INTRODUZIONE a cura di Francesco Fiumalbi
Giuseppe Rondoni (San Miniato, 17 novembre 1853 – 16 novembre 1919), già Direttore della Miscellanea Storica della Valdelsa e Presidente dell'Accademia degli Euteleti, è senza dubbio una figura molto importante per i suoi contributi sulla storia sanminiatese.
Giuseppe Rondoni (San Miniato, 17 novembre 1853 – 16 novembre 1919), già Direttore della Miscellanea Storica della Valdelsa e Presidente dell'Accademia degli Euteleti, è senza dubbio una figura molto importante per i suoi contributi sulla storia sanminiatese.
In questo
post è proposto un suo articolo dedicato ad un periodo molto
particolare della vita all'ombra della Rocca, ovvero al tempo della
dominazione francese in Toscana. Rondoni coglie l'occasione della ricerca partendo
da un manoscritto raccolto da Antonio Vensi, cioè la narrazione
prodotta da Niccola di Tommaso Gagliardi (San Miniato, 1777 - 1856). Il "diario" abbraccia il periodo
compreso fra il 1799 e il 1809, e rappresenta un documento molto interessante poiché risulta essere una testimonianza diretta, seppur influenzata dal punto di vista particolare dell'autore, di un momento significativo della storia toscana e sanminiatese in epoca moderna.
Vale
la pena di ricordare che sull'argomento sono stati pubblicati anche due
testi più recentemente. Il primo, collegato ad una mostra, è il
volume San
Miniato giacobina e napoleonica (1796-1799),
curato da Valerio Bartoloni, Comune di San Miniato, Bandecchi &
Vivaldi, Pontedera, 1997. Il secondo è quello
curato da Manuela Parentini, San
Miniato fra illuminismo, rivoluzione e conservazione,
FM Edizioni, San Miniato, 2001.
«Archivio Storico Italiano», Serie Quinta, Tomo X, Anno 1892,
G. P. Viesseux, coi tipi di M. Cellini e C., Firenze, 1892, frontespizio
Trascrizione
di G. Rondoni, Un
cronista popolano dei tempi della dominazione francese in Toscana,
in «Archivio
Storico Italiano»,
Serie Quinta, Tomo X, Anno 1892, G. P. Viesseux, coi tipi di M.
Cellini e C., Firenze, 1892, pp. 64-87.
[AVVERTENZA:
con il colore blu è indicato il numero della pagina; le note, a piè
di ogni pagina sono proposte tutte in fondo al testo].
[064]
UN CRONISTA
POPOLANO DEI TEMPI DELLA DOMINAZIONE FRANCESE IN TOSCANA
I
Il
recente libro di Apollo Lumini La
reazione in Toscana nel 1799
(01),
ed un bello studio del Masi Il
1799 in Toscana (02),
confermando quanto siano importanti e desiderate le ricerche intorno
a quel tempo memorabile, e richiamandovi l'attenzione degli studiosi,
m'inducono a sperare che non riuscirà affatto inutile ed inopportuna
la notizia di questa Cronaca,
o piuttosto Diario
delle cose occorse in S. Miniato al Tedesco (03),
anche perché rappresenta le opinioni ed i giudizi non di un uomo
addottrinato e partecipe de' pubblici affari, di un prete, di un
nobile, di un professionista; ma di un popolano comodo ed operoso,
che vive oscuramente in un angolo di una piccola città di provincia,
e che ha poca o punta cognizione precisa degl'ideali e de' grandi
fatti contemporanei. Indi gli effetti della grande rivoluzione sono
apprezzati da un punto di vista esclusivamente popolare, toscano,
provincialesco e samminiatese. Ed è curioso, o m'inganno, udir quasi
la parola viva di questo popolano narrare le impressioni genuine
dell'animo suo, ed è importante conoscere in modo schietto ed
immediato che cosa pensarono nei [065]
più umili centri, nella quiete sonnacchiosa delle più piccole
città, nelle borgate, nelle campagne i più umili sudditi di
Ferdinando III, e cioè il maggior numero, sebbene il più trascurato
dagli storici ed il meno illustrato dai documenti, dinanzi allo
spettacolo di vicende che turbavano spesso gl'ingegni più vasti, gli
uomini più esperti e potenti; vedere partitamente il concetto che il
popolo fra noi si era formato della grande rivoluzione.
Poiché
a questo proposito il materiale è assai scarso, dacché se
conosciamo a sufficienza quanto accadde ne' centri principali,
ignoriamo quasi totalmente ciò che avveniva nei secondari (04),
valda questo tenue contributo almeno come eccitamento ad investigare
con miglior successo nelle memorie e fra i documenti dei piccoli
comuni, talora così neglette pur troppo, anche nella colta Toscana,
dalle stesse autorità municipali, che sembrano perfino ignorarne la
importanza per la storia della nazione. La storia non sdegna o
respinge alcuno fatto, verun particolare: «non
ci sono piccoli avvenimenti nella umanità, né foglie piccine nelle
vegetazione» (05).
II
I
Ricordi
del nuovo governo francese in Toscana,
o anche Notizie
di San Miniato (così
l'autore l'intitola), vanno dal febbraio 1798 al 9 luglio 1809; e
sono preceduti da una breve notizia, della quale or ora diremo.
Dal
22 luglio 1799 al 25 agosto dello stesso anno, per la mancanza di un
foglio, esiste una lacuna nel manoscritto, del quale ci limitiamo a
porgere notizia possibilmente accurata [066]
riportandone i passi più notevoli, con qualche parola di spiegazione
e di collegamento, e resecandone il troppo ed il vano. L'autore,
avversissimo ai giacobini, non si palesa; ma sappiamo per altro che
fu Niccola di Tommaso Gagliardi, nato e vissuto in S. Miniato dal
1777 al 3 gennaio 1856, giorno della sua morte. In gioventù tenne
dalle 50 alle 100 filatrici, ed impannava mezzelane, frustagni, eppoi
cotoni; si pose anche a vender cera, ed in ultimo fu paratore di
chiese. Vivono ancora i suoi figli (06).
Un
cenno sulla venuta in S. Miniato del generale Buonaparte fa quasi da
proemio al lavoro, e merita proprio qualche osservazione preliminare.
E' noto che durante la immortale campagna del 1796 Napoleone, colla
divisione Vaubois, per Parma, Modena e Reggio calava in Toscana, e,
toccata Pistoia e traversato l'Arno a Fucecchio, si recava a Livorno.
Di qui andava a Firenze, proseguendo per Bologna. Appunto nel viaggio
da Livorno a Firenze si fermava a pernottare a S. Miniato, ed anche
di questo gli storici han voluto dire e saper le ragioni. Il Marmont,
che gli era compagno, nelle sue Memorie
scriveva:
«la
famille Bonaparte est originaire de Toscane; une branche y ètait
restée a S. Miniato, petite ville entre Pise et Florence; nous, nous
y arretàment de l'éclat que son cousin donnalt à son nom; mai il
voyait d'un autre oeil que nous cette gloire de la terre, et il
aspirait à la voir prendre ses racines dans le ciel. Un Bonàparte
avait été déclaré bien-heureux par je ne sais quel pape, e' était
le premier pas vers la canonisation; la chanoine aspirait à le voir
sanctifié; il prit le général en particuller poir le suppller
d'employers son influence, supposée sans borne, pour obtenir ce
titre de gloire pour la famille. Bonaparte rit beaucoup du desir de
son cousin, qu' il ne satisfit pas, et il aima mieux obtenir du pape,
dans le négociations postérieures, quelquels milions et quelques
tableaux de plus, que le droit de bourgeolsie dans [067]
le
ciel pour un homme de sa mason»
(07).
Dal granduca però ottenne pel canonico una commenda di S. Stefano,
che molto lo soddisfece (08).
Il Marmont narro questo aneddoto samminiatese del Buonaparte per
dimostrare ch'egli serbò sempre affezione per i fatti e le persone
che gli ricordavano i principli della sua grandezza. «Tutti
i nomi di quel tempo, e di un'epoca anteriore (così
il maresciallo) non
hanno mai perduta la loro efficacia sopra di lui».
Ne inferisce che la natura gli aveva dato un cuore riconoscente e
benevolo, ed anche sensitivo, e che ingiuste sono le opinioni
contrarie. Invece il Michelet insinua che il padre di Napoleone
scoprisse il ricco e credulo canonico di S. Miniato, e lo persuadesse
a riconoscerlo per parente, procacciandosi in tal guisa patenti di
antica nobiltà fiorentina. Poi Napoleone, «puor
faire sa cour aux prêtres, alla voir ce bonhomme de chanoine dont il
disalt êtres parent, et comme lui descendu d'un saint du moyenâge.
Cela pouvant avoir un bon affet en Italie, en France, dans tout le
parti retrograde»
(09).
L'anonimo
Samminiatese, autore di una Storia
Genealogica dei Buonaparte,
aggiunge che il canonico di nome Filippo si trattenne a lungo
coll'illustre parente, «mostrandogli
tutte le carte e diplomi gentilizi dell'agnazione, dei quali
Napoleone mostrò di fare gran conto; ma quelli sopra cui il
rispettabile canonico maggiormente mostrò il suo particolare
interesse, furono i comprovanti le virtù eroiche cristianamente
praticate dal venerabile Fra Bonaventura cappuccino, loro antenato,
che viveva col declinare del secolo decimosesto... soggiungendogli
ch'esso generale doveva le sue vittorie, i suoi trionfi, la sua
salvezza all'intercessione di questo servo di Dio»
(10).
Secondo lo Zobi, i Samminiatesi avrebbero pubblicamente festeggiato
il Bonaparte; ma di feste nei [068]
documenti non trovo menzione alcuna, se non vuolsi ammettere come
tale lo stanziamento della somma di 871 lire, fatto dal Comune il dì
28 luglio del 1796, per il passaggio delle truppe francesi la sera
del 29 giugno, mentre di lì a poco, essendo frequente il passo di
quelle milizie, si elegge un Commissario comunale, il sig. Prospero
Badalassi, per provvedere ai danni dai (11).
Infine la tradizione orale, ormai languidissima, ricorda solo che il
Bonaparte, di notte, con molti generali, fra i quali il Murat, smontò
alla casa del canonico, essendo la piazza tutta piena di soldati. La
casa, ora Gazzarrini, sorge presso la piazza Bonaparte, già S.
Sebastiano, e vi fu apposta ai giorni nostri un'epigrafe.
Tornando
al nostro Diarista, pel quale i giacobini sono poco meno del diavolo,
el si compiace tuttavia che la famiglia Buonaparte o Bonaparte sia
originaria del suo paese. «Era
oriunda samminiatese, perciç nel ritorno che il generalissimo fece
da Livorno (son
sue parole) passò
di S. Miniato che fu nel fine del mese di Giugno del 1796, circa le
ore 11 della notte (29-30
giugno) con
carriaggi e cassa militare, accompagnato da alcuni generali, e da
circa 50 soldati a cavalo, e andò a smontare al palazzo del molto
reverendo Sig. Canonico Buonaparte, suo parente; nel giorno dopo
ripartì, e andò a Firenze».
Questa testimonianza circa la origine del Bonaparte, data come cosa
nota e certa in S. Miniato, assai prima che si accendessero le
dispute intralciatissime dei genealogisti, ha certamente un valore, e
conferma le conclusioni dell'Anonimo, che pur non la conobbe, e che
sostenne samminiatesi di origine i Bonaparte di Corsica (12),
contro il Gerini ed il Passerini, che a dir vero almanaccò molto,
con poco o nulla concludere, perché li vuol derivati dai Cadolingi
conti di Fucecchio, eppoi da Sarzana, negando o interpretando un po'
arbitrariamente memorie autorevoli. Anzi ricordo che il [069]
compianto Cesare Guasti,
da me interpellato sull'argomento, notava che il Passerini stesso
finì per non essere molto persuaso delle sue stesse osservazioni, e
che negli ultimi tempi si era quasi affatto ricreduto. Certo si è
che in S. Miniato abbiamo una serie di documenti comprovanti la
esistenza dei Bonaparte, dal 1272, anno nel quale Guidoletto notaio
del fu Ildebrandino di Buonaparte, sindaco del Comune di S. Miniato e
capo dei ghibellini fa la pace col vicario angioino, fino al secolo
XVIII ed al canonico Filippo. Le tombe poi della famiglia erano nella
cattedrale fino dal secolo XIV (13),
e nel convento di S. Francesco. Gli stessi Bonaparte, come risultava
dalle carte domestiche, si ritennero sempre originari di Toscana
(14),
e più [070]
specialmente di S. Miniato e di Firenze (avvertiamo che molte
famiglie nobili samminiatesi vennero fatte partecipi della nobiltà
fiorentina e viceversa), e Napoleone, se da generale visitò il
canonico, da Imperatore a Gino Capponi, che gli veniva presentato a
Parigi, disse tra francese ed italiano: «ch'egli
aveva toscana origine, e che i suoi erano signori di Samminiato.
Trovarono, soggiunse, alla biblioteca una commedia scritta da un mio
antenato, e volevano ripubblicarla; ma io non volli per esser
lubrica»
(15).
Il figlio della rivoluzione francese teneva forse a discendere da una
famiglia di giudici, legisti e sacerdoti, di antica e provata
nobiltà? Ripensò egli talora con affetto, come vuole il Marmont, a
que' suoi oscuri parenti, e forse nell'isola sconsolata del suo
esiglio ricordò le verdi colline ov'ebbe il suo nido la tragica
prole?
III.
Mi
si
perdoni la digressione, e passiamo al vero principio del Diario ed
alla sua prima notizia importante: «Il
dì 26 Marzo 1799 nel Salone del Sig. Carlo Gucci furono incominciate
dai giacobini e le sessioni e le adunanze, dove si trattava di
soppressioni di conventi, o vendette degli uni contro degli altri, e
l'ingrandimento dei giacobini colle sostanze delle chiese, e conventi
e possidenti».
Nove erano in S. Miniato i principali giacobini, fra i quali un
Simone Cardi Cigoli, discendente del pittore, del quale il
Bracciolini scriveva: «tuo
pennel parla, e la mia lingua tace».
Il dì 31 marzo ognuno «si
messe con gran sollecitudine la coccarda di tre colori, rossa,
turchina e bianca. Alcuni di S. Miniato del partito francese
proposero di piantare l'albero prima che [071]
alcun
francese venisse. Infatti il 2 Aprile, giorno di mercato, fecero
cavare nelle grotte presso il convento di S. Martino un alloro colle
barbe e frondi; e lo piantarono in mezzo alla piazza di S. Domenico,
dove piantato che fu il cittadino Michele Buonfanti fece al popolo,
che vi si era affollato per la curiosità, un breve discorso in lode
della libertà ed eguaglianza, e del suddetto albero, chiamato da
quelli scellerati giacobini l'albero rigeneratore, con molte altre
cose contro dei principi chiamati col nome di tiranni».
Preparato debitamente il terreno a dì tre aprile, ecco apparire
cinque ufficiali francesi, fra i quali un Giuseppe Buonfanti di S.
Miniato, ed un certo Canesi di Livorno, che aveva parenti nel paese,
ed eccoli ordinare che s'innalzasse un altro albero sulla piazza del
Seminario. «Lo
stesso giorno fu mandato ai conventi l'ordine che il dì appresso, in
occasione dell'alzamento dell'albero facessero delle generose
elemosine ai poveri, come pure che si atterrassero e che si
mettessero in pezzi tutti gli stemmi ed armi... ed il tutto fu
atterrato in poche ore, e questo fu fatto subito dopo attese le
minaccie e terrore che avevano incusso ad ognuno i suddetti francesi
e giacobini».
Innanzi si erano aboliti anche i titoli «che
però o poveri o ricchi tutti egualmente erano cittadini».
«Inoltre
fu da Michele Vannini ed altri giacobini, sotto la presidenza dei
cittadini Simone Cardi e Dario Mercati, atterrata e messa in pezzi la
statua di marmo che stava in mezzo alla piazza del Seminario: la
legarono per il collo con una grossa fune, e la tirarono a terra con
gran forza».
Rappresentava Maria Maddalena d'Austria, moglie di Cosimo II dei
Medici, generosa benefattrice dei Samminiatesi. Erasi infatti
adoperata affinché la terra, ch'era di suo appannaggio, divenisse
sede di un vescovado, e fosse dichiarata città. L'avea visitata
amorevolmente, ricevuta ed ossequiata dai nobili e dal popolo, mentre
il Gonfaloniere, certo Anchise Seragoni, che avea preparato un
fiorito discorso, soffocato dalla commozione, ruppe un un pianto
dirotto, né seppe pronunziar parola. Vi si era trattenuta due
giorni, dimorando nel palazzo Grifoni (ora Catanti), concedendo
udienze, erogando sussidi in opere di beneficenza, e liberando
carcerati. La statua, opera della riconoscenza, era stata scolpita
dal fiorentino susina, il quale effigiò la granduchessa collo
scettro nella [072]
mano destra, e colla sinistra posata su di un leone, emblema della
città, sostenente colla zampa levata lo scudo mediceo (16).
Ora qual mutazione di tempi! La immagine della benefattrice fu
spezzata a ludibrio di popolo, ed i rottami rimasero poi lungamente
buttati in un canto, entro una specie di cantina o di magazzino, né
so bene se vi si trovino ancora. «Fu
messa in pezzi anche la colonna della Berlina, situata in fondo alle
scalinate che conducevano al Tribunale»,
dove sorgono adesso la Sottoprefettura e la Pretura. La sera vi fu
«illuminazione
per tutta la città».
Dov'era la statua, si attese il dì 4, al piantamento dell'albero
«ordinando
che ognuno adornasse le finestre e gli usci di rame di alloro, e che
ognuno ne portasse un ramo al cappello; ed infatti in meno di due ore
tutta la città sembrava un bosco di alloro, poiché ognuno andò
nelle ragnaie de' padri Agostiniani e dei Grifoni, a tagliare senza
discrezione, né i padroni potevano impedirli perché dicevano che
tutto era in comune, e ch'era libertà di fare ciò che volevano.
Finalmente, alle 10 del mattino, fu piantato un grosso e lungo albero
tinto a tre colori, ed in cima vie era un berrettone alla militare,
con due bandiere e lance tricolori, al suono di violini ed altri
strumenti, ed al canto di alcune canzonette chiamate patriottiche»,
mentre «tutti
i giacobini, ed altre poche persone che per timore figuravano di
essere giacobini, si davano dei baci, e ballavano molto intorno al
detto albero, come tanti matti».
In tale occasione il cittadino Giuseppe Buonfanti «fece
al popolo un energico discorso in lode della nuova repubblica e della
libertà ed eguaglianza e dell'albero chiamato da quelli scellerati e
sacrileghi albero sacro, col quale discorso inculcava odio alle
monarchie».
Fu tanto energico, che l'oratore «per
essersi tanto affaticato stette 24 giorni il letto colla febbre».
Verso mezzogiorno terminava la cerimonia dell'albero, ed il popolo si
affollò alle porte dei conventi per l'elemosine. De' conventi in S.
miniato ve n'erano tanti, nonostante la soppressione di Pietro
Leopoldo, che debbono essere state copiose. [073]
Alcuni conventi fecero una distribuzione di pane, ed altri dettero ai
poveri una crazia a testa: spesero 15 scudi per ciascuno.
La sera «gran
festino nella Cancelleria, e generale illuminazione con gran concorso
di popolo».
Né basta. I giacobini vollero anche il Te
Deum,
e già fino dai giorni innanzi gli ufficiali francesi, fra i quali
(così il diarista) un ebreo, erano stati dal vescovo affinché lo
facesse cantare in Duomo, «col
suono di tutte le campane»,
sempre in onore e gloria dell'albero, ed «in
ringraziamento»
della sua erezione; dell'albero, che dovea certamente stupire,
americano di originai e giacobino di costumi, in tutte quelle feste e
pompe cattoliche. Strani e curiosi contrasti! Mentre da noi certi
rivoluzionari del popolo (il Vannini ed altri erano popolani)
ragionavano presso a poco come il Babbeuf e i Comunardi,
gridando «che
tutto era in comune, e ch'era libertà di fare, ciò ce volevano»,
non sapevano poi fare a meno di mendicare, secondo le inveterate
abitudini alle porte dei conventi, e volevano, come la plebe
napoletana, far giacobini i Santi, il Duomo e le campane, piuttosto
che rinunziarvi. Se non che il pio scrittore si affretta ad osservare
«che
questi Francesi entrarono in chiesa al Te Deum, celebrato il dì 5, e
andarono al posto destinatogli (sic) senza aver fatta alcuna
genuflessione; ma appena si cavarono il cappello, poiché vi vennero
per una pura apparenza esterna».
S'intima
la consegna delle armi «sotto
la pena pei disobbedienti di esser fucilati come nemici della
patria»;
eppoi mescolando sempre le prepotenze, le minaccie e le provocazioni
colle feste, un altro festino in Cancelleria, dove «un
uffiziale francese di nazione ebrea (sic) s'innamorò di Elisabetta
Gori samminiatese, tanto che, terminato il ballo, andarono a sposare
attorno all'albero della libertà all'uso della nuova repubblica
francese, e senza veruna cerimonia della chiesa, e la mattina
partirono tutti i Francesi insieme colla detta Gori».
E forse fu quello il solo matrimonio
repubblicano
in S. Miniato. «Tutta
la facciata del muro esterno del Tribunale era ripiena di stemmi dei
vicari che vi erano stati, all'uso antico. Perciò il magistrato
detto dei Francesi la Comunè (il Municipio riformato da loro) messe
la mattina del 6 Aprile cinque muratori... e levarono tutti li stemmi
ed armi, risarcirono il tutto e lo imbiancarono. [074]
Per
fare il detto lavoro vi messero quindici giorni (17).
A tutte le piazze fu dato un nuovo nome»,
e così «la
Piazza del Seminario si chiamò Piazza Nazionale, quella di S.
Domenico della Rigenerazione; quella del Grifoni della Libertà;
quella di S. Sebastiano della Eguaglianza; e quella di S. Agostino
dell'Ospedale».
Si aprirono le inscrizioni volontarie «alla
truppa nazionale»;
ma, se diamo retta al Diarista, molti si dettero in nota «con
animo, quando fossero chiamati a prender le armi, di scappare per le
campagne e boschi».
E'
innegabile che in S. Miniato la baraonda e le provocazioni dei
giacobini furono assai gravi, e che alcuni credevano o dettero
appigli a far credere ch'eguaglianza
e
libertà
suonassero licenza e facoltà di appropriarsi l'altrui. E' tradizione
che uno di loro, un popolano, già vagheggiasse di prendersi una
villa, ed a questo allude la strofa di una canzone riazionaria
riferita dal notro:
Libertà
lui la gradìa
Perché
ben gli convenìa
Villeggiare
alla Bastia;
Ma
sbagliò proprio il furfanto
Il
disegno, l'andò errante
Sui
villaggi in Paesante (18)
Ora è più facile immaginare che
descrivere l'effetto di simili provocazioni sugli animi di persone,
nate e vissute nelle pacifiche casette fra una chiesa ed un convento,
e sui contadini, tenaci conservatori de' sentimenti e delle pratiche
avite; in un paese quieto, agricolo, raccolto, devoto, com'era
Samminiato co' suoi nobili ed i suoi frati. Qual meraviglia che,
trovandosi a disagio, e come fuori dell'ordine suo naturale, fra quei
tripudi e scenate liberalesche, alla minima occasione, ad ogni più
lieve indizio, anche senza ammettere una cospirazione riazionaria,
[075], insorgesse, e direi quasi ritrovasse se stesso? Se
cospirazione in quei moti della Toscana vi fu, com'è accertato dai
documenti; in molti luoghi, in buona parte i moti furono anche
l'effetto del sentimento popolare, spontaneo, irrefrenabile, e questo
mi pare che si dimentichi un po' troppo negli ultimi studi su quegli
avvenimenti, tutto o quasi attribuendo ai preti, ai settari, e
perfino a Pio VI, ch'era, o m'inganno, in condizioni tali, nella
dimora a Siena, da non volere, né potere, e forse da non avere
interesse di farsi centro di agitazioni e d'intrighi. Il Brigidi,
credo pel primo, affermò le mene pontificie, senza darne prove
concludenti, ed altri, non so come, lo seguirono; ma torniamo a S.
Miniato, dove la sollevazione contro i Francesi fu più che altro
moto spontaneo di popolo e soprattutto dei campagnoli.
IV
Se
prestiam fede al diarista, la sommossa avvenne due giorni prima di
quella celebre di Arezzo. Sia un errore, una svista? Dal contesto e
dal seguito del racconto non mi sembra, talché può ritenersi il
primo sintomo de' fatti gravissimi che si andavano maturando. Ebbero
dunque S. Miniato, o meglio il suo contadiname e tutta la regione
circostante il primato cronologico dei moti riazionari del '99 in
Toscana! (19)
Il
fatto si è che «in
sera del 4 maggio la campagna che si scorge da S. Miniato pareva
un'illuminazione... si sparse la voce che l'imperatore colla sua
armata era vicino a Firenze, perciò, nata una sorprendente
sollevazione contro i Francesi, in meno di un'ora si adunarono in S.
Miniato più di 6000 contadini tutti armati, chi con forconi, chi
[076]
con
accette, pennati, bastoni ed alcuni schioppi ch'erano stati
sotterrati, allorché i Francesi fecero la requisizione delle armi,
ed in tre colpi di accetta atterrano i due alberi della libertà,
quali furono con fischiate trascinati per tutta la città, e ridotti
in pezzi ed abbruciati sulla piazza dell'Ospedale».
Poi nuove illuminazioni, e fuochi di gioia fin sul poggio della
ròcca, «e
per tutta la notte un continuo girare al suono dei tamburi e violini,
gridando: – viva l'imperatore, viva Ferdinando III, viva l'armata
austriaca –».
Si corre alle case dei giacobini «per
ucciderli ed abbruciarli i loro beni; ma essi al primo lampo della
rivoluzione scapparono, e si rifugiarono alcuni per le macchie di
campagna come le volpi, ed alcuni che non furono a tempo a scappare
si rifugiarono sopra i tetti, e i palchi morti delle case».
Il popolo «non
potendo sfogare la sua rabia contro di essi, si pose ad abbruciare
usci e finestre, tavolini, seggiole e quanto trovava»,
talché «non
restarono che le muraglie delle case ed i tetti».
Al Cardi però, per le preghiere di due sacerdoti della famiglia, non
ruppero che le vetrate; né grave danno fecero alla casa Buonfanti.
Insomma anche in questo caso i ricchi furono risparmiati, ed i poveri
ebbero la peggio.
«Non
può descriversi a pieno lo spettacolo ed il gran fuoco ch'era per le
piazze e per le strade, e la quantità grande del popolo con fiaccole
e granate accese, talmenteché non si poteva passare per le strade;
vero le ore 10 della sera cominciò a calmare un poco il chiasso ed
il tumulto per un accidente... entrarono cioè 25 dragoni a cavallo,
e si schierarono in piazza del Seminario».
Simili per la montura ai Toscani, il popolo li credé austriaci, e si
serrò loro attorno, acclamandoli: essi rispondevano agitando il
fazzoletto, e gridando evviva.
Chi sa quanto durava l'equivoco, quando «un
certo marchese Alli-Maccarani nizzardo, stanziato da qualche anno in
S. Miniato, e che si credeva sospetto di giacobinismo»,
si accostò ai dragoni, e in francese disse loro che partissero,
perché potevano correre pericolo di esser fatti a pezzi. Non se lo
fecero dir due volte, e fuggirono. Quando il popolo gridò: «son
francesi, ammazziamoli»,
e corse loro dietro, essi «fuggivano
disperati».
Sotto Cigoli smarrirono la strada; infine la ritrovarono; ed era
troppo tardi per inseguirli.
[077]
I contadini reclamavano le armi, già consegnate ne' giorni
precedenti; dapprima non si volevano rendere; ma bisognò cedere.
Nella notte molti di loro rimasero a guardia di S. Miniato, e il dì
seguente (5 maggio) ingrossati di numero, tornarono alle case dei
giacobini, e finirono di saccheggiarle. Se non seppero fare a meno
del vescovo e delle sacre funzioni i giacobini, immaginate questi
altri! Anzi il vescovo fece scuoprire l'immagine del Crocifisso, la
più venerata dai Samminiatesi, nella chiesa di questo nome, e acese
sul baluastro della chiesa predicando «la
pace, la religione e la mansuetudine».
Era monsignor Brunone Fazzi, dotto e pio veramente, e che, fra tanti
preti faziosi ed intolleranti, seppe rimanere al suo posto, presso i
suoi altari, intento solo al suo divino ministero ed all'opera
benedetta della conciliazione. Tra gli spari di moltissimi schioppi
ed il suono delle campane, dié la benedizione, e i contadini meno
inferociti cominciarono a girare per la città con stemmi e bandiere
granducali, e «con
gran festa e gioia».
Abbruciate tutte le coccarde francesi, uomini e donne si misero
coccarde gialle e nere, e anche granducali, bianche e rosse.
Il
6 maggio, mentre in Arezzo faceva la fatale comparsa la carrozza
misteriosa, occupata Empoli dai Francesi, il Vicario vescovile,
ch'era un Migliorati, il can. Cardi, il cav. Giuseppe e il sig.
Filippo Morali, trepidanti per la città natale, andavano a chieder
perdono pel popolo, insinuando ch'erano stati i contadini, e non i
samminiatesi autori del tumulto. Il comandante di Empoli rispose
netto che non poteva perdonare, e che si rimettesse l'albero. Si
affrettarono ad obbedire, innalzando però «un
puro stile e piccola bandiera».
Si riprese anche la coccarda di Francia, e i giacobini tornavano a
farsi vivi, fra i quali il Buonfanti, che andava dicendo: «dove
sono questi guerrieri della fede, dove sono questi ladri della
religione, che rubano per la fede e per la religione! I Francesi non
fanno queste cose».
Il vicario di governo, certo Leoni, fu destituito «perché
non era andato a calmare il popolo la sera della rivoluzione».
I Francesi, esasperati dal vacillare della fortuna, non rispiarmarono
a S. Miniato contribuzioni, requisizioni e processi. Presero in
ostaggio il vicario vescovile Migliorati, un dott. Caponi ed i
signori Giuseppe e Filippo [078]
Morali (20);
«né
si può descrivere il rincrescimento ed i pianti di tutte le persone
dabbene per la perdita dei suddetti signori».
Né basta; da S. Miniato, ch'è quasi a metà strada tra Firenze e
Livorno e tra Firenze e Siena, passavano di frequente soldati; ed il
Diarista nota che si ponevano ad alloggiare pei conventi, e che
sfondavano gli usci delle cantine e dei refettori, mangiavano e
dormivano a ufo, cacciando i frati dalle celle, e portandovi le
proprie mogli. Il 19 maggio si piantò di nuovo e solennemente, alla
presenza della magistratura municipale, di tutti gl'impiegati, di una
banda militare e di una schiera di dragoni a cavallo, «l'albero
scellerato detto da loro sacro».
La cerimonia ebbe luogo sulla piazza del Seminario «adornata
di setini e festoni di alloro»,
e costò al municipio più di 100 scudi «perché
il comandante francese volle molti zecchini per aver fatto il
discorso».
Il nuovo vicario fu «un
certo Carminiani del Piano di Pisa, giovane di gran talento e
politica; ma giacobino perfettissimo».
Si volevano feste ed applausi, ed alla povera gente si portava via il
pane di bocca. Una volta accadde che, giunto l'ordine che dentro de
ore si portassero viveri per 2000 soldati, che poi non si videro,
«molti
paesani che non trovarono il pane per le botteghe se ne dovettero
andare a letto senza cena».
Non è dunque a meravigliare che i volontari arruolati in S. Miniato
trovassero varie scuse al momento della partenza, chiedendo
aggiornamenti ed indugi «chi
per gl'interessei di casa, chi per il padre, chi per la moglie... chi
per andare a riscuotere denaro da un contadino».
Il Buonfanti, che forse amava di farsi onore coi comandanti francesi,
dové partire con soli tre di quei volontari per forza, ed anche di
questi uno, vicino ad Empoli, si allontanò con una scusa, e tornò a
casa, talché di 25 che dovevano andare a Firenze, ve ne arrivarono
due, i quali, il giorno dopo, imitarono i compagni. Si ordinò pure
la banda
nazionale,
ed anche il nostro Gagliardi vi fu ascritto.
[079]
V.
Nel
Diario abbiamo qui la lacuna già notata; passando dall'una all'altra
mano il foglio andò perduto, né mi è stato possibile di
ritrovarlo; non pare che vi si descrivessero orrori di reazionari,
perché, a quanto mi è dato conoscere, in quel brevissimo perimetro
cronologico, non ne abbiamo alcuna memoria, onde, fino a prova in
contrario, amo credere, che la rivoluzione contadinesca, del 4 maggio
sia stata l'unica in S. Miniato, che pare no imitasse le gazzarre
abbominevoli, le selvaggie atrocità che funestarono Arezzo, Siena ed
altri luoghi della Toscana. Il vescovo Fazzi ebbe forse in questo la
sua parte di merito, e parte ve l'ebbe e molta il giusdicente, il
quale, come vedremo, dispose a che la berlina
non
fosse occasione di stragi.
Atrocità
non si commisero, ma non mancarono rappresaglie, scherno e crudeltà
pei giacobini, de' quali sembra che i principali si fossero dati alla
fuga. Nel giorno del Santo Patrono (S. Genesio, 25 agosto) di
quell'anno terribile «si
portarono col maggiore scorno per la città due fantocci che
rappresentavano Giuseppe Buonfanti e Michele Vannini, al suono di
violini e tamburi, ed in piazza di S. Domenico si abbruciarono fra
gli scherni e le grida del molto radunato popolo. Si fece girare su
di un carro trionfale l'arme del granduca, e si celebrò una
processione col SS. Crocifisso, e con tutte le graterie e compagnie
della città per le grazie ricevute»;
vi furono discorsi, sonetti, grande illuminazione; «e
le case del Sig. Carlo Gucci
(già sede del club),
del canonico Stefano, dell'Ansaldi e del can. Buonaparte potevano
stare in Pisa la vigilia di S. Ranieri!».
L'ospite di Napoleone che festeggia la ruina delle armi di Francia!
Si
fecero parecchi imprigionamenti e bandi, coi quali s'imponeva «che
nessuno temesse che il nemico tornasse ad infastidirci, essendo
impossibile che la sua armata superasse quella dell'imperatore e de'
suoi alleati; che se alcuno spargesse notizie in favore dei Francesi,
fosse subito arrestato, sentenziato militarmente, eppoi impiccato».
Dalla
Scala, fermata di posta, appié dell'altura di S. Miniato
continuavano a passar soldati, ed in quei giorni erano i Russi che
[080]
richiamavano l'attenzione del nostro popolano. E sfido a non badarvi!
Picchiavano di santa ragione i vetturali dai quali si facevano
accompagnare per lunghi tratti di via, perché non riuscivano ad
intenderli, talché mentre ordinavano una cosa, i poveri vetturali ne
facevano un'altra. «I
Russi non bevono punto vino, perché, se bevessero vino quanto copre
un fondo di bicchiere, subito li fa ubriacare, che non conoscono né
pure il loro comandante dal gran calore che li mette; il suo
(sic)
vitto
è pane di semola e di biada della peggio che si trovj, il bere è
acqua delle fosse; per minestra ogni 25 o 30, hanno due libbre d
riso, che lo mettono in una caldana di quell'acquaccia a bollire un
poco, eppoi un morso di pane, ed una romaiolata di quel brodo di riso
senza punta carne. Lungo la strada i campi di rape che vi erano
furono consumati dalla loro voracità; sbarbate che le hanno, le
scuotono dalla terra, e così crude le manfiano, come se fossero pere
preziose. Per dormire non si servono di paglia; ma dormono sulla nuda
terra ancora che piova, come le bestie».
Passano i Tedeschi, e chiedono barrocci; ma i barrocciai, sapendo di
«esser
picchiati forte»
fuggirono tutti, «e
i famigli del vicario non trovarono né vetturali, né proprietari
che avessero barroccio».
Il giorno dopo (era l'Ognissanti) tornarono i barrocciai; «ed
il vicario fa loro sapere che facessero la solennità in casa; però
il giorno dei morti dovessero andar tutti in segrete».
Del resto bastava molto meno per compromettersi. Una signora, certa
Prassede Gori-Bonfanti, di sera, da una finestra della propria
abitazione confortò a voce alta i prigionieri che stavano nel
noviziato di S. Domenico: «stessero
allegri (le
scappò detto);
che i Francesi eran vicini».
Fu subito catturata, di notte; ma, dopo otto o nove giorni fu
liberata «con
ordine venuto da Firenze».
Era mutata bandiera, ma non sistema; e le requisizioni di lenzuola,
coperte, letti erano continue; le fornivano i frati ed i possidenti.
Seguono
le notizie delle condanne inflitte ai giacobini samminiatesi, alcune
in contumacia, pronunziate dalla terribile Camera
Nera
del Cremani, sì dotto penalista sulla cattedra, sì iniquo nel
tribunale. Trentotto furono in S. Miniato i processati, de' quali
dieci vennero assolti, mentre per uno, il nobile Carlo Gucci, si
dichiarò non esser luogo a procedere. Giuseppe e [081]
Michele Buonfanti vennero condannati in contumacia ad un'ora di
berlina, a tre anni di pubblici lavori ed all'esilio perpetuo;
Michele Vannini, che fu preso, ad un'ora di gogna, a tre anni di
Falcone a Volterra, all'esilio perpetuo ed al risarcimento dei danni
dati al Comune; Giuseppe Marchionni alla gogna e a tre anni di
pubblici lavori; Matteo Bianchini ad un anno di Falcone ed all'esilio
perpetuo; Ascanio Franchi e Giuseppe Fiorini a tre anni di lavori
pubblici ed all'esilio perpetuo; Dario Mercati e Leopoldo Bianchini a
sei mesi di carcere e all'esilio perpetuo; Simone Cardi a tre anni di
confine a Volterra. Zaccaria Brogi ebbe l'esilio a beneplacito dei
magistrati; un Bulleri se mesi di esilio dal vicariato samminiatese;
il dott. Girolamo Rimbotti 15 giorni di sequestro in casa. La
punizione del canonico Stefani venne rimessa all'ordinario; e così
pure quella del dott. Carlo Lottini, destituito dall'ufficio di
maestro di belle lettere. Né vennero risparmiate le donne. La
Prassede Buonfanti ebbe l'arresto in casa fino a nuovo ordine, e
Maddalena Mercati due anni di reclusione nelle Malmaritate; ma era
fuggita coi fratelli.
Brutto
giorno per S. Miniato il 28 dicembre; vi fu l'orrida scena della
gogna inflitta al Vannini e ad altri. «In
questa mattina a ore 9 e fino a ore 10 sono stati messi alla berlina
i soprannominati soggetti; il popolo che sapeva dal giorno avanti che
sarebbero stati messi alla berlina fece gran folla; vi erano quattro
squadre di birri; e non vi fu modo di potersi accostare. Furono messi
a mezzo la scalinata del guardiolo, con una campanella al muro, e a
questa legati; avevano il suo cartellone al petto, e dal vicario fu
fatto il foglio e affissato; che non fossero molestati, che se non vi
era quest'ordine, o non vi fossero stati tanti sbirri, non sarebbero
tornati in prigione, perché i contadini li avrebbero ammazzati, e in
questa loro penosissima ora furono tacciati delle più infami
villanie, fischiate, battiture di mani, come il loro merito
richiedeva... Perfino gli tirarono una paniera di castagnacci, e un
contadino vidde che avevano la coccarda imperiale e toscana, disse
che non erano degni di portare quel segno, e vedendo li sbirri che
non potevano più contenere quella moltitudine, corse uno a levargli
quelle coccarde. Il Vannini Michele non potendo stare più ritto,
chiese una seggiola che gli fu portata, ma il [082]
popolo
cominciò a strepitare, e convenne levargliela, e stare ritto».
Che ora di agonia pei poveri condannati!
I
giacobini erano vinti, umiliati, oppressi; trionfava la buona
causa;
ma il danno e le vergogne duravano, ed aumentavano pur troppo. Lo
stolto contadiname che imperversava intorno alla berlina, pativa la
carestia. «A
dì 16 di Gennaio sul mercato di Empoli fu venduto il grano di prima
sorte L. 42 il sacco; il vecciato L. 27; il grano siciliano 26; le
fave 32; la saggina dalle 16 alle 17 lire; e il pane valeva fino a 4
crazie la libbra (28 centesimi). Questo fu il ricordo che ci
lasciarono i Francesi (esclamava
il diarista),
quando vennero in Toscana, perché non venendoci loro, non avrebbero
avuto luogo di venirci le truppe imperiali; e il gran numero di
soldati, e la raccolta scarsa ci portò a questo prezzo il vivere. Il
magistrato elesse due per spianare il pane a conto della Comunità, e
pensò di comprar grano a Livorno, decché i poveri braccianti si
trovavano in grandi miserie».
Poco li consolava certamente lo spettacolo di fraterie e compagnie
che visitavano il Sacramento «esposto
in cattedrale perché rendesse vittoriose le armate del nostro
benefico imperatore Francesco II».
In
Piazza del Seminario fu innalzata su di un piedistallo, a perpetua
memoria, una ben adornata croce, dove era stato posto l'aborrito
albero della libertà, l'odiosissimo
emblema,
dopo una processione solenne col vescovo, la compagnia della
misericordia, i magistrati cittadini, e tutto il clero secolare e
regolare. La piazza era parata con tappeti alle finestre, e vi era un
altare e un pulpito per la predica (21).
Nei reazionari è continua speranza ed ansietà di fauste notizie. Si
vedono fuochi sui monti di Pistoia, verso Pisa e verso Lucca; si
crede presa Genova, e si accendono subito anche in S. Miniato. Ben
presto parve confermarsi la voce della capitolazione del Messena,
talché il 6 giugno (1800) nella vasta e pittoresca campagna che si
scorge da S. Miniato, nel Val [083]
d'Arno di Sotto, bella Val di Nievole, «dovunque
si volgevano gli occhi pareva un palazzo tutto illuminato».
Indo solenne Te
Deum
perché, «si
erano allontanati dalla Toscana questa setta d'iniquità e di ladri».
Ma ecco il rovescio della medaglia. Sul più bello corre voce «che
erano entrati i Francesi in Milano».
Molti impauriscono; ed esclamano col nostro: «tornati
i Francesi in Toscana guai a noi»!
Poi venne la nuova ch'erano stati battuti, morti moltissimi, ed il
resto serrati nel Milanese da non potere tornare indietro. I
samminiatesi fedeli a Ferdinando III fidavano nel Conte Mari, «uomo
dabbene».
Speravano in lui, mentre, fra le altre, si ordinava al capitano della
Piazza di S. Miniato, Prospero Badalassi, di fare scrivere nei suoi
tre vicariati di S. Miniato, Empoli e Fucecchio 6 compagnie di
soldati, 2 di cacciatori e 4 di semplici fantaccini «per
tirare il confine della Toscana».
Ma ecco un altro fulmine a ciel sereno. Cattiva nuova, nota il
Diarista, si dice che il Generale Melas sia stato attaccato dal
generale Buonaparte in tre punti, «e
che ne abbia toccate: quanto prima si saprà di certo».
Reca un po' di conforto sapere che il Buonaparte, ritrovatosi a
Milano nel giorno del Corpus
Domini,
«fosse
andato colla torcia a processione»
e che strapazzò i giacobini, che avevano rizzato l'albero dov'era
posta la «croce
dei realisti. Anzi fece atterrare l'albero e rimettere la croce».
«Passarono
dalla Scala 4 mila Tedeschi... che sono i primi dei 1000 ch'erano
sotto Genova; sono sbandati e considerati come ribelli; perché,
essendo sotto Genova, e gli conparve il nemico, e non fecero alcuna
resistenza. Sono ignudi e ammalati, e dalla fame che avevano patito
avevano mangiato perfino del cavallo, e tanto sudici che molti ne
morirono, e sparati gli si trovarono ancora del cuoio in corpo».
Ecco pel come si comunicavano le notizie in provincia. Siamo al 1
luglio: già da 15 giorni la vittoria di Marengo aveva coronato il
Buonaparte di nuova gloria, e il nostro Diarista scriveva: «oggi
sappiamo essere avvenuta una battaglia sanguinosa per tutte e due le
parti tedesca e francese; lì 1° giorno il general Melas attaccò il
general Bonaparte, e perse fra morti, prigionieri e feriti 15,000
tedeschi; il 2° giorno si riattacarono, e vi restarono 20 mila
francesi, e poca quantità di tedeschi; il 3° giorno si [084]
riattaccarono,
e nessuno perse il suo posto; il nemoco era restato in maggior
numero. Il generale Melas si sarebbe attaccato di nuovo colla poca
armata che aveva; ma il general Buonaparte disse di cessare questa
strage di uomini, e che credeva che già l'imperatore avesse
sottoscritta la pace come avevano fatto in Campoformio».
Il curioso si è che qui Napoleone è appunto quello che vuol cessare
la strage guerresca, e che verso di lui, né ora, né dopo, il
Diarista, sì arrabbiato coi giacobini, ha parole di biasimo, ma
piuttosto di lode, tanto che sembra ch'ei non potendo avere il
granduca, si adatti fin d'ora e volentieri al Generale.
Del resto «in
questi giorni, tempo di armistizio, seguì una gran babilonia di
ciarle, che neppure potei pigliare tutti quei ricordi che sentivo,
perché appena saputa qualche nuova, dopo pochi momenti non era più
vera».
Così possiamo spiegarci la strana versione della battaglia di
Marengo, che non mi meraviglia punto, dacché pochi anni prima, nel
1796, perfino in Firenze, corse la voce stranissima che Napoleone
fosse vinto, portato gravemente ferito nel palazzo dell'ambasciatore
di Francia; e che quivi fosse morto, e sepolto nascostamente nel
giardino! (22)
Dopo
i poveri soldati imperiali sudici ed affamati passò dalla Scala una
regina austriaca, la quale fuggiva anch'essa come loro. «Alli
11 Luglio, alle ore 8 di questa mattina, nota il Diarista
solennemente, si seppe la nuova che alle 5 dopo pranzo sarebbe
passata la regina di Napoli, che andava verso Firenze. Il popolo di
S. Miniato scese alla strada maestra; i Fucecchiesi vennero con due
bande... Dalle ore 5 ch'erano stati ordinati i cavalli, passò alle
10... lungo la strada maestra erano accesi grandi fuochi».
Faceva un caldo insopportabile. Giunta alla Scala, quella maestà,
(che descrive il Capponi per «una
vecchiona di aspetto non bellamente maschile»
(23))
cinque volte si affacciò alla carrozza, e riveriva; mentre «il
popolo gridava evviva e batteva le mani. Nel tempo che facevano la
muta dei cavalli, diede alla banda di Fucecchio sei rusponi, che
formavano 35 scudi toscani, e ad una donna [085]
della
Scala, che le regalò un mazzetto di fiori, diede due rusponi. Le
carrozze erano otto... mi è stato detto che aveva seco tutta la sua
corte».
Il
paese giubilava per l'imminente ritorno degli ostaggi, e per la pace;
ed i giacobini erano sempre più in ribasso. Nel villaggio di Cigoli
accadde anzi una scena comica in proposito. Un fervido giacobino, di
nobile e antica famiglia, quel Simone Cardi, confinato già dalla
Camera Nera per tre anni a Volterra, lo troviamo adesso nel luogo di
origine de' suoi antenati, a tenere un discorso: «facendo
conoscere che, sebbene si fosse dimostrato partitante francese, e
andato a ballare intorno all'albero, e intervenuto ai festini
patriottici, tutto avea fatto esternamente, e non internamente, e per
non essere gastigato o mandato in esilio».
Indi, finita così edificante parlata, «si
mise in ginocchioni, baciò la croce e chiese perdono a tutti, e
dichiarò di essere e di essere stato sempre fedele al suo principe».
Comprava a tal prezzo l'impunità, come l'altro nobile, Carlo Gucci,
quel dal club,
era andato immune di pena forse per le valide protezioni, mentre il
povero Vannini, colpevole solo di aver troppo credute le chiacchiere
di quei giacobini da commedia, poco mancò non fosse accoppato alla
gogna. Ma qual berlina era peggiore, quella del Bargello, o quella
volontaria del nobile di Cigoli?
Di
nuovo passano dalla Scala i Francesi (1801), e con loro nuovi
tormenti e nuovi tormentati.
Se i Russi e gli Austriaci picchiavano i vetturali, questi «vicino
a Empoli ammazzano due contadini»;
ma oramai l'anarchia è in via di cessare; una mano ferma e risoluta
regola la disciplina; per questo omicidio vengono trattenuti in
Empoli duemila soldati, in attesa di ordini da Firenze; indi ne
vengono fucilati due, e legnati
tre o quattro. «Non
vi son fatti da prender memorie se non miseria; il grano di raccolta
costa L. 35 e 36 il sacco; l'olio 140 lire la soma; non è vile che
il vino, essendone stato in abbondanza; vale L. 11 e 12 la soma il
ragionevole».
Passa
il cadavere di Pio VI,
«alle
9 del mattino. Nella notte era stato nella chiesa di S. Romano, nella
quale avevano tirato il carrettone colla cassa, e quei frati con
alcuni preti di Castelfranco di Sotto avevano cantata la messa in
requiem».
Il carro colla cassa «era
tirato [086]
da
quattro cavalli e coperto di tele incerate; il seguito consisteva in
due carrozze, ov'erano uno o due cardinali, un vescovo ed altri
segretari con servitori, ed era scortato da 10 dragoni a cavallo».
Infine, a dì 23 maggio del 1804, il Diarista può appuntare: «per
lettere, gazzette e chiacchiere si dice assolutamente che il
Buonaparte sarà re di Francia».
VI
D'ora
innanzi il manoscritto che son venuto spigolando, diviene meno
importante. In quell'epoca napoleonica di grandi battaglie, di regni
creati o distrutti, di prefetti, di gendarmi, di soppressioni di
conventi o di coscrizioni, l'autore poco forse si raccapezzava, eppoi
dev'aver lasciato senz'altro e forse anche riposto il suo lavoro,
senza più riprenderlo, o disgustatosene o distolto da altre cure. Le
ultime pagine sono quasi appunti. Si nota la partenza della regina di
Etruria «che
è stata un atto di tragedia»;
una festa celebrata in S. Miniato nel 1808, quando il padre Aglietti
francescano «fece
un discorso a onore e lode dell'immortale Buonaparte... e fu data una
rappresentazione gratis al nuovo teatro».
Ricorda che una commissione di cospicui cittadini andò a Firenze ad
implorare «un
sottoprefetto, la posta e la permanenza dei conventi, essendo S.
Miniato una città povera»,
e che fu esaudita solo in parte la domanda; ma i conventi vennero o
permutati o soppressi. E qui la enumerazione delle soppressioni e
delle permute, simili a quelle che Napoleone faceva delle nazioni e
degli stati. Segue una notizia che forse può interessare i frugatori
di archivi e di biblioteche. Il 21 giugno 1808 «il
governo ha mandato un prete ch'è pubblico lettore a Pisa, a vedere
se nelle librerie di questi conventi vi fossero libri di qualche
valore o importanza storica, come sarebbero descrizioni di guerre
successe, memorie di monarchi, fatti di principi. Ha fatto lo
spoglio, e messi in disparte quelli che ha creduto, ne ha mandati due
barrocci al Prefetto».
Vengono
per ultime le feste del 15 agosto «per
l'onomastico del grande eroe, del magnanimo imperatore Buonaparte».
Cominciate, al solito, col Te
Deum,
terminano col veglione al Teatro, e la visita del Prefetto di
Livorno, dal quale S. Miniato, con strano sovvertimento delle
condizioni [087]
geografiche, delle tradizioni e delle storia, allora dipendeva. Il
prefetto fece pagar cara la visita; celebrò in Cancelleria
solennemente la triste cerimonia della coscrizione, e si portò via
tredici giovinotti.
Al
Diario segue una lunga poesia contro i giacobini, primo ed ultimo
pensiero, e quasi l'incubo del Cronista. E' una specie d'imitazione e
di parafrasi del Dies
Irae,
storpiato per la circostanza; di sopra ne riferimmo un piccolo
saggio; eccone ora il principio e la fine:
Die
illa (sic),
dies illa
Giscobini
vanno in villa
Nena,
Assunta e la Sibilla.
Se
ne van per l'aria scura,
Che
son pieni di paura
Di
trovarsi in sepoltura.
…............
Gran
bontà della natura,
Che
la pera è già matura,
Or
vi vedo in sepoltura.
Lacrimosa
dies illa
Al
sovrano il cuor ne brilla
Di
mandarvi tutti in villa,
Dove
diace la Sibilla.
Faccio grazia volentieri delle
allusioni e delle invettive personali, dalle folgori né olimpiche né
poetiche di questo anonimo vate da strapazzo, pago di segnalare come
fra tanti fatti, persone, sentimenti e circostanze ricordate o
rivissute in queste pagine, la repugnanza, l'aborrimento contro i
giacobini prevale e campeggia sempre dal principio sino alla fine,
vivace ed irrefrenabile.
Firenze
Giuseppe Rondoni
NOTE
(01)
Cosenza, Aprea editore, 1891. [Nota 01, p. 64]
(02)
Nuova
Antologia,
16 genn. 1892. [Nota 02, p. 64]
(03)
Mi venne fatta conoscere dall'egregio sig. Antonio Vensi di S.
Miniato, indefesso raccoglitore di memorie paesane, il quale ne
trasse anche una copia, e mi fornì utili schiarimenti, talché ora
gli debbo pubbliche grazie. [Nota 03, p. 64]
(04)
Lo
Zobi (Storia
civile della Tosc. to. II)
limitava infatti ai centri principali il racconto; il Brigidi
(Giacobini
e Realisti o il Viva Maria,
Siena, 1882) dava notizia di qualche centro secondario; ma del senese
e dell'aretino principalmente; il Lumini (op. cit.) illustra in
special modo le vicende di Arezzo; il Masi (op. cit.) aggiunge
notizie nuove su Livorno. Naturalmente A. Francetti nel suo
importante lavoro Storia
d'Italia dopo il 1789
non poteva indugiarsi sui particolari della reazione toscana. Anche
il Cantù nelle Corrispondenze
di Diplomatici della Repubblica e del Regno d'Italia,
non offre particolari in proposito. [Nota 01, p. 65]
(05)
V. Hugo, I
Miserabili,
III, 1. [Nota 02, p. 65]
(06)
Da
loro, ai quali rendo le debite grazie, e dal sig. Vensi ho attinto
anzi queste notizie. [Nota 01, p. 66]
(07)
Marmont,
Memoires,
to. 1, p. 194-195. [Nota 01, p. 67]
(08)
Zobi,
op. cit. III, p. 188. [Nota
02, p. 67]
(09)
Directoire
et Origines des Bonapartes,
to. 1, p. 347-348 e 420. [Nota 03, p. 67]
(10)
Storia
Genealogica della Famiglia Bonaparte scritta da un Samminiatese,
p. 91, Firenze, 1846. Era il nobile sig. Damiano Morali. Il canonico
Filippo morì il 24 dicembre del 1799, istituendo eredi universali i
poveri della sua parrocchia dei SS. Michele e Stefano, e quelli della
parrocchia di S. Lucia a Calenzano. [Nota 4, p. 67]
(11)
Zobi,
Op. cit. III, p. 188. Protocollo delle Deliberaz. comunali, 28 luglio
1796; e 31 agosto dello stesso anno. Arch. del Com. di S. Miniato.
[Nota
1, p. 68]
(12)
St.
genealogica sopra
cit. Gerini, Memorie
di Lunigiana,
e Passerini, Le
Armi dei Municipi Toscani illustrati,
Firenze, 1864, p. 105; e Arch.
Stor. It.,
Nuova Serie, to. III, P. II, e to. IV. P. I. V. anche to. X. P. I..
Replicò l'Anonimo con un'Appendice
alla Storia genealogica,
Firenze, G. Mariani, 1862. [Nota 2, p. 68]
(13)
Il documento ov'è ricordato Guidoletto è una pergamena autentica
che si conserva nella nobile casa Ansaldi di S. Miniato. Il prop. G.
Conti, il quale si proponeva d'illustrare con documenti la storia
genealogica dei Buonaparte, trascrisse due epigrafi mortuarie, ch'ei
dice sussistevano nella cattedrale samminiatese: ecco la 1a: Jacobus
de Bonapartibus a S. Miniate – Nobiliis miles atque Pretor – qui
ibiit XV Maii MCCXCI – Hic jacet.
La 2a, nell'Arch. del Capitolo, è la seguente: Sepulcrum
vetus a majoribus de Bonapartibis – Suis heredibus relictum. A.D.
MCCCXII.
Il sepolcro fu restaurato nel 1709 dal proposto Francesco Buonaparte,
che faceva apporre una nuova epigrafe, ed infine dal prop. G. Conti
nel 1864, con sussidi ottenuti dallo imperatore Napoleone III (Da
manoscritti del prop. G. Conti). La tomba è a piè del presbiterio,
nel primo luogo di onore della cattedrale. Nel Libro dei Ribelli del
Com. di S: Miniato, all'anno 1431, è un Lionardo di Antonio di
Moccio Buonaparte (G. Conti, Storia
del SS. Crocifisso.
Appendice, p. 103). Inoltre nella Riforma degli Statuti di S. Miniato
del 1494 è ricordato fra gli statutari Jacobus Baptista Vectoris
Bonaparte, il quale fu pure fra quelli che compilarono i Capitoli del
Mulino del Comune del 1498, e tra i riformatori del 1503 (Arch. di
Stato di Firenze. Statuti
di
S. Miniato, n. 634); e fra le carte della Curia vescovile abbiamo una
scritta di affitto di una casa fra le monache di S. Paolo a Pier
Francesco Buonaparte, stipulata il dì 8 marzo 1587 (Filza di Atti
contenziosi del 1593, n. 96); una lettera di Jacopo di Giovanni
Buonaparte, del dì 12 luglio 1588, ed un atto di presentazione alla
chiesa di Calenzano emesso dal sig. Giov. Batt. Buonaparte sotto il
dì 16 Aprile 1766 (Atti, Filza del 1766, n. 8). Negli Statuti sopra
citati i Buonaparte sono della parte Podiighisi,
essendo allora la città divisa in due parti; proprio dove abitava il
canonico Filippo. [Nota 1, p. 69]
(14)
Un
Gius. Buonaparte scriveva da Ajaccio (20 Aprile 1703) al canonico
Carlo di S. Miniato: «derivar
noi senza fallo dallo Stato del serenissimo Granduca... il ceppo è
lo stesso, e noi procediamo dallo stesso fonte, come so per fama dai
miei antenati».
(Appendice
alla Storia genealogica,
p. 36). Carlo, padre di Napoleone, addottoratosi a Pisa, veniva alla
laurea qualificato per nobile patrizio fiorentino, samminiatese e di
Aiaccio (Appendice
cit.
p. 166). Vero è che Giuseppe nella supplica al Granduca del 1789,
crede il suo ramo derivato da Sarzana; ma là trasferitosi dal
fiorentino (Stor.
gen.,
p. 90-92 e p. 171); e P. Vico, Genealogia
storica,
in fine. Del resto oggi il Lanfrey (Hist.
de Napoleon,
T. 1), ed il Taine, Origines
de la France contemp.,
fanno samminiatesi i Buonaparte.
[Nota
2, p. 69]
(15)
Scritti
editi e inediti,
I, p. 20. [Nota
1, p. 70]
(16)
Documenti
raccolti
dai signori A. Vensi e Giov. Turri. Deliberaz. del Municipio
nell'Arch. Com. [Nota
1, p. 72]
(17)
Anche
in Empoli si tolsero gli stemmi degli antichi potestà, e il
chiavistello ch'era appeso sulla porta del pretorio, e che in
tradizione narrava essere stato dagli Empolesi rapito dalla ròcca di
S. Miniato come trofeo di vittoria. Era il chiavistello cantato da
Ippolito Neri nel suo poema La
Presa di Samminiato.
Ved. Lazzeri, Storia
di Empoli,
Empoli, 1873. [Nota
1, p. 74]
(18)
E'
una campagna boscosa nelle adiacenze di S. Miniato. [Nota
2, p. 74]
(19)
Ho
detto tutta la regione circostante, perché sino dal 4 maggio fatti
consimili avvennero in Empoli, Fucecchio, S. Croce, Castelfranco,
Pontedera, Lari, S. Gemignano, Pistoia e Prato. Si credevano prossimi
i Tedeschi;
ed in Empoli si fece una processione, e furono collocati di nuovo ai
soliti posti le armi del Granduca, e il noto chiavistello. Ved.
Lazzeri, Op. cit., p. 70 e segg., nonché il nostro Diariasta, il
quale sembra attribuire il moto «ad
una ciarla aparsa per la campagna dai contadini... per potere riavere
i loro schioppi»,
sequestrati pochi giorni prima. [Nota
1, p. 75]
(20)
Lo
Zobi, che non parla affatto dei moti di S. miniato, enumerando gli
ostaggi delle varie città toscane, omette fra quelli di S. Miniato
un Morali (to. III, nota a p. 314) [Nota
1, p. 78]
(21)
L'abbiamo
a stampa, ed eccone il titolo: Sentimenti
del prete Cristiano Baldacci Priore di Pino,
Firenze 1880. E' un'invettiva contro i giacobini e le giacobine, alle
quali rimprovera come inaudita sfacciataggine il
vestire alla guigliottino.
[Nota 1, p. 82]
(22)
Zobi,
Op. Cit., III, p. 198-199. [Nota 1, p. 84]
(23)
Scritti,
editi e inediti,
I.
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