Questa
proposta di seguito è la terza delle quattro novelle di Franco Sacchetti,
ambientate a San Miniato o nei suoi dintorni. Fu redatta probabilmente intorno
al 1392, quando Sacchetti era Podestà a San Miniato e presenta alcuni elementi
interessanti anche da un punto di vista storico. Stavolta i protagonisti sono tre ciechi fiorentini, Lazzaro, Salvatore e Grazia, che campano di elemosine. I tre avevano stipulato una sorta di società, in modo da distribuire equamente i proventi della loro attività di questuanti. Muovendosi verso Pisa per la festa di Santa Maria, arrivarono ai piedi della collina sanminiatese, e più precisamente a Santa Gonda. Qui, stando in una camera d'albergo, decisero di effettuare la conta dei soldi e di fare una ridistribuzione. Ad un certo punto della conta, Grazia viene accusato dagli altri due di volerli imbrogliare. Ne esce una violenta colluttazione, che vide anche l'intervento dell'oste e di sua moglie. Alla fine i tre rimangono senza un soldo. Anche in questo caso, la storia non è altro che è un pretesto per sostenere un insegnamento "morale", così come
nelle altre novelle del Sacchetti, il quale non fa altro che proporre, seppur
in forma di racconti, le meditazioni di carattere morale e religioso, che egli
stesso aveva elaborato negli anni '80 del '300.
Immagine tratta dal libro Novelle di Franco Sacchetti,
Giovanni Silvestri, Milano, 1815
NOVELLA
CENTESIMAQUARANTESIMA
Tre ciechi fanno
compagnia insieme, e veggendo la loro ragione a santa Gonda, vengono
a tanto, che si mazzicano molto bene insieme, e dividendo l'oste e la
moglie, sono da loro anco mazzicati.
Nel
popolo di santo Lorenzo, presso a santa Orsa nella città di Firenze,
tornavano certi ciechi, di quelli che andavano per limosina, e la
mattina si levavano molto pertempo, e chi andava alla Nunziata, e chi
in Orto san Michele, e chi andava a cantar per le borgora, e spesse
volte deliberavano, che quando avessono fatta la mattinata, si
trovasseno al campanile di santo Lorenzo a desinare, dove era uno
oste che sempre dava mangiare e bere a' loro pari. Una mattina
essendovene due a tavola, e avendo desinato, dice l'uno, ragionando
del loro avere, o della loro povertà: lo accecai, forse dodici anni
è, ho guadagnato forse mille lire. Dice l'altro: Ohi tristo a me
sventurato, ch'egli è sì poco, che io accecai, che io non ho
guadagnato dugento lire! Dice il compagno: Oh quant'è che tu
accecasti? Dice costui: E' forse tre anni. Giugne uno terzo cieco,
che avea nome Lazzero da Corneto, e dice: Dio vi salvi, fratelli
miei. E quelli dicono: Qul se'tu? E quelli risponde: Sono al buio,
come voi, e segue: E che ragionate? E quelli contarono il tempo de'
loro guadagni. Disse Lazzaro: Io nacqui cieco, e ho
quarantasett'anni; s'io avessi i danari che io ho guadagnati, io
sarei il più ricco cieco di Maremma. Bene sta, dice il cieco di tre
anni, che io non trovo niuno che non abbia fatto meglio di me. E
facendo così tutti e tre insieme, dice questo cieco: Di grazia
lasciamo andare gli anni passati, vogliam noi fare una compagnia
tutti e tre, e ciò che noi guadagnamo, sia a comune; e quando
andremo fuori tutti tre, noi andremo insieme, pigliandocil'uno con
l'altro, se bene bisognerà chi ci meni; il piglieremo? Tutti
s'accordarono, e alla mensa s'impalmarono, e giurarono insieme. E
fatta questa loro compagnia alquanto in Firenze, uno che gli avea
uditi fermare questo loro traffico, trovandogli uno mercoledì alla
porta di santo Lorenzo, dà all'uno di loro un quattrino, e dice:
Togliete questo grosso tra tutti tre voi; e continuando, dove costoro
si fermavano insieme a certe feste, costui facea sempre limosina
d'uno quattrino, dicendo: Togliete questo grosso tra tutti e tre.
Dice colui che lo riceve alcuna volta: Gnaffe! E' c'è dato un
grosso, che a me par piccolo com'un quattrino. Dicono gli altri:
dov'è? O non ci cominciare già a voler ingannare. Questi rispose:
che inganno vi poss'io fare? Quello che mi fia dato, io metterò
nella tasca, e così fate voi. Disse Lazzaro: Fratelli, la lealtà è
bella cosa. E così sì rimase; e ciascuno ragunava, e deliberarono
tra loro ogni capo di otto dì mescolare il guadagno, e partire per
terzo. Avvenne, che ivi a tre dì che questo fu, era mezzo agosto; di
che si disposono, come è la loro usanza, d'andare alla festa della
Nostra Donna a Pisa; e movendosi ciascuno con un suo cane a mano
ammaestrato, come fanno con la scodella, si misono in cammino,
cantando la intemerata per ogni borgo; e giunsono a santa Gonda un
sabato, che era il dì di vedere la ragione, e partire la moneta: e a
uno oste, dove albergarono, chiesono una camera per tutti e tre loro,
per fare i fatti loro quella notte; e così l'oste la diede loro.
Entrati questi ciechi con li cani e co' guinzagli a mano, quando fu
il tempo d'andare a dormire nella detta camera, disse uno di loro che
avea nome Salvadore: A che ora vogliam noi fare la nostra faccenda?
Accordaronsi, quando l'oste e la sua famiglia fosse a dormire; e così
feciono. Venuta l'ora, dice il terzo cieco, che avea nome Grazia, ed
era quello che era stato men cieco: Ciascuno di noi segga, e nel
grembo noveri li denari, ch'egli ha, e poi faremo la ragione; e
colui, che n'avrà più, ristorerà colui che n'avrà meno. E così
furono d'accordo cominciando ciascuno a noverare. Quando ebbono
annoverato, dice Lazzero: lo trovo, secondo ho annoverato, lire tre,
soldi cinque, danari quattro. Dice Salvadore: Ed io ho annoverato
lire tre, danari due. Dice Grazia: Buono buono, io ho appunto
quaranzette soldi. Dicono gli altri: Oh che diavolo vuol dir questo?
Dice Grazia: Io non so. Come non sai? Che dei avere parecchi grossi
in ariento più di noi, e tu ce la cali a questo modo; è la
compagnia del lupo la tua. Tu hai nome Grazia, ma a noi se'tu
disgrazia. Dice costui: Io non so che disgrazia; quando colui dicea
che ci dava un grosso, a me parea egli uno quattrino, e che che si
fosse, come io vi dissi, io il mettea nella tasca, io non so; io
sarei leale come voi in ogni luogo, che mi fate già traditore e
ladro. Dice Salvadore: E tu se', poiché tu ci rubi il nostro. Tu
menti per la gola, dice Grazia. Anzi menti tu; anzi tu, e cominciansi
a pigliare e dare delle pugna; e' danari caggiono per lo spazzo.
Lazzero, sentendo cominciata la mischia, piglia la sua mazza, e dà
tra costoro per dividergli; e quando costoro sentono la mazza,
pigliano le loro, e cominciansi a batacchiare, e tutti li denari
erano caduti per lo spazzo. La battaglia cresce, gridando, e giucando
del bastone, li loro cani abbaiavano forte, e tale pigliava per lo
lembo co' denti or l'uno or l'altro, e' chiechi, menando le masse,
spesso davano a' cani, e quelli urlavano; e così parea questo uno
torniamento. L'oste, che dormia di sotto con la moglie, dice alla
donna: Abbiam noi demoni di sopra? Levasi l'uno e l'altro, e tolgono
il lume e vanno su, e dicono: Aprite qua. I ciechi, che erano
innebbriati su la battaglia, udivano come vedeano. Di che l'oste
chiuse l'uscio per forza, e aprendolo intrò dentro, e volendo
dividere i ciechi, ebbe d'una mazza nel viso; di che piglia uno di
loro, e gittalo in terra. Che vermocane è questo, che siate mort' a
ghiadi? E pigliando la massa sua, dando a tutti di punta, dicea:
Uscitemi di casa. La donna dell'oste accostandosi, e schiamazzando,
come le femmine fanno, uno cane la piglia pel lembo della gonnella; e
quanto ne prese, tanto ne tirò. Alla per fine perdendo costoro la
lena, ed essendosi molto bene mazzicati, e chi era caduto qua e chi
di là, dice Lazzaro: Oimè, oste, che io son morto! Dice l'oste: Dio
gli ti mandi, uscitemi testè di casa. E quelli tutti si dolgono, e
dicono: Oimè, oste, vedi come noi stiamo! Che aveano li visi lividi
e sanguinosi; e peggio che tutti li nostri denari ci sono caduti.
Allora l'oste dice: Che denari, che siate mort' a ghiandi, che
m'avete presso che cavato l'occhio? Dice Lazzero: Perdonaci, che noi
non vegghiamo, più che Dio si voglia. Io vi dico: Uscitemi di casa.
E quelli dicono: Ricoci li danari nostri, e faremo ciò che tu
vorrai. L'oste fa ricogliere i denari, i quali non assegnò mezzi, e
disse: Qui ha forse cinque lire, voi m'avete a dare delli scotti lira
dua, restassene lire tre: io voglio andare al vicario quassù, e
voglio che mi faccia ragione, che m'avete fedito, e alla donna mia
da' vostri cani è stata stracciata la gonnella.
Quando
costoro odono questo, tutti ad una voce dicono: Amico, per l'amor di
Dio, non ci voler disfare; togli da noi quello che possiamo,
anderemci con Dio. L'oste disse: poiché così è, io non so, se mi
perderò l'occhio, datemi tanto che io mi possa far medicare,
emendate la cotardita della donna mia, che pur l'altro dì mi costò
lire sette. Brievemente, li ciechi dierono all'albergatore li denari
caduti, che erano nove lire e soldi due, ed altrettanti che n'aveano
addosso; e così di notte pregarono l'oste che perdonasse loro, e
andaronsene così vergheggiati, chi sciancato, e chi col vino
enfiato, e chi col braccio guasto, per bella paura tanto oltre, che
furono sul contado di Pisa la mattina. Quando furono a una taverna
appiè di Marti, cominciarono a rimbrottare l'uno l'altro; e l'oste,
veggendoli sanguinosi e accanneggiati, si maragliava, dicendo: Chi
v'ha così conci? E quelli dicono: Non te ne caglia. E ciascuno
addomanda uno quartuccio di vino, più per lavarsi le busse, e le
percosse del viso, che per bere. E fatto questo, dice Grazia: Sapete
che vi dico? Io farea in fede i fatti vostri, come i miei, e non fu'
mai né ladro né traditore; voi m'avete dato di ciò un buon merito,
che io ne sono quasi disfatto in avere e in persona. Egli è meglio
corta follia che lunga, e farò come colui che dice: Uno, due e tre,
io mi scompagno da te; e con voi non ho più a fare nulla, e l'oste
ne sia testimone; e vassi con Dio. Dicono questi altri: Tu hai nome
Grazia, ma tale la dia Dio a te, chente tu l'hai data a noi, e
andossene solo a Pisa; e Lazzero e Salvadore se n'andarono anche alla
festa con questa loro tempesta.
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