lunedì 27 febbraio 2017

AUGUSTO CONTI FILOSOFO ITALIANO IN UN ARTICOLO DI G. BERZELLOTTI SU «NUOVA ANTOLOGIA» DEL 1908

a cura di Francesco Fiumalbi

In questa pagina è proposto un interessante articolo redatto da Giacomo Barzellotti e incentrato sulla figura di Augusto Conti [San Miniato, 6 dicembre 1822 – Firenze, 6 marzo 1905], che è da considerarsi una delle figure sanminiatesi più importanti e significative della seconda metà del XIX secolo. Ogni sua attività, nella sfera didattica, culturale e politica, fu espressione, anzitutto, dal suo pensiero. Egli fu infatti uno tra i filosofi che più si distinsero nel panorama italiano durante e dopo il Risorgimento nazionale.
L’autore, Giacomo Berzellotti [Firenze, 1844 – Piancastagnaio, 1917] fu anch’egli un filosofo, allievo dello stesso Conti. L’articolo offre diversi spunti di interesse, soprattutto per tentare di comprendere quanto e come era stato accolto il pensiero di Augusto Conti in quel tempo, quali influenze aveva ricevuto e quali riflessi aveva generato sulla generazione successiva.

Ritratto di Augusto Conti,
Immagine contenuta in G. Berzellotti, Due filosofi italiani,
in «Nuova Antologia di Lettere, Scienze ed Arti»,
V. Serie, Vol. CXXXVI (CCXX), Roma, 1908, p. 180

Di seguito è proposto il testo di G. Berzellotti, Due filosofi italiani, in «Nuova Antologia di Lettere, Scienze ed Arti», Quinta Serie, Volume CXXXVI – della Raccolta CCXX – Luglio-Agosto 1908, Roma, 1908, pp. 177-192:

[177] DUE FILOSOFI ITALIANI

Augusto Conti e Carlo Cantoni, i cui nomi qui vanno insieme, appartengono a due generazioni, succedute immediatamente l'una all'altra, che segnano nella storia recente della nostra coltura il suo passaggio, reciso, rapido, quasi senza mezzi termini, da tutto un mondo d' idee, di fatti e di sentimenti ad un altro, che n' è, si può dire, l'antitesi.
La storia di questo mutamento - tra i più profondi e decisivi fra quanti ne son mai avvenuti nella vita di un popolo - resta ancora a farsi. E non potrà esser fatta con quell'ampia visione obiettiva delle idee e delle cose, in cui dovrebbe consistere l'onestà della storia, se non a questo patto: che il giudizio, tuttora pendente, intorno all'opera d'iniziativa e di direzione, compiuta nell'ordine del pensiero da quanti, tra il 1820 e il 1860, ispirarono il nostro Risorgimento, venga ripreso a mente calma, senz'angusti pregiudizi di adorazioni fanatiche o di odi partigiani, senza meschino spirito di sistema, di clientela o di scuola.
Noi siamo oggi ancora ben lontani dal poter pronunziare un tal giudizio, mentre, in questo atomismo semianarchico di tutte le forze della nostra vita nazionale, la lotta confusa, che vi si combatte intorno alle idee, non è mossa per lo più se non da interessi di classe, di ceto o di clientela: e, tra le idee, le più acremente combattute sono appunto quelle che nella loro azione e nel loro valore storico vorrebbero esser giudicate con la obiettività più larga e serena. L'Italia è appena ai primi passi sulla via del formarsi - come deve, se vuole esser qualcosa nel mondo - una coscienza morale e sociale, veramente libera, veramente moderna e sua.
In tale stato delle menti, quelli tra i pensatori del Risorgimento, che meno di tutti sfuggono alla parzialità di giudizi angusti e poco sereni, sono i filosofi del gruppo così detto neoguelfo della prima metà del secolo scorso. Essi, specialmente il Rosmini e il Gioberti, sono ancora esposti a una doppia condanna, da parte cosi dei conservatori come dei liberali estremi. Da noi l'ambiente in cui si muovono le correnti dell'opinione letteraria ed artistica - se pur si può dire ve ne siano - è ancora lontanissimo da quella larghezza di critica, che in Francia, per esempio, rende possibile ai più colti di ogni partito il riconoscere e il porre fuor di questione la grandezza innegabile di Giuseppe de Maistre, considerato come scrittore. Non so se e quando, in Italia, quella dell'autore del Primato e del Rinnovamento potrà esser del pari riconosciuta e apprezzata anche da critici di opinioni religiose e politiche militanti in campi opposti ed estremi.
[178] Ciò che rende per ora, starei per dire, impossibile un'equa valutazione dei filosofi, ai quali qui accenno, è il modo in cui, massime in Italia, si seguita ancora da troppi a far la storia della Filosofia «con criteri di sistema assolutamente dommatici, con simpatie e antipatie individuali, regionali, professorali. Non solo il valore speculativo e il significato, ma persino il fatto, il puro fatto in sé stesso, di coteste dottrine, che accompagnarono il moto letterario e politico della nostra rivoluzione e ce ne danno come l'ultimo sfondo ideale, rimane incomprensibile e inesplicabile a chi le guardi, come si usa guardarle, staccate dal quadro delle tradizioni della mente italiana, da cui vengon su, e fuori di quell'intima unità di organismo storico, che esse fanno con tutti gli altri aspetti della vita nazionale rinascente. Cotesta, che Ippolito Taine chiamerebbe l'unità di gruppo di tutte le manifestazioni della mente e dell'anima del nostro paese, in quel suo grande e decisivo momento germinale tra il 1820 e il 1850, è tal fatto e di così ampia evidenza tipica, da tentare l'ingegno e la penna di un vero storico filosofo. Ma questo storico non è ancora venuto, non poteva venire dalle mille nostre accademie di erudizione minuta o di critica partigiana, dai mille nostri cenacoli, troppo chiusi, come furono sempre, nei loro amori e nei loro odi, perché potessero portare nello studio dei fatti del pensiero quella obiettività di sguardo sereno, propria al filosofo - quale lo voleva Benedetto Spinoza - «che non piange sulle cose umane, né se ne sdegna, che non le detesta, né le deride, ma solo si sforza di comprenderle».
Che in Italia finora questa larghezza e serenità di vedute critiche sia mancata, salvo rare eccezioni, a quanti hanno scritto della nostra filosofia moderna e contemporanea, lo mostra un fatto innegabile, ed è questo: che il dissenso profondo, la parzialità faziosa, il tono dommatico dei giudizi dati dai nostri intorno a cotesta filosofia, ha impedito sin qui agli stranieri di formarsene un concetto chiaro e sicuro. Di tutta la storia del nostro Risorgimento, così difficile a comprendersi e a farsi bene da chi non sia italiano, questa è la parte più generalmente fraintesa o ignorata o taciuta al di là delle Alpi. Sopra tutto taciuta dagli storici della Filosofia. In Germania, ove anche in questo, come in tutti gli altri rami della critica storica, si produce più che altrove, non v'è, che io sappia, tranne forse quello di Carlo Werner, un libro, che tratti a fondo delle nostre dottrine e scuole filosofiche del secolo scorso e le collochi nel loro vero punto di prospettiva storica. I cenni che ce ne dà nell'ultimo dei quattro volumi dell'Ueberweg uno scrittore italiano, sono nella loro sostanza precisi, imparziali e obiettivi, ma non vanno - non possono andare - al di là di un'esposizione sommaria e da manuale.
Il Windelband e il Falckenberg, i due scrittori di storia della filosofia moderna oggi più noti e più letti in Germania, non si sono proposti né l'uno né l'altro, secondo il disegno dato alle loro opere più recenti, una larga esposizione delle dottrine del secolo decimonono. Ma pur nelle stesse proporzioni di cotesto disegno, quello ch'essi ci dicono anche dei nostri maggiori filosofi, è in confronto a ciò che
dicono dei francesi e degl'inglesi poco più che un nudo catalogo di nomi e di titoli. E la insufficienza, le inesattezze anche dei dati di fatto, frequenti in cotesti scarsi e magri cenni, sopra tutto la mancanza di una visione giusta del moto delle menti italiane, guardato in ordine a quello della vita e della coltura nazionale, mostrano come gli espositori [179] stranieri abbiano avuto nei nostri una fonte poco sicura e poco fida d'informazioni e di giudizi (1).
E forse è la parzialità appassionata di cotesto informazioni e di cotesti giudizi che ha messo in guardia molti scrittori stranieri e li ha indotti a tacere. Notevole il silenzio di Harald Hòffding. Nei due ultimi libri della sua Storia della Filosofia moderna, ch'è certo per molti aspetti la più compiuta fra quante ne sono state scritte di recente, egli parla in quasi duecento pagine del positivismo francese, delle dottrine inglesi prima del 1840, di quelle di John Stuart Mill, del Darwin e dello Spencer e della filosofia tedesca dal 1850 al 1880; e non ha una sola parola sull'Italia. Né a spiegare interamente questo suo silenzio vale, mi sembra, la ragione da lui addotta: l'avere egli parlato solo di quelle dottrine, che sono «una rielaborazione nuova e radicale dei problemi filosofici»; poiché le idee di più d'uno dei filosofi francesi, inglesi e tedeschi, sui quali egli si ferma, non hanno certo questa importanza. E all'Hòffding si sarebbe offerto, là dove parla della Filosofìa del Romanticismo, un motivo a discorrere dei nostri maggiori filosofi del secolo scorso, che si ricollegano strettamente a quel grande moto europeo d'idee e di forme letterarie.
Noi italiani abbiamo, adunque, verso i pensatori del nostro Rinascimento, se non altro, l'obbligo di esporne obiettivamente le idee e le dottrine, in guisa che esse prendano anche agli occhi degli stranieri il luogo che loro appartiene nella storia del pensiero moderno.
Le pagine seguenti, che - per l'occasione, in cui furono scritte (2) - non potevano disegnare se non le somme linee del soggetto che vi è trattato, mirano a ricongiungere più in specie il pensiero del primo dei due filosofi, di cui si parla, al gruppo storico delle dottrine italiane, dal quale immediatamente deriva. E ciò che si dice di entrambi è vólto, lo accennavo già in principio, a mostrare come la distanza, che corre tra i motivi filosofici e morali, a cui si è ispirata la loro mente, sia quella che divide di profondo intervallo, nel pensiero e nell'animo, i loro tempi. Chi scrive confida d'essere, per lo meno, riuscito a mostrare, anche parlando di un suo maestro venerato e di un amico carissimo, come non sia impossibile, fra le ire e gli amori che oggi più che mai appassionano e falsano la critica italiana, portarvi quella disposizione di mente, indicata da un grandissimo storico con le magnifiche parole: «sine ira et studio, quorum causas procul habeo».
[180] I
Augusto Conti ebbe per temperamento mentale, per le condizioni dei tempi, in cui visse, comuni i motivi e i presupposti del suo pensiero filosofico con quello del Rosmini e del Gioberti e delle loro scuole; unico prodotto, che nel campo speculativo sia, ai nostri giorni, venuto su fra noi da un sottosuolo e da una continuità di tradizioni intellettuali nostre, e si sia esteso in un gruppo di dottrine sistematiche, anche fuori delle scuole, alle classi più colte della nostra società e ad ogni parte d'Italia.
Dal Rinascimento in poi, in quel silenzio, che sotto la minaccia del Sant'Uffizio s'era fatto anche nelle menti più audaci; - dopo le intuizioni geniali dei teosofi fiorentini e il naturalismo del Telesio e del Bruno; - dopo che quella riconquista della realtà e della vita, iniziata da noi, due secoli prima, nell’arte e nella poesia, era riuscita col Machiavelli a una nuova dottrina della storia, e al moderno concetto matematico e sperimentale della scienza positiva col Vinci e col Galilei, l’Italia non aveva più avuto una sua filosofia. Per poterla avere le era mancata, oltre alla libertà delle menti, la prima
di tutte le condizioni che posson renderle feconde anche nell'ordine del pensiero astratto: la spinta di tutto un vasto e ricco moto ascendente di coltura, qual'era stato prima il nostro, esteso a tutte le parti e a tutti gli aspetti della vita nazionale. Noi eravamo in piena declinazione, mentre altri salivano. Ci eravamo - scrisse argutamente l'Algarotti - alzati e messi al lavoro prima dell'albeggiare, e molto più presto degli altri; e restammo poi quasi inerti molte ore in pieno giorno. La nostra coltura dopo avere, come già la ellenica, prodotto con mirabile e affrettata precocità giovanile, s'era sulla fine del Rinascimento esaurita in una stupenda fioritura tutta esteriore, d'arte, vuota di midollo morale e religioso, proprio al momento della nuova vita d'Europa, quando il pensiero scientifico nasceva, e, altrove, dall’intimità della riflessione sulla coscienza, affinata dalla Riforma e dal libero esame, sorgevano le scienze morali e storiche. La filosofia, e con essa la grand’arte della prosa (che altrove nasceva col saggio filosofico), non avevano nulla da dire qui tra noi, ove in mezzo all'ozio ciarliero di tutti, negli animi e nelle menti non accadeva più nulla. La seconda metà del Seicento e la prima del Settecento avevano avuto nelle nostre scuole [181] e nelle accademie insigni sperimentatori ed eruditi, e un pensatore solitario e non compreso: il Vico. La filosofia civile degli economisti e dei sociologi, sorta al primo alitare delle idee di libertà e di riforma, che precorrevano la rivoluzione, ci era venuta quasi tutta di fuori, come dalle scuole francesi si era diffuso e aveva attecchito anche fra noi il sensismo. Solo Pasquale Galluppi, la mente più lucida e più diritta, che allora e poi sia apparsa nel mezzogiorno d'Italia, aveva, ritraendo dagli Scozzesi e dal Kant, dato però l'esempio di un pensiero nostro, improntato delle nuove tendenze dei tempi, e che non era rimasto senza seguaci.
Ma fu il maggiore tra i moti politici del Risorgimento - quello, a cui dal 1846 al 1849 ha veramente preso parte tutto il paese - che ha dato anche alla filosofia il valore di un grande fatto della nostra vita nazionale. E ciò perché la filosofia, anche questa volta - come sempre quando l’opera sua ha avuto vera importanza storica - si è trovata nel centro e come nel cuore di tutto un vasto organismo di forze intellettuali e morali cospiranti alla rinnovazione di un popolo.
È noto come la parola eloquente di un filosofo abbia, nel momento decisivo per noi, impresso al gruppo di coteste forze la spinta tangenziale, che mise in moto il paese, e dalle menti scese all'anima e al cuore delle classi popolari. Dopo il Contratto sociale non vi è stato certo altro libro, che abbia avuto su tutto un popolo il potere di suggestione, che ebbe su di noi il Primato. Era uno splendido sogno, ma quel sogno ci mise in via e bastò. La formula religiosa e filosofica di Vincenzo Gioberti – l’Ente crea l'esistente - e l'ampio giro di vedute ideali, ond'essa gli apparve a capo di tutto lo scibile: il porsi, com' egli fece, col suo concetto del Papato, custode e depositario di tutte le nostre tradizioni morali, quasi nel centro, tuttora vivente, di quel nostro passato glorioso, delle cui memorie la letteratura patriottica aveva sino allora fatto leva a rialzare il paese: l'eloquenza potente del grande scrittore, nel quale le idee, anche le più generali, accennano sempre e gravitano - com' è negli oratori - verso le loro conseguenze immediate e pratiche; tutto questo e l'elezione di Pio IX, che parve, e fu in principio, il pontefice augurato da lui, fecero sì che la sua dottrina traducesse in una energia d'azione viva e presente le idealità un po' vaghe e remote dei Classicisti e dei Romantici.
Col clero e col Pontefice consenzienti - Giovanni Mastai leggeva in posta il Primato andando da Imola a Roma per il conclave - la filosofia prese, insieme alla letteratura patriottica, le iniziative e la direzione del moto italiano. E fu così, non solo perché i nostri principali filosofi, unitamente al Mamiani che doveva più tardi accostarsi sempre più a loro, parteciparono tutti alla vita politica, ma perché il Platonismo cristiano, che fu il fondo comune della loro dottrina, divenne allora il credo speculativo dominante nelle menti. La teoria di un intuito, a noi concesso, della realtà di Dio, e l’altra che, secondo un'interpretazione più temperata delle dottrine dei maggiori tra i Padri e Dottori della Chiesa, ravvisava nel valore assoluto delle verità e dei principi di ragione un'appartenenza ideale del vero divino, avevano avuto una tradizione, si può dire, non mai interrotta nelle nostre scuole teologiche. Antonio Rosmini l'aveva ripresa e svolta, fino dal 1830, tentando di accordarla coll'indirizzo critico della filosofia moderna, nel suo Nuovo saggio sull’origine delle idee. E il vasto sistema d' idealismo, che egli vi aveva disegnato, e di cui è rimasto [182] interprete l'ordine da lui istituito, crebbe molto di seguaci e di efficacia sulle menti in quegli anni, specie in tutta l'alta Italia, fra quel caloroso diffondersi dell’interesse generale per la filosofia cristiana, alleata colla rivoluzione.
Antonio Rosmini è stato certo la mente speculativa più larga più forte, che l'Italia abbia avuto ai nostri tempi; forte per l'acume dell'esame critico, col quale egli in alcune sue teorie, tuttora nuove, - per esempio, in quella dell'assenso - precorre ed eguaglia i più finalisti moderni; larga per la sintesi poderosa, nel cui giro i tentacoli della sua formula ideale stringono e compongono a sistema tutta un'enciclopedia filosofica e teologica. La forma e il congegno del sistema, il luogo centrale che vi tiene il problema critico, il modo in cui vi è posto e alcuni dei risultati, ai quali l'autore giunge massime nel Nuovo Saggio, tengono della dottrina del Kant e la toccano in più luoghi. Ed è stato detto e ripetuto che il Rosmini ha ridotto ad una sola le categorie del filosofo tedesco. Ma chi voglia cogliere fondo, il contenuto, lo spirito e il vero significato storico della dottrina del Rosmini, non deve fermarsi alla sua gnoseologia. Deve penetrarne e comprenderne il sistema, guardandolo nella sua intima uniti vivente e personale coi motivi e coi presupposti che lo hanno suggerito all'uomo, al sacerdote e al filosofo, inseparabili fra loro. Antonio Rosmini, pensatore profondo compito da un santo, è stato l’ultimo dei grandi scolastici latini; ciò che, a parer mio, non solo non toglie nulla all'altezza della sua statura mentale, ma ce la fa anzi apparire storicamente maggiore. La sua filosofia, che nel fino tessuto logico e nella minuzia analitica delle distinzioni tien molto delle grandi somme medievali, esce tutta dal sentimento e dal bisogno di un accordo tra la ragione e la fede: accordo che ha però anche in lui lo stesso presupposto iniziale, comune, come ben nota Adolfo Harnack, a tutta la Scolastica: il presupposto che tutto il giro della concezione razionale delle cose venga a descriversi, come da un suo centro, intorno alla teologia e vi si riconduca; poiché nell'animo del contemplante delle Scuole v'era sempre, come v'è nel Roveretano, il pio, il pregante devoto, il mistico. Nell'alta mente del moderno Tommaso d'Aquino la materia e il contenuto del sistema ideale del Cristianesimo – da lui ragionato e ricostruito criticamente nel suo – serbano come già ebbero nei grandi scolastici, una vitalità e una plasticità ancora capaci di svolgimenti nuovi. E questi nell'ultima fase della speculazione del Rosmini accennarono a una libertà di pensiero, che gli attirò la condanna di Roma. Per il Gioberti il postulato del necessario accordo della ragione con la fede e del riconoscimento di un'azione divina sull'intelletto acquista tal valore da fargli ammettere in noi una facoltà sui generis superiore alla ragione, e che ha per oggetto il soprannaturale e da fargli identificare così filosofia religione.

II.
Il pensiero filosofico e tutta l'opera di Augusto Conti riflettono in sé il fondo di questo stato d'animo e di mente, comune agli uomini dai quali s'ispirò alla fede, unita con la scienza, tanta parte della sua generazione, e dalle cui dottrine egli pure mosse, sebbene poi ne abbia rifiutato con libertà di mente i principi strettamente sistematici.
[183] Egli aveva ventidue anni, quando apparve nel 1842 il Primato di Vincenzo Gioberti, ed era di poco uscito da una terribile crisi interiora di dubbi tormentosi, in cui la fede della sua adolescenza aveva minacciato di spengersi; ma bisognoso, com'era, di credere, andava tentando nella lettura, che lo attirava, di Apologie del Cristianesimo l'acquisto di convinzioni religiose ragionate. La filosofia eloquente del torinese «gli prese il cuore», sono sue parole, lo fece suo. Poi, nel 1848, combatté a Montanara, alfiere del suo battaglione. Nella ritirata dei nostri il giovane filosofo agitava alto in faccia al nemico, irruente da ogni parte, la bandiera, che riportò salva e riconsegnò in Brescia al De Laugier con queste belle parole: «Generale, onorata la presi; onorata la rendo». E non bastandogli i pericoli corsi per la patria, raggiunse, semplice soldato, con pochi altri toscani l'esercito piemontese; fu a Valleggio, a Custoza, a Villafranca; accorse a Milano alle ultime difese; e là, dopo l'armistizio Salasco, si trovò coi bersaglieri del Lamarmora sotto il palazzo Greppi a proteggere Carlo Alberto dalle minacele e dalle armi di fanatici tumultuanti.
Tornato in Toscana e posto ad insegnare filosofia nelle scuole regie di San Miniato sua patria, poi a Lucca, il Conti professò da principio le dottrine del Gioberti. Quello dal 1850 al 1859-60 fu il periodo decisivo di tutto un nuovo indirizzo intellettuale e politico della vita italiana, che vi passò - direbbe A. Comte - dalla sua fase teologica e dalla metafisica, espresse nel romanticismo religioso del Gioberti e nell'idealismo repubblicano del Mazzini, alla fase positiva guidata dalla politica audacemente accorta di Camillo Cavour. Egli separò definitivamente la letteratura e con essa la filosofia dalla politica della rivoluzione unitaria, che aveva rotto ormai con Roma e si appoggiava alla monarchia e al Piemonte. La grande maggioranza del clero si allontanò allora dalle dottrine del Rosmini e del Gioberti; il quale ne' suoi ultimi anni volgeva verso il razionalismo, e verso teorie semipanteistiche, che stanno tra il cardinale di Cusa e l'Hegel (3).
Sono ben note le irose polemiche di quegli anni tra Giobertiani e Rosminiani e Tomisti, alle quali Ausonio Franchi, non più sacerdote, mesceva Vodium theologicum, di cui è intinto il suo libro contro la filosofia delle scuole italiane, allora rappresentata principalmente da Terenzo Mamiani. Nel fervore dell'opposizione critica nascente che la colpiva anche coll'arma dello scetticismo storico di Giuseppe Ferrari, e mentre già le sorgevano contro gli Egheliani, o rinunzianti col Vera a fare - come sino allora s'era fatto - della filosofia una questione di nazionalità, o volti con Bertrando Spaventa a riattaccare il filosofo della nostra tradizione speculativa al naturalismo del Rinascimento, il Conti riman fermo sempre sul fondamento religioso e tradizionale del necessario accordo della ragione con la fede, voluto dai nostri ontologi, pur non accettandone più la premessa della dipendenza di tutta [184] la filosofìa dalla soluzione del problema dell'origine delle idee. Egli non poteva, e - così ha ripetuto più volte parlando di quei suoi primi passi verso una dottrina propria - sentiva di non dovere abbandonare ai dubbi e alle negazioni ad oltranza, cui sono esposti i sistemi, sempre discutibili, quella naturale certezza delle prime verità evidenti alla coscienza, che precede ogni sistema e ogni scienza, e fa riscontro alla certezza delle verità religiose, fuori delle quali, per lui, non può «quietare il cuore». Gli ripugnava esporre dalla cattedra dottrine che avessero potuto indurre dubbi tormentosi nell'animo dei giovani; poiché - scriveva - «io son testimone a chi lo nega, che la certezza lieta, profonda, serena non trovasi altrove che nell'evidenza del Cristianesimo».
Questa intima convinzione della necessità di distinguere nella coscienza, fino dai primi passi della ricerca filosofica, uno stato di primitiva certezza naturale e immediata dallo stato successivo di certezza riflessa e scientifica, è capitale, è, direi, pregiudiziale nella mente di Augusto Conti. Guglielmo James vi ravviserebbe forse il primo dato del prammatismo cristiano di lui. Certo essa penetrava al di là e al disotto del suo pensiero e metteva radice nel fondo stesso della sua natura. Era una di quelle forti nature, religiose di tempra e di razza, fervide di sentimenti e di affetti, che, dato il loro primo getto di fiamma giovanile, hanno bisogno di ricomporsi ad equilibrio in una piena armonia della mente col cuore, del pensiero con la vita.
La sua indole passionata aveva avuto in gioventù qualche scatto, di cui egli si pentì sempre. E quantunque, portato com'era a voler bene, apparissero in quella austera virilità, che gli spirava dal viso e dall'alta e vigorosa persona, tratti di gentilezza e, a volte, quasi di timidità feminea, pure gli restò fino agli ultimi anni quella sua innata tendenza a trascendere  - ciò che gli faceva tanto più sentire il bisogno di contenere e quasi di arginare tutto sé stesso, così dalla parte del pensiero come dalla parte del cuore, chiamando in aiuto all'autorità interiore della ragione dominatrice quella esterna, da essa però liberamente accettata, della coscienza sociale e delle tradizioni. Da questi motivi di esperienza personale vissuta esce il concetto della doppia origine interna ed esterna, data da lui a quei quasi indici di orientazione del pensiero verso la verità, ch'egli chiamò criteri della filosofia, e nel suo libro principale, intitolato così, ne distingueva cinque: l'evidenza razionale del vero, gli affetti, il senso comune, la fede e la tradizione scientifica.
Da questo concetto e da questo suo primo libro viene, come da un germe, che ne porta già in sé preformata ogni parte, tutta l'opera del pensiero del Conti e il suo modo di considerare e di trattare la storia della filosofia. Il libro intende - egli diceva - a mostrare «che la filosofia, mentre vuol fare il filosofo, non ha da disfare l'uomo»; che essa «cade sopr'una materia naturalmente, socialmente, religiosamente preparata e certa; e che da secoli se ne formò la scienza quant'alla verità sostanziale, ma che si svolge all'indefinito con l'osservazione e col ragionamento». Il filosofo deve riconoscere e accettare questo capitale primo di verità, che la natura umana, «educata nel consorzio cristiano», ha in sé, e «condurvi sopra la riflessione senz'alterarle». «Chi confonde o divide, o nega le verità che si contengono nella coscienza, cade in errore e fa setta: chi le afferma e distingue ed accorda, è filosofo vero, e la tradizione dei filosofi è perennemente progressiva».
[185] Su tali linee, di cui più d'un tratto ricorda un concetto di quella grande mente comprensiva, che fu il Leibniz, ammirato dal Conti, egli disegnò con mano sicura il suo, come lo disse, «specchio generale della storia della filosofia»; libro notevole, il solo finora che noi abbiamo, in cui tutta la materia storica della filosofia sia abbracciata in una sintesi metodica. La quale, se naturalmente riflette dal suo fondo le convinzioni dell'autore e non di rado adatta ad esse un po' volutamente i fatti, ha però, specie nelle parti relative ai Padri e agli Scolastici e a S. Tommaso, che il Conti conosceva a fondo, un valore di appropriazione personale del soggetto che la critica equa non può disconoscere.
In queste due opere, concepite e scritte dall'autore dal 1850, circa, al 1864, nel massimo rigore del pensiero e della vita s'impernia l'ampia trattazione, che non n'è che lo svolgimento dottrinale, data poi da lui in una larga serie di scritti, di tutta la materia della filosofia, divisa com'egli la concepisce, secondo lo schema tradizionale, in Dialettica, in Estetica e in Morale. «La Dialettica è suddistinta in due parti: l'una discorre la forma universale dell'intelletto, cioè l'ordine mentale del Vero, esponendo la teoria delle idee universali, e poi l'arte logica, che ne dipende; l'altra discorre l'ordine dell'universale realtà, riscontrando in essa il coordinamento con la forma dell'intelletto». Sono otto volumi - quattro della Dialettica, due della Morale, due dell'Estetica - ai quali non manca nella lucidità e nella euritmia dell'esposizione un largo nutrimento di conoscenze tratte anche dalle scienze naturali. Specialmente nelle teorie sul Bello e sull'Arte e sull'Etica lo scrittore di gusto fino, lo studioso di cose morali e sociali, che si univano nel Conti, danno prova di acume e non di rado di novità di pensiero. A capo e nel centro di questo disegno speculativo è l'idea d'Ordine e di Relazione, che la filosofia, «scienza - com'egli la definisce - delle relazioni universali», svolge, esaminando queste relazioni «ne' fatti della coscienza, nelle idee, negli oggetti reali, nelle operazioni umane».
È un disegno d'idee, le cui somme linee riproducono quelle delle dottrine tradizionali dei maggiori trattatisti cristiani, massime di Tommaso d'Aquino e della sua scuola, con una tendenza però a mettere in piena luce la ragionevolezza e la conformità dei veri morali del Cristianesimo con la evidenza dei veri più universali della coscienza umana. È, si potrebbe anche dire, un nuovo appello alla testimonianza dell'anima naturaliter Christiana, invocata da Tertulliano e dagli altri apologisti, e suggerito da uno stato d'animo e di mente, che nel filosofo italiano cattolico fa pensare - tenuto il debito conto delle differenze dei tempi e degli ambienti - ai motivi che determinarono l'opposizione della scuola scozzese alle analisi demolitrici del Locke e dell'Hume, minaccianti di travolgere - dice Harald Hòffding - «il fondamento delle sicure concezioni popolari e quello della filosofia speculativa e religiosa». Anche gli Scozzesi si appellavano - sono sempre parole di Hòffding - «al giudizio della coscienza ingenua e al buon senso comune e proponevano alla filosofia il compito di rendersi conto del contenuto dei giudizi di essa coscienza e di erigerlo a sistema». Era già nel Reid e nei suoi la reazione all'indirizzo del secolo decimottavo, la quale poi doveva irrompere da ogni parte all'entrare del decimonono, e nella corrente della quale sta ancora il moto di tutto quel gruppo di dottrine italiane, cui appartiene anche quella del Conti.
[186] Chi la guardi fuori della sua vera prospettiva storica rischia di non comprenderla, di giudicarla perciò ingiustamente. E a voler penetrarne tutti i motivi bisogna poi non dimenticare che il Conti era toscano. Quella sua ripugnanza quasi istintiva a coinvolgere nelle dispute e nei dubbi dei sistemi la certezza delle verità più vitali della coscienza umana, gli veniva da quel cauto tatto della misura e da quel bisogno del consenso sociale, che, se sono innati nelle menti di schietta tempra latina e italiana, sono più veramente propri delle toscane. Una tra le più toscane di razza che mai vi siano state, Gino Capponi, il grande patrizio fiorentino, che ha scritto intorno all'italianità della nostra coltura dei primi secoli le pagine certo più belle e più dense di pensiero che abbia la nostra letteratura storica moderna, parlando nella sua Storia della repubblica di Firenze degli scrittori popolari di prosa del Duecento e del Trecento, li dice «seguaci di quella stessa filosofia perenne che piacque a Leibnizio, e che oggi - aggiunge - Augusto Conti ed altri seco a noi riconducono, e dalla quale a Dante mai, per quanta in lui fosse l'alterezza dell'ingegno, non cadde in pensiero di dipartirsi: quella evidente sincerità della frase, quella parola che va direttamente a cogliere il segno, le doti insomma che invidiamo agli autori del Trecento, non sono grazie della lingua esterne e casuali, ma sono espressioni di sani intelletti e di dottrine che bene rispondono al comun senso dell'umanità. In questa Italia, che pure dicono qualcosa recasse nella civiltà moderna, mai non si produssero o poco allignarono quelli intelletti che di sé fanno centro al mondo e di là si mettono a ricomporlo; non le arcane scienze, i paradossi, i sistemi, non il dubbio di Abelardo, non le temerarie sottilità dello Scoto, non le dottrine dissolutrici, non le troppo rigide, non la superstizione crudele o fanatica: certe infantili credulità meno disviano dalla dirittura gli umani intelletti, che non l'alterato o incerto giudizio circa alla sostanza delle cose». Questo così risoluto consenso dell'insigne scrittore fiorentino con l'opera di Augusto Conti le dà il suggello caratteristico della sua filiazione storica di razza.
L'italianità genuinamente toscana, che n'è l'impronta, si traduce dal fondo del pensiero nella forma dello scrittore. Il Conti lascia anche libri di materia letteraria, che hanno vero pregio e sono stati e sono tuttora letti da molti. Come scrittore di cose filosofiche e come stilista, egli sta, insieme al Gioberti, in prima linea tra i moderni.
Degli ultimi, nessuno lo supera nella chiarezza e nella urbana e schietta semplicità dell'espressione. Il Gioberti, ch'è anche per l'italianità della parola il più grande tra i nostri scrittori politici, lo vince nella potenza e nell'elevatezza dello stile, ma troppo spesso abusa di termini tecnici. Il Conti ha dato al suo pensiero, assai meno complesso e, direi, più modesto, una veste, la cui stoffa viene tutta dal fondo tradizionale della lingua, da lui adoperata con arte e con gusto in nuovi modi di espressione, e il tessuto rende nell'ordito quello del latino dei nostri migliori trattatisti scolastici, latino pensato italianamente, e che si potrebbe tradurre alla lettera in una bella prosa del Trecento; con più però nel Conti una vena di vivezza moderna e parlante, che fa delle lezioni, dei dialoghi e dei discorsi, raccolti nei due volumi dei Criteri, uno certo dei più bei libri di prosa morale, che abbia la nostra letteratura. Nelle opere dell'età matura lo stile del Conti ha movenze e simmetrie che sanno forse un po' troppo spesso del cercato e raffreddano il lettore. Ma una critica non partigiana dovrà [187] dargli intero il merito, riconosciutogli nel fatto dal largo pubblico, che hanno avuto i suoi libri: il merito di aver serbata e difesa tra noi la tradizione letteraria, che da secoli, in Grecia, poi nell'Europa latina e in Inghilterra, ha sempre unito la filosofia, la grande arte del pensiero, con l'arte della prosa.
Augusto Conti è stato uno degli uomini di maggior valore, che oggi abbia avuto il nostro paese, e di maggiore autorità, specie sui giovani. L'autorità gli veniva, non tanto da un'azione astrattamente speculativa del suo pensiero sulle menti, quanto dall'intima forza di suggestione morale, che era nell'uomo. Coloro, i quali in lui non degnano di vedere un filosofo, solo perché la sua mente non era fatta ad immagine e a similitudine della loro, dimenticano, fra le altre cose, come, secondo quella tradizione secolare, per cui la filosofia è stata sopra tutto un'eroica scuola di alti caratteri, debba ravvisarsi assai maggior somma di valore filosofico umano in un forte e coerente pensiero, trasfuso tutto, com'era il suo, in una nobile vita, che non in teorie astratte e artificiose, spesso alienissime dalla realtà e dagli animi umani, professate a fior di labbra, fatte anche non di rado servire a interessi di clientela, di partito e di setta. Questo sentivano e sentono i suoi discepoli, quelli pure, che, come me, si sono nei loro studi allontanati dalle teorie del filosofo, restando però sempre uniti nell'animo loro al maestro. Questo sentivano i moltissimi d'ogni condizione e d'ogni partito, che quando egli morì, pieno di anni, il sei di marzo del 1905. gli fecero una grande significazione unanime di compianto e di onore. Al professore insigne, che solo da cinque anni riposava dopo cinquant'anni d'insegnamento, al cittadino amante della patria, che aveva tenuto fede - deputato alla Camera per più legislature - al partito conservatore cattolico, il quale per qualche tempo lo ebbe a capo, venne nell'ultima malattia il saluto estremo di uomini autorevolissimi: primi, i presidenti della Camera e del Senato. Ora mi si lasci constatare un fatto. Questo filosofo, questo cittadino, questo vecchio soldato della patria, a cui ora s'inchinavano uomini d'ogni partito, nessun ministro dei tanti che s'erano succeduti in 30 anni, da che egli non era più deputato, aveva voluto o potuto farlo senatore del Regno. Perché? In questi nostri governi, che si dicono di maggioranze, è la paura, il terrore dell'impopolarità, che alle maggioranze incutono le minoranze chiassose, che spesso toglie ai governanti la forza e l'autorità necessarie per rendersi superiori ai partiti (4).

III.
Il tempo, in cui il Conti scrisse, insegnò e raccolse intorno a sé una scuola, fu quello, nel quale anche fra noi si formarono e prevalsero quelle condizioni delle menti e della coltura d'Europa, che
fecero della seconda metà del secolo scorso, massime del trentennio dal 1850 al 1880, uno dei periodi storici più sfavorevoli, che mai abbia avuto contro di sé la filosofia spiritualistica e idealistica, anzi ogni filosofia superiore al mero empirismo. Terenzio Mamiani, che, ultimo, [188] aveva raccolto, dopo il 1850, la bandiera dell'ontologismo, e le restò fedele fino alla morte, tentava inutilmente di farle seguaci.
Nel prevalere assoluto delle scienze naturali, le teorie materialistiche occupavano, sole quasi e da padrone anche in Germania, il campo lasciato vuoto da ogni altra speculazione metafisica. Dopo l'ultimo dissolversi della scuola egheliana, mentre non avevano quasi più seguito che l'Herbart, il Beneke, il Fries e Arturo Schopenhauer, i tentativi di nuove costruzioni sistematiche, fatti dal Fechner, dal Lotze e da altri, rimasero isolati. In Francia e da noi il positivismo dilagava. Le dottrine della filosofia scientifica inglese, che seguitavano la tradizione psicologica del Locke e dell'Hume (i nostri positivisti le scambiavano in principio per un fisiologismo materialistico), volgevano con Herbert Spencer, fiancheggiate dall'evoluzionismo della biologia, verso l'unico grande sistema dominante che abbia veduto la fine del secolo.
In Italia, ov'esso ebbe insieme col materialismo molti seguaci, e i positivisti poi si raccolsero nelle università del nord intorno a Roberto Ardigò, si è fatto a poco a poco sempre più sentire, durante l'ultimo ventennio del secolo, fra gli studiosi meno facili a seguire le voghe delle idee dominanti, il bisogno di accostare il nostro pensiero filosofico a quello tra gli indirizzi della filosofia moderna, da cui n'era uscito il moto centrale, il più conforme allo spirito critico della mente contemporanea, e che era poi venuto in sempre maggiore contatto col nuovo spirito filosofico, risorto nelle scienze naturali. Cotesto indirizzo critico, quello del Kantismo, al quale in Germania, già prima del 1870, si cominciava a tornare, parve poi anche in Italia ad alcuni studiosi delle idee contemporanee l'unica via, per cui la nostra mente nazionale avrebbe potuto vitalmente riprendere la tradizione del pensiero filosofico moderno, interrotta in lei dopo il Rinascimento per oltre due secoli.
Gli egheliani di Napoli s'erano essi pure proposti verso il 1860 di riannodare il nostro alla tradizione del pensiero filosofico moderno, ma avevan commesso un doppio errore, che è stato la vera causa
dell'insuccesso della loro scuola rimasta isolata nel mezzogiorno di Italia e che vi ha avuto breve vita. Era un errore, se posso dir così, di mancato o di non retto senso storico, per cui essi avevan creduto di poter trapiantare fra noi, staccandolo dalle sue radici e dal suo terreno, l'ultimo prodotto di quella, che dal Fichte all'Hegel era stata la forma più propria e nazionale, che avesse avuto il pensiero tedesco; avevano creduto di poter ridar vita in Italia all'idealismo assoluto, quando già cotesta forma di speculazione poteva considerarsi da un pezzo come storicamente oltrepassata anche in Germania. Ed erano, io credo, una conferma di fatto, e quasi una tacita confessione della coscienza di cotesto errore i ravvicinamenti e i riscontri storici, assai più ingegnosi che veri, coi quali Bertrando Spaventa s'era, prima, sforzato di cercare e di ritrovare un nesso di continuità non mai pienamente interrotto neppur fra noi tra le intuizioni audaci dei nostri filosofi del Rinascimento e il pensiero moderno, e poi aveva voluto anche più artificiosamente e antistoricamente scoprire rispondenze precise e affinità intime perfino tra i nostri ontologi della scuola cattolica e i maggiori filosofi della scuola del Kant. L'altro grave errore dei nostri egheliani era stato quello rimproverato loro così acutamente da Ruggero Bonghi, «di non avere - egli diceva - atteso abbastanza alla [189] diversità naturale della mente italiana dalla tedesca e delle lingue nelle quali s'esprimono»; di non avere, «intenti, coni erano stati, più a parer profondi che a rendersi intelligibili», avuto alcuna cura di far passare nel nostro le idee venuteci dal pensiero germanico, traducendole negli abiti e nelle forme mentali nostre, mediante una conoscenza critica profonda e sicura dei due linguaggi e delle due culture. Le obiezioni del grande polemista coglievano dritte lo Spaventa (5).
Augusto Vera, traducendo il pensiero dell'Hegel nel linguaggio francese, s'era servito di una forma più adatta a dilucidarlo, e aveva certo giovato più a farlo passare nelle menti latine. Stando a lungo in Francia, egli aveva veduto il mirabile lavoro d'intima assimilazione, con cui là tutta una schiera di grandi scrittori aveva ripensato latinamente e fatte sue le idee della scuola storica, venute di fuori; così come in Inghilterra Tommaso Carlyle vi stampava l'impronta della mente inglese e più tardi Tommaso Hill Green, il Bradly, il Caird ed altri in Oxford riprendevano alcuni tra i principi dell'idealismo critico tedesco, adattandolo però - com'essi stessi espressamente dichiararono di voler fare - alle mutate condizioni storiche del pensiero e alla tradizione intellettuale del loro paese.

IV.
L'opera, che anche da noi si è fatta, di tradurre e d'interpretare nelle forme della nostra mente le filosofie straniere, è riuscita, io dicevo, da varie parti sempre più allo studio della critica di Emanuele Kant, centro e chiave di volta del pensiero speculativo moderno; alla quale - lo accennai - si sono con moto crescente avvicinati, dallo scorcio del secolo passato in poi, i presupposti e i resultati delle scienze positive. Tra gli studiosi, che primi in Italia si sono vólti a questo indirizzo critico, e hanno portato nel lavoro dell'aprirgli la via una più forte preparazione, una maggiore, più immediata e sicura conoscenza della lingua filosofica e della filosofia tedesca, spetta un alto luogo a Carlo Cantoni, morto 1' 11 settembre del 1906 (6).
[190] Io non parlerò qui della sua vita. Accennerò come, formato a forte disciplina di pensiero dal suo maestro Giovanni Maria Berlini, egli andasse a studiare in Germania, disposto a ricevere in sé con attitudini congeniali di mente lo spirito critico e storico della coltura di quel paese, ov'egli udì a Gòttingen Ermanno Lotze, e donde riportò in patria, raffermata dai nuovi studi, quella che fu poi sempre la tendenza direttiva del suo ingegno sobrio, chiaro, rigoroso ed acuto: la tendenza a pensar liberamente da sé, ad unire la ricerca scrupolosa della verità storica e l'osservazione dei fatti psicologici con l'indagine critica e con caute vedute speculative, lontane dagli estremi così del dommatismo realistico come della metafisica dei puri concetti, e vòlte ad accordare i diritti legittimi della scienza con quelli della filosofia. Della sua tendenza agli studi storici fa prova il suo primo lavoro di maggior lena.
Il libro sul Vico (1867), tuttora uno dei migliori che abbiamo intorno a questo soggetto. Degl'impulsi ricevuti nella scuola di Gòttingen, a seguire un ordine d'idee speculative fondate sull'osservazione psicologica e sui resultati delle scienze naturali, si risente lo scritto, pubblicato nel 1869, sul Mamiani e sul Lotze; ove in nome di una dottrina, che muove dall'esame dei fatti interni per sollevarsi ad alte cime di pensiero, egli criticava apertamente e metteva da parte il neoplatonismo del filosofo italiano, che non si accorda coli 'esperienza e non ne tien conto.
L'intima convinzione della necessità di muovere, fin dai primi passi della ricerca filosofica, da un rigoroso accertamento del valore immediato dei dati di coscienza, irriducibili a quelli dell'esperienza esterna; la convinzione della necessità di non mai separare l'esame di cotesti dati da quello dei dati critici del problema del conoscere, è uno dei caposaldi, a cui Carlo Cantoni s'è sempre attenuto stretto in tutta la sua opera di critico, di psicologo e di filosofo. Ciò si vede nelle importanti Letture sull’intelligenza umana, tenute nel 1870 all'Istituto lombardo di Milano, e in cui professa quanto alla relazione tra i fatti psichici e i corporei la teoria dualistica del Lotze. E qual valore attribuisse al problema psicologico in filosofia apparisce sopra tutto dal trarre ch'egli fa la sostanza e il nerbo dell'obiezione capitale, che crede si possa movere contro la Critica del Kant, dal difetto ch'essa, secondo lui, presenta di un sicuro fondamento psicologico; dall'avere, dice, «trascurato il Kant un esame psicologico diretto e; profondo di molte questioni, che si collegano strettamente col suo problema critico, e che non si possono risolvere senza quell'esame».
I tre volumi intitolati Emanuele Kant, premiati col premio reale dall'Accademia dei Lincei (il primo usciva nel 1879, l'ultimo nel 1884), sono l'opera, principale del Cantoni, a cui egli deve la reputazione larga e meritata, che ebbe anche fuori d'Italia, di studioso e di critico [191] di molto valore. Il suo libro è un'esposizione compiuta della filosofia kantiana: e non solo supera di gran lunga quanto da altri si era già tatto prima di lui in Italia, ma può stare a pari colle migliori esposizioni, che della Critica siano state pubblicate altrove; ciò che parve volere attestare anche l'università di Kònigsberg, quando nel primo centenario della morte del Kant nominò il Cantoni dottore ad honorem insieme ad un altro solo straniero, ad E. Gaird, autore dei le classici volumi usciti nel 1889 col titolo The Critical Philosophy of Immanuel Kant.
Se non che il Cantoni non ha voluto fare opera di semplice espositore e di storico. Coloro agli occhi dei quali il suo lavoro apparisce incompiuto e presta il fianco alla critica, perché non si ferma abbastanza a ritrarre le condizioni dei tempi e dell'ambiente, in cui il Kant visse e pensò, e l'indole dell'uomo, non avvertono come l'autore si sia proposto qualcosa di assai diverso da una mera figurazione obiettiva del pensiero del filosofo tedesco. Egli ha voluto esserne, nel senso più vero e più alto, l'interprete alla mente dei suoi connazionali; ha voluto ripensarlo col proprio e col pensiero dei suoi tempi diverso da quello dell'età del Kant; coglierne il valore e il significato durevole; metterne in luce ciò che esso ha tuttora di vivo e di vivificante e di fecondo per noi e per la nostra coltura, e che il nostro pensiero può ancora prendere come punto di mossa a svolgimenti nuovi e a nuove iniziative intellettuali. In Carlo Cantoni, espositore della Critica, v'è, dunque, sempre, e prevale il filosofo, che ha intenti e propositi propri li professa con piena libertà di pensiero (7).
E tali intenti non restringevano l'opera sua a quella sola dello studioso e dell'insegnante; la quale pure riuscì feconda, improntata, com'era tutta, di una grande lucidità e acutezza e forza logica di pensiero, disciplinato, coerente, sempre consapevole a fondo di ciò che voleva e poteva e della via da seguire. N'è prova il suo Corso elementare di filosofia, così nettamente concepito e condotto e perspicuamente scritto. Ma l'animo del filosofo, intento sempre ad alte idealità di progresso morale, sociale, politico, non poteva restar chiuso nell'ambito della sua scuola e nel suo studio. Egli trattò ripetutamente e con l'elevatezza, ch'era in qualunque cosa pensata e scritta da lui, la questione della riforma dei nostri istituti universitari, ripromettendosi, con piena ragione, ogni bene, da una larga applicazione ch'egli voleva fatta anche fra noi di quel principio della libertà degli studi, che è stato ed è così fecondo nelle università tedesche. Voleva lasciata ai giovani la libertà di ordinare i loro studi universitari secondo le attitudini e le disposizioni del loro ingegno; di plasmare in quella forma di vocazione intellettuale, a cui ciascuno era e si sentiva nato, la propria mente. Voleva che le nostre università entrassero in un contatto più intimo con la vita e con la coltura del paese; e della parte assai maggiore, che desiderava prendessero in [192] questa sempre più gli studi alti, forti e disinteressati, l’iniziativa e la direzione avrebbe voluto restituite alla Filosofia; il cui insegnamento nei Licei egli difese in Senato con nobili e animose parole, l'ultimo atto della sua vita pubblica. Alla vita domestica, cui per la perdita di due figlie amatissime non mancarono gravi dolori, egli diede, nella fida compagnia della donna egregia che gli fu moglie, tutta l'intimità de' suoi affetti. Poiché Carlo Cantoni era affettuosissimo; e quest'affettuosità gli si leggeva nel volto severo, che spesso però s'illuminava tutto di un sorriso, pieno di simpatia, e allora quei suoi piccoli occhi buoni brillavano a un tratto lasciando l'intensità fissa e abituale dello sguardo, reso acuto dal forte pensiero.
Giacomo Barzellotti.

«Nuova Antologia di Lettere, Scienze ed Arti»,
V. Serie, Vol. CXXXVI (CCXX), Roma, 1908, frontespizio

NOTE
(1) A questo proposito è da citarsi il volume pubblicato nel 1903 dal Baumann, professore ordinario di filosofia a Gottingen che ha per titolo: Dottrine filosofiche tedesche e extratedesche (Deutsche and ausserdenische Philosophie, etc.) degli ultimi decennii esposte e giudicate. Oltre che dei tedeschi più noti, vi si parla a lungo degli inglesi e dei francesi, del James, del Tolstoi e di altri filosofi contemporanei di altre nazioni. Degl'italiani, solo T. Mamiani, che l'autore chiama «il filosofo nazionale dell'Italia contemporanea», occupa appena una pagina e mezzo, ove si espone la dottrina dell'intuizione dell'assoluto riassunta dal filosofo italiano nello scritto: Compendio e sintesi della propria filosofia (1876).
Il Baumann non mostra di avere alcuna notizia né delle dottrine professate. Mamiani avanti a quella esposta nelle Confessioni di un Metafisico, né dei molti punti di contatto ch'egli ha con l'ontologismo del Rosmini e del Gioberti. Eppure il Baumann, che io mi ricordo di avere udito parecchi anni sono a Gottingen, è filosofo e scrittore provetto e di valore.
(2) Furono lette nell'adunanza tenuta dalla classe delle scienze morali, storiche biologiche dell'Accademia dei Lincei il 26 aprile di quest'anno.
(3) Vedi il mio scritto La letteratura e la rivoluzione in Italia avanti e dopo il 1848 e il '49, nel libro Dal Rinascimento al Risorgimento (1904), del quale il Sandron pubblicherà tra poco una seconda edizione. Vedi pure, intorno alla filosofia italiana, il mio saggio La filosofia in Italia (Philosophy in Italy nel Mind di Londra, 1878), uscito nel 1879 qui nella Nuova Antologia; e nel libro Studi e Ritratti (Bologna, Zanichelli, 1894) il saggio del Valore degli studi filosofici nella coltura italiana, pag. 335; e anche lo scritto La filosofia nella storia della coltura nella rassegna Italia (Anno I, fasc. 1°, Roma, 1897).
(4) Per ciò che riguarda gli scritti e la vita di A. Conti si veda il bello e buon libro che su di lui ha scritto A. Alfani.
(5) È facile trovare negli scritti di B. Spaventa la prova di ciò che io dico della disposizione antistorica del suo pensiero, oltre che nel modo, in cui egli tratta specialmente del Gioberti e del Rosmini, in più di un errore di fatto, nel quale egli incorre, come là dove nella sua prolusione Della nazionalità nella filosofia dice che nell'età moderna la filosofia è solamente europea; e dove dice che «l'ultimo grado, a cui si è levata la speculazione italiana, coincide coll'ultimo risultato della speculazione alemanna». Queste non sono solo affermazioni ardite; sono veri e propri errori, che mostrano quello di tutto l'indirizzo, seguito dagli egheliani di Napoli. La loro forma mentis è quella di Parmenide, che, come io osservai in un mio articolo, pubblicato nell’Antologia nel primo fascicolo di quest'anno, si potrebbe definire con una espressione dell'Amiel un'intelligenza matematica. Eraclito, a cui egli si contrappose, era un'intelligenza storica.
(6) Mi sia lecito dire che l'intento, al quale, con piena coscienza della via da tenere, ho dato i primi anni della mia opera di studioso delle idee e delle dottrine moderne e contemporanee, è stato questo: mettere la mente italiana in contatto col pensiero filosofico moderno degli altri popoli. A tale intento mirava il mio libro La morale nella filosofia positiva (Firenze, Cellini, 1871), che cercava
di far conoscere in Italia, giudicandole liberamente, e guardandole nella loro vera relazione storica con la loro tradizione nazionale, le dottrine della filosofia scientifica inglese. Herbert Spencer, nella sua Introdimone alla Sociologia, citava il mio libro, insieme ad uno di T. Ribot, per mostrare come all'estero, più assai che in Inghilterra, si riconoscesse giustamente ciò che noi suo paese si era fatto, negli ultimi anni, per ridar vita alla psicologia e agli studi morali e sociali. E all'intento notato sopra miravano gli scritti, da me pubblicati intorno alle dottrine di A. Schopenhauer, tra il 1878 e il 1882, quando egli era ancora ben poco noto in Italia, e il saggio intorno al Neokantismo, pubblicato dalla Nuova Antologia nel 1880, ch'ò stato uno dei primi, se non forse il primo in ordine
di tempo, in cui un italiano abbia reso conto agl'italiani di quel nuovo e importante indirizzo del pensiero critico contemporaneo.
(7) Vedi le belle e acute pagine, che intorno a C. Cantoni sono state scritte nel 1906 dai suoi discepoli e collaboratori alla Rivista filosofica da lui fondata e diretta : da Guido Villa (che ne ha scritto pure qui nel fascicolo del 1° marzo 1907 della Nuova Antologia), da B. Varisco e di recente da G. Vidari, nel notevole discorso, commemorativo del Cantoni, detto nell’Università di Pavia il 21 marzo 1908. A questi scritti io mi riferisco qui, dove non potevo toccare che solo per sommi capi dell'indirizzo generale del pensiero di Carlo Cantoni.

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