a
cura di Francesco Fiumalbi
INTRODUZIONE
Giosué Carducci non dimenticò mai
quell'anno trascorso ad insegnare al Ginnasio di San Miniato,
dall'ottobre 1856 all'agosto 1857. Furono mesi difficili: la
frustrazione per un lavoro privo di stimoli e scarsamente
ricompensato, la lontananza dagli amici e dall'ambiente culturale
cittadino.
I
sanminiatesi, dal canto loro, si trovarono davanti ad un giovane
esuberante, dal carattere irrequieto e mai pago, certamente sopra le
righe e fuori da tutti gli schemi a cui erano abituati. Fu una
convivenza “complicata” e non mancarono momenti di tensione,
culminati nel cosiddetto “processo” di San Miniato, una vera e
propria indagine subita dal giovane Carducci. Ma di questo ne
parleremo in un'altra occasione. In realtà i sanminiatesi, a
distanza di circa un cinquantennio, cercarono di porre rimedio
commemorando solennemente l'illustre Premio Nobel [si veda il post
CARDUCCI
COMMEMORATO A SAN MINIATO NEL 1907 ↗].
In
questa pagina è proposta una selezione di brani tratti dalle Memorie
redatte da Giuseppe Chiarini, grandissimo amico del Carducci ed una
delle persone a lui più vicine. Nel testo, pubblicato in prima
edizione nel 1903, ritroviamo alcuni episodi sanminiatesi della vita
del giovane Carducci, ma soprattutto il suo stato d'animo, le sue
aspirazioni e le sue frustrazioni.
busto
in bronzo, San
Miniato, Giardini Bucalossi, 1907
Foto
di Francesco Fiumalbi
GIUSEPPE
CHIARINI E GIOSUE' CARDUCCI
Giuseppe
Chiarini [Arezzo, 17 agosto 1833 – Roma, 4 agosto 1908],
trasferitosi a Firenze nel 1850, studiò Filosofia presso il Collegio
di San Giovannino dove ebbe modo di conoscere Giosuè Carducci
[Pietrasanta,
27 luglio 1835 – Bologna, 16 febbraio 1907].
Assieme
al Carducci, a Ottaviano Targioni Tozzetti e a Giuseppe Torquato
Galgani, fondò il sodalizio letterario denominato Amici
Pedanti,
in aperta polemica contro i “romantici” e per un recupero
“purista” della tradizione classica. Non va tralasciato il
riflesso di carattere politico, con la contrapposizione fra tendenze
culturali esterofile e desiderio di italianità. D'altra parte sono
gli anni immediatamente precedenti all'Unità d'Italia (1861) e il
sentimento patriottico, declinato in chiave letteraria nel recupero
della tradizione classicista italiana, era particolarmente sentita
dai quattro.
Quando a Carducci fu assegnata la
cattedra a San Miniato, Chiarini non mancò di far visita all'amico e
di condividerne passioni, ambizioni e frustrazioni. Successivamente
ebbe incarichi presso il Ministero dell'Istruzione (prima a Torino e
poi a Firenze), prima di essere nominato preside al Liceo Niccolini
di Livorno (1867) dove rimase per 17 anni.
Democratico,
anticlericale e repubblicano, si affiliò alla massoneria presso la
loggia Propaganda
Massonica di
Roma, dove si trasferì nel 1884. Ebbe una vasta produzione
letteraria, sia come curatore che come autore. Non mancò nemmeno di
mettersi in “cortese polemica” con l'amico Carducci, di cui
scrisse le Memorie
date
alle stampe nel 1903 (quando era ancora in vita).
(1835-1907)
raccolte da un amico,
G. Barbera Editore, Firenze, 1907 (1a ed. 1903),
frontespizio.
LE
MEMORIE DI GIOSUE' CARDUCCI A SAN MINIATO
Nella selezione di brani proposti di
seguito, ritroviamo il ventunenne Giosuè Carducci a partire dagli
espedienti utilizzati per ottenere la cattedra di Rettorica al
Ginnasio di San Miniato: le varie raccomandazioni, perfino quella
dell'allora Proposto della Cattedrale Can. Giuseppe Conti. Sappiamo
poi che l'anello di congiunzione fra il Canonico Conti e il Municipio
fu il prof. Augusto Conti, filosofo e politico sanminiatese d'area
cattolica. Tale circostanza è assai buffa, se pensiamo che Carducci
è considerato uno dei massimi esponenti dell'ambiente anticlericale
del tempo.
Carducci
si scontrò subito con il problema della “distanza”, ovvero la
difficoltà nel mantenere vivi i contatti con gli amici, specialmente
quelli “pedanti” e con i circoli culturali cittadini. Senza
considerare poi le ristrettezze economiche dettate dal magro
stipendio, tanto che Carducci descrisse la sua vita in quei primi
mesi trista
e goffa assai.
Piano piano, tuttavia, Carducci legò
con i suoi colleghi e coinquilini. Una convivenza che si arricchì
anche della presenza dei giovani rampolli della San Miniato “bene”
del tempo, certamente incuriositi e affascinati dai tre maestri, così
vivaci e sopra le righe. E poi le provocazioni, su tutte la
“bergamascata” in Duomo durante una funzione religiosa. Tutto ciò
valse l'avvio di una vera e propria indagine (Carducci parlò di
“processo”) che tuttavia finì in una bolla di sapone.
Con
l'arrivo della primavera, gli amici da Firenze andavano spesso a
trovare il Carducci a San Miniato, il quale, nel frattempo, si era
impegnato nella stesura delle Rime
(Tip.
Ristori, San Miniato, 1857) con le quali contava di poter saldare
alcuni debiti. Il libro non sortì le vendite sperate e il clima era
ormai diventato troppo pensante per il giovane Carducci all'ombra
della Rocca di Federico II. E così, alla fine d'agosto abbandonò
San Miniato […]
deciso
di non ritornarci.
San Miniato, via Giosuè Carducci
Foto di Francesco Fiumalbi
Di
questo e di altro, possiamo leggere nella selezione di brani,
trascritti di seguito, del libro G. Chiarini, Memorie
della vita di Giosuè Carducci (1835-1907) raccolte da un amico,
G. Barbera Editore, Firenze, 1903:
[…]
[054]
Per la nomina del
Carducci al Ginnasio
di San Miniato si
adoperarono anche il Rettore della Scuola Normale e il Provveditore
della Università, i quali pur non potevano ignorare il carattere
forte e indipendente del giovane; ma anch’essi erano vinti dalle
prove d’ingegno e di dottrina ch’egli avea date, le quali
naturalmente dovea parer loro che tornassero ad onore della Scuola e
della Università. Per questa ragione anche i professori gli volevan
[055]
bene e lo portavano, come si dice, in palma di mano, perdonando alla
singolarità dell’ingegno le sue capestrerie.
Uno
di essi, il professore di pedagogia e direttore della Scuola Giuseppe
Pecchioli, scrisse nell’agosto da Livorno al
proposto della cattedrale di San Miniato, da cui principalmente
dipendeva la nomina degli insegnanti del Ginnasio, raccomandando come
ottimo il Carducci,
insieme a due altri, l’un dei quali buono e l’altro mediocre, e
dicendolo: «Attissimo alla cattedra di letteratura latina e greca,
benché il suo forte, a vero dire, sia piuttosto la letteratura
italiana.» Proseguiva la lettera dicendo: « Sulla moralità non
debbo far gradazioni, perché, in tutto il tirocinio universitario e
normalistico, la loro condotta è stata esemplare, come si conveniva
a giovani iniziati ad una carriera delle più delicate e importanti.»
[1]
Quei
professori non erano aquile, ma avevano abbastanza comprendonio da
capire che il Carducci non era un allievo come gli altri; e forse
speravano, nella loro ingenuità ed ignoranza del mondo in mezzo al
quale vivevano, che quei giovani usciti dalla rigida disciplina
scolastica ed entrati nella vita, avrebbero, per il bisogno di
assicurarsi il tozzo, smorzato a poco a poco i loro ardori giovanili,
e finito col diventare uomini seri e posati. Povera [056]
gente! come ci vedevano poco! Il Carducci e il Cristiani (nominato
con lui al Ginnasio di San Miniato) prima che finisse l’anno
doverono fuggirne; e l’uno di lì a poco divenne il poeta della
rivoluzione, mentre l’altro era andato a combattere le battaglie
per la liberazione d’Italia.
Ma
non anticipiamo.
[1]
Vedi lo scritto di Guido Mazzoni, Giosue Carducci e Gaspero Barbèra,
nel citato fascicolo della Rivista d’Italia, pag. 59.
[...]
[077]
Il giorno dopo il
mio arrivo, il Dottore [il
padre di Carducci, n.d.r.] mi
menò a fare una passeggiata per la campagna, facendomi da Cicerone.
Parlammo di molte cose, e naturalmente anche di Giosue, ch’era
rimasto a casa, della sua malattia, del suo ingegno, de’ suoi
studi, della sua prossima nomina a maestro nel Ginnasio
di San Miniato al Tedesco.
Si capiva che il padre conosceva il valore del figliuolo, che gli
voleva bene, e in cuor suo n’era anche orgoglioso; ma non lo dava
affatto a divedere; parlava di lui come d’uno che quasi non gli
appartenesse, e manifestò anche l’opinione che avrebbe avuto corta
vita. Se era un presentimento, fortunatamente fu falso.
[...]
[078]
Ai
primi di novembre tornammo a Firenze per dare l’ultima mano e
l’ultima spinta alla pubblicazione della Giunta alla derrata; ma ci
trovammo dinanzi un ostacolo impensato, che durammo molta fatica a
vincere: le sùbite paure del Targioni, che nientemeno voleva
sopprimere il libro, per risparmiare, diceva, a sé ed a noi un
processo e la prigione. Finalmente, come Dio volle, il libro uscì;
ma il Carducci non poté assistere alla pubblicazione e al chiasso
che doveva suscitare, perché, venutagli appunto allora la nomina di
maestro a San
Miniato,
dové subito recarvisi a cominciare [079]
la scuola. Gli mandammo là il libro, ed egli rispondendomi dolevasi
che non gli avessi detto niente dell’accoglienza fattagli dai
giornali. «E che tacciono questi canterini dalle golette fangose?
Che il libro fu forse l’offa tremenda? Oh, oh, oh, direbbe Macbeth.
Scrivimi subito, per Iddio Apollo. Non imitar me tristo annoiato
infelice.» Mandava tre paoli per il libro, scusandosi di non potere
di più perchè diceva: «Ho
solamente 77 lire il mese.»
Era
questo il suo stipendio di insegnante, che ridotto dalle lire codine
alle italiane, fa 64,68; cioè poco più di due lire al giorno, la
paga di un onesto facchino. In quei primi giorni si
trovò male a San Miniato:
«Non ho
voglia, mi scriveva, di parlarti della mia vita, ch’è trista e
goffa assai.»
Ma non era il misero stipendio che lo angustiava: era
la novità del luogo,
l’aver lasciato Firenze, le biblioteche, i banchetti dei librai,
gli amici. Tanto è vero che qualche giorno dopo mostravasi più
sereno, e scusandosi del non aver risposto ad una lettera del
Targioni, mi scriveva: «Gli dirai che mi perdoni: ma in quel tempo
che mi scrisse era impossibile mi distornassi dalla mia scuola.
Insegno greco: evviva: FACCIO SPIEGARE LUCREZIO AI MIEI RAGAZZI:
evviva me.»
Io
non gli avevo scritto niente dell’accoglienza fatta al nostro libro
dai giornali, perché questi non ne avevano ancora parlato. Ma non
tardarono molto; e le accoglienze, come era da aspettarsi, furono
[080]
tutt’altro
che oneste e liete; ci fu però una notevole differenza fra queste e
quelle fatte alla Diceria.
[...]
[082]
Della sua
vita a San Miniato
il Carducci ha dato da sé uno specimen tale, che non permette ad un
[083]
suo
biografo, chiunque ei sia, di dirne altro. Chi non ha letto in
Confessioni e battaglie le Risorse di San Miniato al Tedesco? Se
qualcuno non le ricordasse, vada e le rilegga. Io qui mi limiterò a
rammentare da quello scritto qualche fatto più notevole, usando,
quanto mi sarà possibile, le parole stesse dell’autore.
Insieme
col Carducci andarono al Ginnasio di San Miniato gli altri due
normalisti raccomandati dal professore Pecchioli al
proposto Conti,
Pietro Luperini e Ferdinando Cristiani. Pietro, il più anziano dei
tre e il più positivo, dice il Carducci, insegnava umanità (terza
ginnasiale); Ferdinando grammatica (seconda e terza); il Carducci
retorica (quarta e quinta); cioè faceva «tradurre e spiegare a due
ragazzi più Virgilio e Orazio, più Tacito e Dante che potessero; e
buttava fuor di finestra gl’Inni sacri del Manzoni.»
[1] ([1] Carducci, Opere, vol. IV, pag. 19.)
Appena
arrivati, i tre maestri «si
accontarono con una brigata di giovinetti, piccoli possidenti e
dottori novelli, che passavano tutte le sante giornate a mangiare e
bere, a giocare, amare, dir male del prossimo e del governo.»
[2] ([2] Ivi, pag. 20) Questi giovinetti andavano spesso a trovare i
maestri, che abitavano, tutti insieme e tutta loro, una casetta nuova
subito fuori Porta fiorentina, appigionata ad essi da un [084]
oste,
detto Afrodisio, il quale provvedeva ai maestri anche il mangiare. La
casa dei maestri,
come il vicinato la chiamava, cominciò presto ad aver «mala voce
all’intorno per i molti strepiti che vi si udivano di notte e di
giorno, ogni qualvolta l’allegra compagnia la invadesse. [1] ([1]
Carducci, Opere, vol. IV, pag. 20, 21.)»
«Qualche
volta, scrive il Carducci, andavamo anche alla méssa, in domo; e una
di quelle mésse m’è ancora in memoria per la lieta illustrazione
di certi quadri o affreschi, che il capo più ameno della brigata
recitava, menandomi in giro per le navate, in
istil bergamasco,
contraffacendo il parlare d’una venditrice di castagne compatriotta
del poeta Bernardino Zendrini, e con un sistema critico di perpetua
comparazione
tra la figura di san Giuseppe e quella del sotto‒prefetto, che,
tutto in nero, ascoltava il divino ufficio nella prima panca.
Hinc
mihi prima mali labes. Da cotesta bergamascata e dalle mie
smargiasserie di antimanzonianismo mi si levarono intorno i fumacchi,
e ben presto mi avvolsero e tinsero tutto, d’una leggenda d’empietà
e di feroce misocristismo. Assai prima che l’imperatrice Eugenia
avesse a inorridire su i grassi venerdì santi del principe Girolamo
Napoleone e dell’accademico Sainte‒Beuve, corse per Valdarno una
spaventosa voce, che io
il venerdì santo del ’57 fossi sceso da San Miniato
alla [084]
taverna del piano, e all’oste sbigottito avessi fieramente
intimato: Portami una costola di quel p.... di Gesù Cristo. È vero
che in quell’anno io andava pensando o andavo dicendo di pensare un
inno a Gesù con a motto un verso e mezzo di Dante, Io non so chi tu
sie nè per che modo Venuto sé quaggiù; ma è anche vero che quel
venerdì santo io era a Firenze, e quei mesi studiavo
appassionatamente Iacopone da Todi e annunciavo a tutti la sua gran
superiorità su ’l Manzoni e lo salutavo Pindaro cristiano, e
composi una lauda al Corpo del Signore. Il che tutto non impedì che
non mi fosse avviato un processo; e un processo di tal materia a
quegli anni in Toscana poteva menar lontani. Per fortuna che del ’57
anche c’era in Toscana, pur all’ombra della cappamagna di santo
Stefano, del buon senso parecchio e dell’onestà.» [1] ([1]
Carducci, Opere, vol. cit. pag. 21, 22.)
***
Il
Carducci parla poi delle visite
che nelle belle domeniche d’aprile, di maggio e di giugno gli
andavano a fare da Firenze
il Nencioni, il Gargani e il Chiarini, del chiasso e delle bizzarrie
che facevano, lui specialmente e il Gargani; d’un suo amoretto, che
non durò, dice lui, cinque giorni; e finalmente della proposta di
stampare le sue poesie, [086]
fattagli un bel giorno dal Cristiani, per potere col guadagno ch’ei
ne sperava pagare i loro debiti all’oste e al caffettiere.
«Le
poesie, scrive il Carducci, massime allora, io le faceva proprio per
me: per me era de’ rarissimi piaceri della mia gioventù gittare a
pezzi e brani in furia il mio pensiero o il sentimento nella materia
della lingua e nei canali del verso, formarlo in abozzo, e poi
prendermelo su di quando in quando, e darvi della lima o della stecca
dentro e addosso rabbiosamente. Qualche volta andava tutto in
bricioli; tanto meglio. Qualche volta resisteva; e io vi tornavo
intorno a sbalzi, come un orsacchio rabbonito, e mi v’indugiavo
sopra brontolando, e non mi risolvevo a finire. Finire era per me
cessazione di godimento, e, come avevo pur bisogno di godere un poco
anch’io, così non finivo mai nulla.» [1] ([1] Carducci, Opere,
vol. cit., pag. 35.)
La
risposta del Carducci al Cristiani aspettante, e che pur tacendo
parlava, fu un bel no; e il Cristiani se ne andò, scrollando la
testa. Ma l’oste e il caffettiere tempestavano coi loro conti; il
tipografo, messo su dal Cristiani, offeriva un’edizione economica e
trattamento da amico; e così andò a finire che il Carducci cedè, e
la stampa delle sue poesie fu deliberata.
Se
gli amici nelle belle domeniche d’aprile, di
maggio e di giugno andavano a San Miniato
a [087]
trovare
il Carducci, anch’egli, quando avea due o tre giorni di vacanza di
seguito, andava a Firenze a trovare gli amici. Il 19 febbraio mi
scriveva da Santa Maria a Monte, dove fino dal giovedì grasso era
andato a cercare della caccia da portare a Firenze per fare un
desinaretto cogli amici: «Sabato il giorno sarò a Firenze con
quattro grossi e belli uccelli di palude, dei quali tre moriglioni e
un’arzavola da farne un umido stupendo. Voi preparate, se si deve
fare il pranzo domenica.» Mentre scriveva era di così cattivo
umore, che neppure l’idea del pranzo bastava a rasserenarlo. «La
inerzia mia, proseguiva, è grande: la noia della vita è giunta a
tal grado che io non posso sopportare più me stesso: io non faccio
più nulla: non farò più nulla: tutto è vanità, anche la
letteratura e la gloria. Perché perdere il mio tempo e la mia salute
a far commenti e poesie? No, non faccio più nulla e non farò più
nulla: e faccio bene.» Era uno di quei momenti di scontentezza da
cui il Carducci non di rado era preso, ma che fortunatamente
passavano presto: e contribuiva sopra tutto a farli passare lo studio
e il lavoro. Venne, si fece il pranzo, che fu lietissimo, e passammo
insieme lietamente gli ultimi giorni di carnevale. Tornato a San
Miniato, scrisse nel marzo l’ode alla beata Diana Giuntini, e
attendeva a correggere e finire le altre poesie che voleva stampare.
Il
primo d’aprile, mandandomi il manifesto per la pubblicazione del
volumetto mi scriveva: «Jacta [088]
est alea! Il manifesto per le mie Rime toscane è stampato: né posso
più ritrarmi. Pensa a persuadere il Targioni che la cosa non è
fatta male, avuto riguardo a' debiti grandi ch’io mi ritrovo. Per
l’amor di Dio, non mi fate rimprovero ora perché altramente troppo
pensiero me ne piglierebbe ..... Il libro sarà composto di una
prefazione in prosa lunga assai, di una prefazione in versi: poi, 1°
libro, sonetti: 2° libro, odi: 3° libro, ballate: 4° libro, canti.
‒ Due altri sonetti ho fatto, e finito secondo il costume pagano
l’ode alla beata Diana, che è la più di gusto antico fra le mie
odi oraziane. Il tutto sentirete a Firenze, che ora non ho voglia di
scrivere più oltre.»
***
Nel
maggio lavorò moltissimo a
compiere e correggere le poesie da mettere nel volumetto, del quale
aveva già cominciato la stampa, e a comporne delle nuove.
Prima del 20 aveva finito l’ode Agli Italiani, e aveva scritto, fra
altri versi, il principio del Canto alle Muse, che, mi scriveva, «
per l’anima d’Omero, sono i migliori versi ch’io abbia mai
fatto.» E anche a me quando poi me li mandò manoscritti, parvero
bellissimi, e glie ne scrissi lodandoli entusiasticamente. Ho voluto
ora rileggere il lungo frammento intitolato Omero, ch’egli accolse
poi nelle edizioni successive delle poesie; e (perché [089]
non
dirlo?) ho trovato giustificabile e giustificato il mio giudizio
entusiastico di quarantacinque anni fa. Quei versi mi paiono ancora
belli quanto i più belli del Foscolo; ma si capisce che, se non ci
fossero stati prima il Foscolo, il Monti e il Leopardi, il Carducci
forse non li avrebbe scritti, certo non li avrebbe scritti a quel
modo. Il 26 mi mandava le prove di stampa dei sonetti, che allora
erano 28, e furono ridotti a 25; il 6 giugno avea finito l’ode A
Febo Apolline, cominciata il 25 novembre 1851 a Firenze, e ripresa
soltanto a San Miniato nel dicembre 1856.
Nel
luglio ebbe per un momento l’idea di prender parte al concorso
allora aperto per la cattedra di eloquenza italiana nell’Università
di Torino. «Se vi fossero nomi famosi, mi scriveva, non avrebbero
aperto il concorso: io avrei caro di sapere se vi paresse audacia il
presentarmi anch’io.» Io non so che cosa gli rispondessi; ma
probabilmente l’idea gli passò via subito ed egli non ne fece
altro.
Mentre
attendeva alla stampa delle poesie, che fu compiuta in poco più di
due mesi, dal maggio al luglio (il
volume fu pubblicato il 23),
era agitato da sentimenti diversissimi, ora di eccessiva depressione,
ora di esaltazione non meno eccessiva. L’8 di giugno mi scriveva:
«Poco
importami vedere il mio nome stampato in cima a una ventina di
componimenti, che pochissimi intenderanno, due o tre leggeranno
sbadigliando senza intendere, tutti [090]
disprezzeranno, e più quelli che meno li avranno intesi!
Ahi stoltezza stoltissima tutto, e lo studiare e il credere alla fama
e il desiderarla, e più grande stoltezza stoltissima il credere e
pretendere di pensare bene soli fra milioni che ridono o
compatiscono, e dirlo in faccia a cotesti milioni, e pigliarci il
maledetto sdegno. Ragazzaccio impertinente, avrebbon ragione di dirmi
gl’italiani, e chi se’ tu che col latte ancor su le labbra
pretendi sedere a scranna e insultare noi venticinque milioni? Degna
tua punizione il sorriso e lo scappellotto. Sta bene! E io, siccome
quegli che fo un gran gridare con picciolette forze, a mo’ della
rana e della cicala, dovrei pigliarmi lo scappellotto, e buci.
Presunzione da ragazzi: per dire a un secolo intero, tu fai male,
altre faccie voglionsi che la mia, altri studi, per Dio! Or sia così,
e gl’italiani mi deridano e mi piglino a scappellotti; bene sta: né
io fiaterò. Orgoglio! come se gl’italiani volessero curarsi del
librettuccio mio, il quale dalle mani di pochi ragazzi e giovanetti
passerà, come dicea fra Gargani, a formare aquiloni a’ fanciulli,
e anime a dipanar gomitoli alle signorine.»
***
Con
una lettera successiva, annunziandomi che la stampa del libretto era
finita, e giurando e spergiurando che, salvo il Mamiani, il Gussalli,
il [091]
Ferrucci,
il Mordani, il Tommaseo e il Thouar (solo tra' fiorentini), nessun
altro dovea averlo in regalo, diceva tra le altre cose: «belve di
trecentomila capi, Giosue Carducci non vi presenterà il libretto
suo, perchè gli diciate che è un giovane di buone speranze, se si
converte alla buona filosofia. No, bestioni, io sputerò in faccia
alla vostra filosofia: e vo' credere nelle Muse e in Apollo sempre: e
quando sarò per morire mi farò leggere Omero: e non sia vero che
intorno a me siano preti. Mi farò bruciare sopra un rogo di legna di
pino, a cui sottostaranno tutti i miei libri. Sì, sì, viva Apollo
Febo lungioprante, Patareo, Delio, Cinzie, e moia chi dice di no... .
Per Iddio Apollo, di’ch’io credo assolutamente nella religione
d’Omero, e che io non iscrivo di mitologia per imitazione o perchè
sia uno scolaretto, ma perchè credo che vera poesia, hai inteso,
vera poesia non è che là.»
All’ultim’ora
il Carducci dimise il pensiero delle due prefazioni, una in prosa e
l’altra in versi, della divisione delle poesie in quattro libri e
d’una piccola introduzione esplicativa dei saggi del Canto alle
Muse, che doveva essere indirizzata al maestro suo Michele Ferrucci;
e il libretto uscì composto soltanto di venticinque sonetti, di
dodici Canti e dei detti Saggi di un Canto alle Muse. Tra i Canti
erano comprese due ballate di stile antico e la Lauda spirituale per
la processione del Corpus Domini. Una delle ballate, La bellezza
ideale, era [092]
dedicata
al Padre Barsottini, l’altra, Ultimo inganno, a Francesco Donati
delle Scuole Pie, la Lauda spirituale a Giulio Cavaciocchi; alcuni
sonetti e la maggior parte dei Canti erano indirizzati o dedicati ad
amici (Chiarini, Tribolati, Nencioni, Targioni, Buonamici, Pazzi,
Cristiani, Gargani, Panicucci); i saggi del Canto alle Muse erano
dedicati a Michele Ferrucci. Era premessa alle poesie questa
dedicatoria: «A voi | Giacomo Leopardi e Pietro Giordani | viventi |
queste mie rime | come ad autori e maestri | offerto avrei
vergognando | le quali parmi ora superbo | consecrare | alla memoria
di voi grandissimi | io piccolissimo. | »
Inutile
dire che lo scopo del libro, quello cioè di pagare i debiti, non fu
raggiunto.
«I debiti, scrive il Carducci, anzi che estinguere, dilagarono,»
tanto che dovettero intervenire i babbi e le mamme a pagarli; «e le
Rime rimasero esposte ai compatimenti di Francesco Silvio Orlandini,
ai disprezzi di Paolo Emiliani Giudici, agl'insulti di Pietro
Fanfani. » [1] ([1] Carducci, Opere, vol. IV, pag. 86, 87).
Alla
fine d’agosto il Carducci abbandonò San Miniato,
per andare a passare alcuni giorni in famiglia a Santa Maria a Monte,
e di lì si recò nella prima metà di settembre a Firenze.
[…]
[093]
Lasciando
San Miniato, il Carducci era deciso di non tornarvi,
e perciò aveva concorso ad una cattedra nel Ginnasio municipale
d’Arezzo. Vinse il [094]
concorso,
e fu nominato; ma le
accuse d’empietà e di liberalismo, che dalle autorità politiche
di San Miniato
erano giunte al Governo granducale contro il giovane insegnante,
furono cagione che la nomina di lui non fosse approvata. Era allora
impiegato al Ministero della istruzione Pietro Fanfani, furibondo
contro il Carducci e gli amici pedanti, che non gli avevano
risparmiate e non gli risparmiavano critiche e canzonature.
Il
Fanfani era stato fino allora in Toscana una specie di dittatore
nelle cose della lingua; e gli amici pedanti, mettendo in mostra gli
errori che, appunto nel fatto della lingua, si trovavano nei suoi
libri (la maggior parte dei quali commenti e postille ad opere
altrui), erano stati cagione che l’autorità e la fama di lui ne
erano rimaste un po' scosse.
[…]
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