Racconto
di Giancarlo Pertici
Da
capo o da piedi?
Domanda
questa che oggi risulterebbe priva di qualsiasi significato e che non
troverebbe risposta proprio perché susciterebbe, non tanto una
risposta, quanto un altra domanda. Per rispondere alla quale,
bisognerebbe partire da lontano, almeno nel tempo.
Da
bambino particolarmente fortunato, quale ero, forse una volta che
nonno Nuti non era a casa ma in uno dei suoi soliti viaggi a
Firenzuola, la prima volta che mi trovai a rispondere a tale domanda,
ero con zia Pia che, sorridente, mi infilava il pigiama. Io intanto,
inginocchiato, aspettavo il momento della preghiera prima di entrare
a letto. In quella cameretta, l'unica, casualmente a solo, di casa
Brucci, affacciata tramite una porta a vetri su 'Gargozzi', in quegli
anni 50 ci entrava appena una rete da una piazza e un canterale ai
piedi, a fare da camera a l'ultima ragazza da marito rimasta in casa.
Le altre già tutte sistemate anche se con esiti diversi. Ma quella
notte, la prima forse, per dormire mi toccava di farlo insieme a zia
Pia. Tempi quelli nei quali era raro, parlare o anche solo pensare
alla stanza, dove si era soliti passare la notte, come a 'camera
propria'. Pensieri e concetti da signori e non da figli del popolo
abituati da sempre a 'condividere' tutto, anche il letto.
Da
quando in casa Brucci anche Umbertina, con figlie al seguito, era
rientrata da Livorno dopo la fine del matrimonio, gli spazi si erano
nuovamente ristretti. I due giovanotti di casa, Magnino e Barnaghino,
a dormire nel salottino buio, in due reti da una piazza. Nell'unica
camera con vista e luce sulla valle un lettino bastardo per tre:
Berta e figlie. Berta da capo e le figlie da piedi. Nella camera buia
di mezzo e di passaggio il letto matrimoniale con tanto di bandoni di
Livia e Musolino, i vecchi di casa.
In
casa Vannini noi avevamo una camera tutta per noi. Ma dopo la nascita
di mia sorella ben presto mancò il posto per un altro letto. Per me
è l'occasione per condividere con nonno Nuti, oltre ai momenti
nell'orto o in giro per San Miniato o nella camminata pomeridiana
nelle campagne, anche la notte. Il nostro è un letto da una piazza e
mezzo, testata di bandoni e materasso di vegetale. Letto destinato a
cambiare camera adeguandosi ai bisogni anche degli altri, fino alla
mia entrata in seminario per il primo letto tutto mio, da una piazza.
Per quello è nonna Livia che mi fa fare su misura un materasso di
lana: dote minima per accedere al seminario. Lana tutta di recupero
da coltroni e materassi di famiglia. Sono anni quelli nei quali non
si butta via nulla. Quando muore anche il più misero dei miseri in
quegli anni, anche se sembra non possedere nulla, ha sempre qualcosa
di prezioso da lasciare, da conservare o riutilizzare: materasso,
cuscini e coltrone. Fu così che qualche coltrone vecchio diventa il
mio materasso da una piazza per il seminario, cuscino compreso.
Mentre
al mare, in colonia, alla Stella Maris a Calabrone, per me come per
tutti i bambini del dopo guerra, è la prima vera esperienza di un
letto tutto mio, con tanto di 'copertina' a righe di cotone, tutte
uguali, in una camerata di oltre 20 lettini tutti in fila con tanto
di comodino in una camera luminosa, a più finestre: un lusso, come
sembrano sottolineare gli occhi meravigliati di tutti quei bambini
del popolo.
Quando
invece è il momento delle vacanze al Leccio o agli Alberi, si pone
la stessa identica domanda. Con zia Gina e zia Margherita al Leccio
dormo da capo il cuscino appoggiato sotto quel grande finestrone che
si affaccia proprio dell'Egola. A gli Alberi, quando arriva anche zio
Alberto, mi tocca a dormire da piedi tra zio a zia, ma solo al
ritorno da veglia, mai prima delle 11.
Poi,
all'uscita di seminario con materasso al seguito, seminuovo, visti i
suoi cinque anni di vita, dopo un brevissimo periodo in una di quelle
stanze buie di casa Vannini, trasmigro fuori casa, nel salottino buio
di nonna Livia, ora che si è trasferita accanto a San Rocco e che
Umbertina e figlie hanno messo su casa per conto proprio.
Ma
il primo ricordo, del primissimo letto, resta quello della cameretta
buia di soffitta, contiguo alla culla, appena dopo la nascita di
Maurizia, mia sorella. Ricordo di un materasso, forse l'unico, di
sfoglie, e di quella buca al centro che quasi mi calamita e dalla
quale cerco invano di sfuggire. È forse anche per questo che quasi
ogni notte 'evado' per calarmi dalle sbarre, dentro quella culla,
finendo addormentato tra le braccia di mia sorella. Così almeno nei
ricordi di mamma, che alla mattina ci ritrovava abbracciati e
pisciosi.
Poi
arriva il momento, codificato anche negli usi, di 'rifare' il
materasso. Non tutti gli anni. Ma a turno in casa ogni anno c'è
almeno un materasso da rifare, senza contare quelli che arrivano in
eredità e consigliano qualche rifacimento eccezionale. Sveglia di
prima mattina, sgomberando una stanza dove lavorare, anche se spesso
il lavoro si fa in terrazza, in quella terrazza in dotazione alle
nostre due stanze del mezzanino in casa Vannini. Se il materasso è
di lana, quasi sempre è così, il lavoro è fatto a mano, almeno in
parte, teso ad allargare ogni singolo fiocco. E l'immagine che mi è
rimasta di quei momenti, almeno la prima, è legata all'arrivo già
la sera avanti di Alfredino, il figliolo di Rosmunda, a portare la
cardatrice, una sorta di pendolo con dei chiodi a fungere da pettine
per allargare la lana divenuta compatta.
Poi
la mattina presto, dopo aver aperto il sacco e dopo aver svuotato il
contenuto sopra un lenzuolo, quella massa compatta prende la via
della terrazza e, grazie al vento, disperde nell'aria e nell'orto
sottostante fibre esauste e granuli di polvere compatta, finché non
ne rimangono che fiocchi di lana che pare quasi infeltrita. Mentre
mamma, quale prima operazione, lava a mano il sacco e lo tende al
filo a prendere il primo sole che arriva da Pian delle Fornaci e
dintorni, Alfredino principia a lavorare la lana alla cardatrice, per
una prima passata, mentre compaiono mani generose ad allargare un
fiocco alla volta, per un lavoro che pare non finire mai; le dita,
quasi tutte femminili, col passare delle ore, che si indolenziscono
così tanto da reclamare requie. È qui che entra in ballo il
soccorso del vicino, di tanti vicini, che a turno prendono posto a
sedere su quelle seggioline tronche sistemate, alcune in cucina,
altre in terrazza, talune anche nel giardino sottostante di casa
Vannini. Lana recuperata nell'aspetto e in tutta la sua sofficità
che, un po' alla volta, ritorna in camera sopra un telo pulito
adagiato sul letto in attesa che il sacco sia asciutto.
Poi
è la volta di Alfredino, ma molto più spesso è nonna Livia che
reclama la maggiore esperienza, visti i letti disseminati in casa
Brucci e i figli da custodire. Livia che accuratamente inizia a
riempire il sacco, cercando la maggiore uniformità possibile, dai
lati al centro, un po' più colmo nel mezzo sempre con l'uso
esclusivo delle mani. Ogni tanto una scrollatina al tutto sbattendolo
sulla rete. Un'occhiata a traguardare gli angoli e gli spigoli, con
una palpeggiatina su tutta la superficie prima di decidersi
all'operazione finale: la chiusura del sacco. Poi le fettuccine a
orlare i lati, quelli sopra e quelli sotto, e un ago da lana, dai 15
cm in sù, per trapuntare il sacco, ad intervalli regolari per
renderlo omogeneo di spessore. Operazione che si conclude sempre nel
pomeriggio. Aria di festa ma con quel pizzico di tensione nell'aria
che la massaia di casa dispensa con le sue occhiate cariche di
preoccupazione, mentre calcola mentalmente il momento finale, per
poter rifare il letto per la notte, per il capoccio di casa,
alternate a sorrisi elargiti ad ogni arrivo di chi si accomoda da
qualche parte ad allargare lana.
Una
pausa pranzo frugale. Per quei pochi che rimangono, ma sono veramente
pochi, un piatto di pasta che la 'signora' Corinna prepara ogni volta
sulla 'scepre dell'orto'... carica del sentire di salvia e ramerino.
Mentre a camera rifatta, ripristinato l'ordine in cucina con tanto di
tavolo e sedie, sul finire degli anni 50, arriva il gelato
confezionato Algida da Pietrone; pinguini per tutti, sopratutto per
noi bambini.
Nel
frattempo Alfredino, caricata la cardatrice sull'ape, nel salutare
noi tutti di casa, e dando un'ultima occhiata al materasso tornato a
nuova vita, in segno di augurio, ma sottovoce, quasi in tono
confidenziale... quasi "ché altri non sentano"...
accompagnandola, quella occhiata, con quella che può sembrare una
carezza, a rasare quasi tutta la superficie del materasso a nuovo,
dopo un sospiro e dopo aver ripreso fiato... fa "è come tutte
le cose nuove, ma nel giro di una settimana ci si dovrebbe
dormireee.." strascicando quell'e finale, come per non nominare
il nome di Dio invano.
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