisi, Bucciano, Camporena, Comugnori, Grumulo, Montalto, Stibbio, la Torre di San Romano e, appunto, Moriolo. Alcuni di questi si costituirono liberi comuni. Tutto questo senza che gli alleati fiorentini muovessero foglia. In fondo, anche a loro stava bene una lezione agli esosi gabellieri sanminiatesi. I fiorentini mandarono 300 uomini per sostenere gli alleati soltanto dopo alcuni giorni, quando i castelli erano già insorti e ben poco avrebbero potuto fare.

Le strutture a “barbacane” sul vertice sud-est
Foto scattata per gentile concessione della proprietà, sig. Lami.

I ghibellini pisani a Moriolo, chiudevano la guelfa San Miniato da sud, tagliando di fatto tutti i possibili collegamenti con la Valdegola. Da qui poi partivano numerose scorrerie mantenendo altissima la tensione. I sanminiatesi nel maggio del 1313 tentarono di porre fine a questa situazione, decisi a riprendersi il castello di Moriolo. La battaglia si svolse proprio davanti al castello che però si difese e rispedì indietro gli assalitori (13).
Per vendetta ai continui smacchi ricevuti, i sanminiatesi distrussero il palazzo e la torre di un tale Cuccolo da Morioro che si trovava nel quartiere di Fuori Porta in località Poggio che il Lotti identificò con l’attuale Piazza del Popolo (Piazza San Domenico) (14), anche se mancano adeguati riferimenti in merito.

Come doveva apparire il Castello di Moriolo
Disegno di Francesco Fiumalbi

In Pisa crebbero malcontenti interni per il dispotico atteggiamento di Uguccione della Faggiuola, che fu cacciato nel 1316 (15). Caduto Uguccione, Roberto d’Angiò, nell’aprile del 1317 presso la sua corte di Napoli, riuscì a pacificare la Lega Guelfa, e i Fiorentini in prima linea, con Pisa e Lucca. Al momento le parti si accordarono nel mantenere a ciascuna città le conquiste ottenute durante la guerra (16). Giovanni di Lemmo Armaleoni, nel suo Diario, afferma che nel 1318 i Pisani si impegnarono a restituire i castelli conquistati ai sanminiatesi. E’ probabile che i patti stabiliti con i sanminiatesi fossero diversi rispetto a quelli con Firenze che prenderanno corpo con la Pace di Montopoli del 1329. Infatti, al termine di una lunga trattativa i Sanminiatesi riuscirono a riprendersi l’avamposto di Moriolo e ad ergere sul pennone della torre l’arme Comunis Sancti Miniatis (17), il vessillo comunale.
La situazione toscana si stava evolvendo lentamente, segnata da continui scontri bellici. Castruccio Castracani e Ludovico il Bavaro sono i protagonisti di queste vicende che culminarono con la definitiva caduta di Pisa che trattò, di fatto, la resa con Firenze nella Pace di Montopoli, avvenuta l’8 agosto 1329 (18). Pisa si impegnò a restituire i territori conquistati, entro il tempo di 50 giorni (19) fra cui alcuni castelli sanminiatesi ancora non riconsegnati. La Repubblica Fiorentina prese sotto la sua giurisdizione praticamente tutto il medio Valdarno Inferiore. Anche se formalmente libero comune, San Miniato entrò definitivamente a gravitare attorno all’orbita di Firenze. I castelli sanminiatesi ancora non restituiti furono presi in consegna dai fiorentini. La Torre di San Romano venne ceduta al Comune di Montopoli. Stibbio, Montebicchieri, Comugnori, Leporaja e Cigoli non furono restituiti a San Miniato e andarono a costituire il Comune di Cigoli, che si reggerà fino alle riforme leopoldine del 1774 (20).

Ciò che rimane del castello di Moriolo, Interno
Foto scattata per gentile concessione della proprietà, sig. Lami.

Il piccolo castello di Moriolo tornò, dopo ben 5 anni, nelle mani dei sanminiatesi che subito lo “diroccarono” (21).
Non sono chiare le modalità con cui avvenne la distruzione. E’ probabile che sia stato abbattuto il recinto e capitozzata la torre. Di questa rimane la parte basamentaria, forse il livello terreno, costituito da copertura a botte con unghie. Questa struttura mal si confà alle comuni cantine. E’ una struttura molto rigida, possente, costruita per sostenere grandi carichi. Anche i muri sono molto spessi e potevano facilmente sostenere una struttura multipiano.
Nel fronte sud si notano alcune porzioni di barbacane. Tali strutture servivano, allora come oggi, essenzialmente per distribuire meglio i carichi sul terreno e contenere eventuali cedimenti. Di queste non se ne spiega la presenza se non pensando ad un grande carico, concentrato per lo più sullo spigolo sud/est, quindi opposto alla valle, e che poteva ben identificarsi con il forte peso di una torre.
L’analisi architettonica delle porzioni murarie originali che ci sono pervenute fino ai giorni nostri rafforza la testimonianza documentaria di Giovanni di Lemmo Armaleoni da Comugnori precedentemente citata.

L’avamposto militare era dotato anche di una fonte di approvvigionamento idrico interna, che ne garantiva l’autonomia in caso d’assedio. Questo dato è estremamente significativo dell’accuratezza nella scelta del luogo che, oltre ad essere in posizione difendibile, strategicamente vicino alla viabilità e dotato di acqua.

La “fonte” interna
Foto scattata per gentile concessione della proprietà, sig. Lami.

Come abbiamo visto, il castello fu distrutto dai sanminiatesi. Al suo posto vi fu costruita una abitazione, forse una fattoria. La proprietà passò negli anni alla famiglia Grifoni, come attestato dalle Carte dei Capitani di Parte Guelfa (1580-1595) (22).
L’edificio pervenne nel ‘700 alla famiglia Pazzi. Non è chiaro come sia avvenuto il passaggio di proprietà, ovvero se fu comprata dai Chellini-Sanminiati e poi ereditata dai Pazzi nel 1751 o acquistata direttamente dal nobile casato fiorentino.
I Pazzi eseguirono importanti lavori di ristrutturazione, trasformando l’edificio in una piccola villa-fattoria. Di ciò rimane testimonianza in alcuni capitelli “firmati”.

Base di capitello realizzato per la famiglia dei Pazzi
Foto scattata per gentile concessione della proprietà, sig. Lami.

Questo edificio rappresenta un piccolo esempio di come la storia abbia lasciato le proprie tracce incastonate nella pietra e nei mattoni. Esperienze antiche e conflitti lontani, ma con eco vicine e segni visibili ancora oggi.
Si ringrazia il Sig. Lami, proprietario dell’edificio per aver permesso la visita dell’antico “castello” di Moriolo al Team di Smartarc.

Il Team di Smartarc: osservazioni e considerazioni finali
Da sinistra: Francesco Fiumalbi, Meri Bertini, Alessio Guardini, Rita Costagli, Luciano Marrucci, Fabio Cappelli e il fotografo, che c’è ma non si vede, Massimo Bertini


NOTE BIBLIOGRAFICHE:
(1) Cianelli, Memorie e documenti per servire all’istoria della Città e Stato di Lucca, in Repetti Emanuele, Dizionario Storico Fisico Geografico della Toscana,Tofani Editore, Firenze, 1833, volume III, pagg. 428-429, voce Moriolo.
(2) AAVV Le colline di San Miniato (Pisa): la natura e la storia, supplemento n. 1 al vol. 14 (1995) dei Quaderni del Museo di Storia Naturale di Livorno, Consiglio Nazionale delle Ricerche, Provincia di Pisa.
(3) Pieri Silvio, Toponomastica della Valle dell’Arno, Forni Editore, Ristampa Anastatica 1919.
(4) Boldrini Roberto (a cura di), Dizionario dei Toponimi del Comune di San Miniato, Bongi, 2004, pag. 75.
(5) Cianelli, Memorie e documenti per servire all’istoria della Città e Stato di Lucca, in Repetti Emanuele, Dizionario Storico Fisico Geografico della Toscana,Tofani Editore, Firenze, 1833, volume V, pag. 60, voce San Miniato.
(6) Lami Giovanni, Deliciae erudito rum, Firenze, 1736-1769.
(7) Lotti Dilvo, San Miniato, vita di un’antica città, Sagep Editrice, Genova, 1980, pag. 324.
(8) Mazzoni Vieri (a cura di), Diario di Ser Giovanni Lemmo Armaleoni da Comugnori”, Olschky, Firenze, 2008, c. 59v, pag. 71.
(9) Lotti Dilvo, Op. Cit., pag. 65.
(10) Si veda l’articolo La civiltà della torre in AAVV, Progetto San Gimignano, Alinea, Firenze, 1997.
(11) http://it.wikipedia.org/wiki/Uguccione_della_Faggiola
(12) Giovanni di Lemmo Armaleoni da Comugnori, Diario (1299-1319), Olschki, 2008.
(13) Repetti, Op. Cit., volume III, pagg. 428-429, voce Moriolo.
(14) Lotti Dilvo, Op. Cit., pag. 324.
(16) Ibidem.
(17) Mazzoni Vieri (a cura di), Op. Cit., c. 59v, pag. 71.
(18) http://montopolinvaldarno.splinder.com/archive/2009-09
(19) Repetti, Op. Cit., volume III, pagg. 428-429, voce Moriolo.
(20) Repetti, Op. Cit., volume V, pag. 60, voce San Miniato.
(21) Repetti, Op. Cit., volume III, pagg. 428-429, voce Moriolo.
(22) Carte dei Capitani di Parte, Archivio di Stato di Firenze, Olschki, c 661.

domenica 9 gennaio 2011

SAN MINIATO IN BIANCO

Siamo giunti all'atto conclusivo del Concorso Fotografico "San Miniato in Bianco". L'idea di organizzare questa piccola gara è nata dalla volontà di creare un database di immagini che ritraggono paesaggi, luoghi, momenti e situazioni provenienti dal Comune di San Miniato e immortalate durante i giorni della scorsa nevicata del dicembre 2010. Lo spirito di questo concorso e del blog SMARTARC, ovviamente è quello della condivisione, dello scambio di contenuti. Un modo far incontrare persone, con idee, passioni e capacità diverse, ma accomunate dall'amore per la nostra terra, nel mezzo della Toscana.
Quindi grazie davvero a tutti coloro che hanno partecipato al concorso inviando le proprie immagini, a quelli che hanno espresso le proprie preferenze e a tutti coloro che a vario titolo e impegno si sono adoperati per la buona riuscita di questa iniziativa.

Le immagini, raccolte nell'album fotografico San Miniato in Bianco, consultabile su Facebook, hanno riscosso davvero un grande successo, oltre ogni aspettativa iniziale!!!
Ben 106 le foto inviate.. di cui 104 ammesse alla competizione!
971 le preferenze espresse, di cui 711 valide (i 260 voti non regolari si riferiscono a coloro che hanno votato più di 3 immagini e così facendo hatto escluso le proprie preferenze).

TOP10: Le dieci immagini più votate

1 CLASSICATA con 86 voti validi
Neve 2010.01 - Foto di Massimo Bertini


2° CLASSIFICATA con 76 voti validi
Snowboard con la tavola da surf sulla discesa di San Donato (San Miniato) - Foto di Mirko Fabio


3° CLASSIFICATA con 36 voti validi
Una rosa rossa su sfondo bianco - Foto di Walter Profeti


4° CLASSIFICATE con 33 voti validi
Neve 2010.03 - Foto di Massimo Bertini

Corso Garibaldi - Foto di Andrea Baroni


6° CLASSIFICATA con  28 voti validi
Case e giardini innevati 01 - Foto di Romano Ceccatelli


7° CLASSIFICATA con 26 voti validi
Papera torrigiana - Foto di Fabio Gazzarrini


8° CLASSIFICATA con 25 voti validi
I tavolini dello chalet - Foto di Andrea Baroni


9° CLASSIFICATE con 19 voti validi
Neve a San Miniato - Foto di Serena di Paola

Neve sul balcone - Foto di Martina Bertelli






Nonostante il gran numero di voti pervenuti, alcune immagini veramente molto belle, non hanno ottenuto un numero di preferenze tale da rientrare nella TOP10. Riteniamo che le seguenti immagini meritino comunque una MENZIONE SPECIALE.
Le fotografie sono state posizionate secondo l'ordine che ci sono pervenute.



Panorama da Piazza Mazzini - Foto di Francesca Romana Dani


Campagna vicino Isola 02 - Foto di Ramona Dinice


Case sanminiatesi - Foto di Fabiana Mannini


Foschia e neve fra le colline - Foto di Andrea Petralli


Tre casettine - Foto di Francesca Stile


La Rocca - Foto di francesca Stile


San Miniato da favola - Foto di Francesca Stile


Se puoi vedere, guarda; se puoi guardare osserva - Foto di Fabio Giantini


Guardando verso nord - Foto di Gionata Giglioli


San Miniato dal campanile di Moriolo - Foto di Daniele Alaima


Panorama da Piazza del Duomo - Foto di Alexa Spinosi


San Miniato - Foto di Simone Sartini


San Miniato 1 - Foto di Clizia Macchi


San Miniato 2 - Foto di Clizia Macchi


Tramonto 2 - Foto di Francesca Cupelli


Vigna di "Cupelli" - Foto di Francesca Mannaioni e Sara Bacchi


Pur non rientrando nell'ambito del concorso fotografico, in quei giorni è stato realizzato da Niccolò Banti, Daniele Alamia e Luciano Marrucci un bellissimo video: "San Miniato Innevata". Un video tutto da vedere e da gustare, che desideriamo proporre all'interno di questo post.

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