giovedì 23 marzo 2017

GIOSUE' CARDUCCI «PROCESSATO» A SAN MINIATO

a cura di Francesco Fiumalbi

INTRODUZIONE
Il primo a parlare di «processo» fu lo stesso Carducci ne Le “risorse” di San Miniato al Tedesco in Confessioni e battaglie (1° edizione 1883), per descrivere la situazione “surreale” venutasi a creare durante la sua permanenza a San Miniato, dato l'incarico di insegnante di Rettorica presso il Ginnasio nell'anno scolastico 1856-57.
Le argute parole carducciane non devono trarre in inganno: benché le circostanze coinvolgessero il Sottoprefetto di San Miniato Luigi Manenti, il Prefetto di Firenze Comm. Petri, vari funzionari di polizia e pubblica sicurezza, oltre all’allora Ministro dell’istruzione Pietro Fanfani, non si trattò di un “processo penale”, nell’accezione moderna del termine processo. Fu piuttosto una serie di fatti, atti e operazioni propri di una “indagine”, che tuttavia non determinò nemmeno un richiamo disciplinare vero e proprio.

Una simpatica rielaborazione di una immagine
raffigurante il giovane Giosuè Carducci

A dire la verità, le accuse che furono mosse al Carducci non erano da considerarsi di particolare gravità o di pericolo per l'ordine pubblico in generale. Il nodo della questione è che egli non era un comune cittadino, bensì un insegnante, e a chi svolgeva tale compito era richiesta non solo una preparazione disciplinare, ma anche una irreprensibile condotta morale, essendo una figura d'esempio per gli studenti. Ecco il motivo per cui, oltre alle autorità politico-governative sanminiatesi (Sotto-prefetto, il Delegato e il Capo-posto), si interessò della vicenda anche il Ministero dell'Istruzione dell'allora Granducato di Toscana. Un maestro o professore che non avesse mantenuto una condotta esemplare poteva essere ritenuto inidoneo all'insegnamento e quindi gli poteva essere revocato il Diploma di Magistero.

Cosa era successo? Cosa aveva combinato il giovane Giosué Carducci di tanto grave per essere sottoposto ad indagine?

Tutta la vicenda fu ricostruita dal filologo e scrittore Ermenegildo Pistelli [Camaiore, 15 febbraio 1862 – Firenze, 14 gennaio 1927] sulle pagine de «Il Marzocco» nel 1908 – il cui testo è proposto di seguito – salvo poi ripubblicare il medesimo articolo nella più ampia raccolta Profili e caratteri, G. C. Sansoni Editore, Firenze, 1921, pp. 31-53.

Trascrizione del testo E. Pintelli, Il Carducci e il Governo Toscano. Da documenti d'Archivio inediti, 1856-58, in «Il Marzocco», anno XIII, n. 36 del 6 settembre 1908, Firenze, 1908, p. 1:

IL CARDUCCI E IL GOVERNO TOSCANO
Da documenti d'Archivio inediti, 1856-58

I. Il «processo» di San Miniato.

Tutti hanno letto “Le «risorse» di San Miniato al Tedesco” e perciò tutti sanno che l'anno scolastico 1856-57 è per più ragioni memorabile nella vita del Carducci. Memorabile perché fu il primo del suo insegnamento, perché la spensieratezza giovanile gli fece correre qualche pericolo e perché illudendosi di trarne tanto da saldare i debiti con l'oste e il caffettiere – debiti assai giustificati dallo stipendio di 77 lire codine al mese – egli s'indusse a pubblicare a San Miniato il suo primo volumetto di Rime (luglio 1857). Tutte cose ormai notissime, anche per quel che ne ha scritto Giuseppe Chiarini nelle Memorie. Per il mio scopo basti ricordare che il Carducci, nelle bellissime pagine sopra ricordate, descrivendo la vita sua e de' suoi colleghi Pietro Luperini, «il più positivo» dei tre, e Ferdinando Cristiani, racconta che si trovavano spesso con «una brigata di giovanotti, piccoli possidenti e dottori novelli, che passavano tutte le sante giornate» a mangiare, bere e divertirsi. Nella “casa dei maestri”, dove i tre facevan vita comune, «ci si sentiva, pur troppo, di notte e di giorno, ogni qual volta, ed era spesso, l'allegra compagnia la invadesse»:

Ave color vini clari.
Ave sapor sine pari!
Tua nos inebriari
Digneris potentia!

«Tali erano – continua – se non le parole, il senso e il significato di quelli strepiti, e le invocazioni e le antifone di quei misteri, che non di rado erano pure celebrati in pubblico nel caffé Micheletti, o in una osteriuccia a pié del colle su la strada provinciale»
Peggio, qualche volta andavano alla messa e ci stavano con poco rigetto. Una di quelle messe al poeta era in memoria «per la lieta illustrazione di certi quadri o affreschi, che il capo più ameno della brigata recitava menandolo in giro per le navate, in istil bergamasco..., con un sistema critico di perpetua comparazione tra la figura di san Giuseppe e quella del sotto-prefetto, che, tutto in nero, ascoltava il divino ufficio nella prima panca».
Afferma il Carducci che da tutto questo si formò contro di lui «una leggenda d'empietà e di feroce misocristismo» tanto che prese credito la voce calunniosa che egli, il Venerdì Santo del '57, fosse sceso da San Miniato alla taverna del piano e all'oste sbigottito avesse intimato, con bestemmie sacrileghe, di portargli cibi di grasso. Fu perciò «avviato un processo» contro di lui; e «un processo di tal materia e in quegli anni in Toscana poteva menar lontani. Per fortuna che del '57 anche c'era in Toscana, pur all'ombra della cappamagna di santo Stefano, del buon senso parecchio e dell'onestà».
Tutto dunque finì bene, ma noi restiamo con la voglia di qualche particolare su questo processo. A me è accaduto di potermi levar questa voglia, che avevo da un pezzo, mentre, per isbattere la malinconia di queste vacanze, frugavo – con le debite licenze – tra le filze del nostro Archivio di Stato, dove è, per chi la sa intendere e sentire, tanta più poesia che nelle opere o nelle chiacchiere estetiche di tanti artisti incompresi o, peggio, critici d'arte creati ex nihilo. Le «risorse» sono pagine d'arte di mirabile evidenza: eppure in quelle filze vidi e conobbi il Carducci a ventun anno con evidenza anche maggiore, perché mi dicevano come fosse accolto e giudicato nel primo paese dove insegnò e me ne mostravano la figura, già fin da allora fuori dal comune anche nei difetti, disegnata da testimoni che, non supponendo di parlare per i posteri, erano naturalmente più sinceri. Comunque sia, certo ne risultava un quadretto non privo d'interesse della vita d'una piccola città toscana di cinquant'anni fa, e del carattere, in fondo così bonario, benché fossimo già al '57, dei rappresentanti di quel Governo morituro; insomma, quasi un commento e un complemento alle «risorse». Spero dunque che non parranno inutili le notizie che mi induco a pubblicare; anzi confido che i lettori me ne saranno grati, non foss'altro per la bella pagina inedita che offrirò loro dopo aver narrato del processo e d'altro, “pour la bonne bouche”, o... per ammenda.

***

Non si trattò propriamente d'un “processo per accusa d'empietà”, come dice con qualche esagerazione il Chiarini nelle “Memorie” (sommario del cap. III) e come potrebbe far credere il Carducci stesso con le parole “un processo di tal materia”. Le indagini politico-giudiziarie ebbero due periodi, e il secondo non s'intende bene senza conoscere il primo, sin qui del tutto ignoto. Dice il Carducci che “prima mali labes” furono la «bergamascata» in chiesa e le «smargiasserie di antimazonianismo». Ma la spinta al movimento anticarducciano dei Samminiatesi non poteva venire soltanto da questi motivi, dirò così, troppo ideali. Anche a questi si ricorse, ma più tardi, e soltanto per trovar pretesti a piegare le ingiuste antipatie contro il giovine professore e poeta.

Il 26 maggio 1857 da “picchetto” della I. e R. Gendarmeria di San Miniato il gendarme “capoposto” scriveva al Delegato di Governo in questa forma ed ortografia:

La sera del 25 stante verso le ore 9 Gesue Carducci, Maestro di Lettorica a questo liceo entrava colla sua solit'aria baldansosa nel Caffè di Giuseppe Micheletti di questa città ed ordinava al medesimo Micheletti un Ponce, che subito gli fu portato, ed egli prendendo il Bicchiere in mano diceva questo lo bevo alla Barba dei Signori Pecori di S. Miniato, a questa parola parte della Signoria che vi si trovava sortirono dal predetto Caffè ed il signor Dott. Giovanni Pazzini che volle in certa maniera riprenderlo fu dal Carducci quasi invitato ad una lotta come in essere di provarlo... (seguono i nomi dei testimoni)
Per cui questo Capoposto fa conoscere a V.S. Ill.ma quanto sopra, fa altresì osservare che quest'Individuo ogni qual volta passa d'accanto ad un'impiegato motteggia il medesimo o in lingua francese o in altri termini vessatori e segnatamente alla Polizia motivo per cui ne rimetto analogo rapporto per l'uso opportuno.
(Segue la firma)

Non le smargiassate antimanzoniane, ma fu veramente questo ponce principio e cagione de' guai che seguirono. Quel buon capoposto non avrebbe forse avuta mai l'occasione di rimettere analogo rapporto per far sapere ai superiori che il Carducci motteggiava gli impiegati “o in lingua francese o in altri termini vessatori” - parole che vado superbo di consegnare alla storia - , se l'occasione non glie l'avesse offerta la scenata del Caffé Micheletti, per la quale gli animi di buona parte de' paesani naturalmente si eccitarono e si inasprirono. Dirò fin d'ora che, appena si poté ristabilire com'erano andate le cose, fu subito chiaro che non c'era motivo di tanta agitazione; ma oramai quelle parole in bocca s'esagerava l'offesa. Si dové dunque procedere alle «opportune verificazioni» per ordine del Delegato Chiarini e del Sottoprefetto Manenti, subito tra il 26 e il 27 maggio. Ascoltiamo per esteso almeno una delle testimonianze, quella del caffettiere, che depose in buon toscano così:

Gli dirò come andò il fatto. Ieri l'altro sera sulle ore nove circa essendoci assai gente in bottega entrò il Maestro Giosuè Carducci con altri quattro o cinque e messosi a sedere disse a voce alta: - porta un ponce alla barba di questi pecoroni –. Sentito questo e rimasto maravigliato di tale ingiuria mi trattenni a portargli il ponce e allora a voce sempre alta tornò a gridare: – porta un poce alla barba di questi pecoroni di San Miniato –. Allora andai presso certo Luperini suo collega che era in sua compagnia pregandolo che lo levasse di bottega che era alterato forse per aver bevuto troppo e in questo frattempo molti se ne andarono sentendo queste ingiurie e poco dopo il Carducci fu condotto fuori di là da diversi suoi amici. Che anzi sebbene tutti stassero zitti si espresse: - se hanno da dir di me vengano a tavolino che li rendo soddisfazione. – Per quanto ho inteso dire pare che entrando il Carducci suddetto in bottega e parlando in francese qualcuno si mettesse a ridere, ma non potrei soggiungere nulla di preciso.

Sentiamone ancora un altro, che anch'egli era al Caffé:

Mi si misero accanto diversi fra i quali il Maestro Giosuè Carducci il quale parlava in francese e poi ragionava anche di filosofia e mi parve allegro secondo il suo solito ma non ubriaco.

Dimandato, questo stesso, se il Carducci pronunciasse altre parole, oltre quelle “alla barba dei pecoroni”, risponde di sì e afferma che disse su per giù: Se uno vuol soddisfazione nel discorrere venga qua a tavolino; se poi è un ignorante, basta una risata. Altri testi o confermano o non dicono di più: nessuno smentisce che le cose stiano come è accennato in queste ed altre testimonianze, cioè: 1) il Carducci entrò parlando in francese e con aria un po' (come dire?)... baldanzosa; 2) alcuni Samminiatesi che erano nel Caffé risero delle sue mosse e del francese; 3) il Carducci si impennò e pronunziò le famose parole; 4) non invitò nessuno quasi ad una lotta (come diceva il capoposto), ma ad una discussione con lui a tavolino, purché fosse persona da poterci discutere. E così, se non entravano in quistione altri fatti, tutto sarebbe finito in tre giorni, cioè col richiamo del Carducci davanti al Sottoprefetto, presso il quale egli si difese dichiarando, com'era infatti, che «la espressione imprudente di cui se gli fa carico era stata provocata dalle irrisioni di alcuni giovani che già trovavansi nel Caffé al suo arrivo, e non diretta in alcun modo alla ingiuria in genere dei Paesani». Son parole che hanno tutta l'aria d'essere testuali: il Sottoprefetto se ne contentò e nello stesso giorno (28 maggio) riferì al Prefetto di Firenze che «il richiamo sembrava aver prodotto una viva e salutare impressione» e che quanto ad altre accuse venute fuori avrebbero indagato. Il Prefetto, in data 31 maggio, riferì negli stessi termini al Ministro della istruzione, il quale rispose il 2 giugno dicendo che avrebbe aspettato il resultato delle nuove indagini, per provvedere se del caso (*).
Ecco dunque che, in seguito alla prima, sono sorte altre quistioni. Ce ne darà notizia il rapporto che il Delegato presentò al Sottoprefetto il 27, subito dopo le prime «verificazioni»; rapporto non troppo severo, quando si pensi che è scritto sotto le influenze di tutta una popolazione irritata e provocato da alcuno di quei testimoni che, chiamati per il fatto del Caffé, non s'erano saputi trattenere dall'estendere le loro accuse senza che nessuno ve li obbligasse. Ometto naturalmente la parte che riguarda il Caffé Micheletti, che è ormai quistione finita:

Il contegno che da qualche tempo tiene Giosuè Carducci Maestro di questo Liceo non è quello per certo che si addice ad un Individuo cui è affidata la pubblica istruzione.
Prescindendo dal sospetto che le sue facoltà mentali vadano soggette interpolatamente a qualche alterazione per effetto di malattia nervosa, portando ciò a ritenere lo stravagante suo incedere per le pubbliche vie, il suo modo ridicolo di tenere il cappello e la bieca sua guardatura, è un fatto incontrastabile che le sue imprudenze hanno generalmente indisposto i cittadini.
Detto Carducci apparisce anche indifferente in fatto di religione avendo talvolta commesse pubblicamente delle trasgressioni ai precetti della Chiesa e delle irriverenze nel Santuario che hanno destato, per il momento, dello scandalo nelle persone che le hanno avvertite.
Si racconta infatti che in un giorno del dicembre passato nella ricorrenza dell'anniversario della morte dello Spagliagrani, in cui ha luogo una solenne messa nella Cattedrale con intervento dei maestri del Ginnasio e loro alunni, il Carducci se ne stesse seduto in tutto il tempo della sacra funzione e non si alzasse neppure nell'atto della elevazione dell'Ostia e del Calice.... (seguono i nomi dei testimoni).
Un'altra volta dice che in giorno di vigilia si facesse vedere a mangiare del salame nella pubblica bottega di Luigi Maioli detto Bilagno.... (seguono i nomi dei testimoni).
Da tutto ciò si tira la conseguenza che il Carducci non possa instillare nei suoi Discepoli sane massime religiose.

Si dové procedere a nuove «verificazioni». Già nelle prime l'oste Bilagno aveva parlato del salame mangiato dal Carducci e dal Cristiani nella sua bottega in giorno di magro; ed aveva insistito nell'assicurare che era proprio giorno di magro con queste parole:

Me ne ricordo, perché avendomi ordinato delle bistecche andai dal macellaio con una scusa e non mi riuscì di averle.

Gli altri interrogati (1-5 giugno) confermano gli addebiti, ma non senza molte attenuanti. Si insiste dagli inquirenti per mettere in chiaro se quel giorno di magro era in quaresima o dopo Pasqua. Chi dice prima, chi dopo. La moglie di Bilagno assicura che fu dopo Pasqua. Questa buona donna somiglia, come si somigliano due gocce d'acqua, a quel famoso suo collega il quale a Renzo, troppo curioso, rispondeva che la sua osteria era «un porto di mare». Le domandano se può citare testimoni, che fu dopo Pasqua; e lei risponde: «Non mi rammento chi ci fosse; ma, saprà bene, essendo botteghe uno va e l'altro viene». Ma poi voglion sapere se lo scandalo fu grave; e lei, come se nulla fosse, dice che a quell'ora e in quella stagione ci doveva esser poca gente in bottega. Finalmente può anche dire, con sicurezza, che le bistecche furono chieste in altra occasione da altri, ma non dai due maestri. Che volete di più? Bilagno, anche questa volta, fu messo in sacco dalla moglie. Così la solita irresponsabile «voce pubblica» aveva accennato ad amorazzi: vengono i testimoni, gente savia e d'età, e tutto sfuma o si riduce a chiacchiere senza consistenza. Fa sorridere che più d'uno insista sul «modo di guardare» del Carducci; fa sorridere quanti l'abbiamo conosciuto e sappiamo che nella sua guardatura poteva trovar qualcosa di «bieco» o di «truce» soltanto chi non riusciva ad accorgersi che c'era invece molto tra l'ingenuo e lo spaurito. Tutto, insomma, si riduce a dire: son giovanotti troppo allegri, bevono volentieri, s'imbracano con altri che hanno meno giudizio di loro; e gli inquirenti non insistono, non malignano, non cercano di mettere nell'imbroglio i testimoni. Tra i quali disse tutto, in poche parole piene di buon senso, un bravo vecchio che merita di essere ricordato: Damiano Morali: Si conosce a primo aspetto che hanno più del ragazzo che dell'uomo.
Quando alle sacrileghe parole del Venerdì Santo nessuno ne domanda e nessuno vi accenna neppure indirettamente, come nessuno ricorda la «bergamascata» alla messa, ma soltanto l'essere rimasti sempre seduti, così il Cristiani come il Carducci, a quella per quel tal funerale.... di sei mesi prima! S'aggiunga, a correzione di quanto apparirebbe dalle «risorse», che il processo non fu contro il Carducci solo, ma anche contro il Cristiani. Sul conto del Luperini ci fu qualche lamento, ma nei rapporti non è mai nominato; e quando più tardi il Sottoprefetto è interrogato su lui, risponde (25 giugno) facendone elogi e assicurando che coi compagni pericolosi egli stava soltanto «quanto la convenienza esige».
Ma anche verso il Carducci e il Cristiani non tardò il Delegato Chiarini a mutar pensiero. Fin dal 31 maggio, dopo indagini fatte per conto suo, egli s'era accorto delle gonfiature e lo confessa. Prima della scenata al Caffé, egli scrive, i difetti del Carducci e del Cristiani sembravano piccoli nèi. Si diceva che alla messa il Carducci era rimasto seduto per distrazione: ora lo accusano d'empietà. Nessuno parlava, prima, del salame; ora se ne è voluto fare uno scandalo, e il Carducci «si propala per giovane irreligioso ed immorale, dedito all'ubriachezza ed al libertinaggio, gli si fa carico di mal contenersi nella scuola e nei luoghi pubblici, del suo modo ridicolo di camminare e di fissare le persone» ecc. Invece l'onesto Delegato s'è ormai convinto «che il Carducci ha peccato di leggerezza, d'imprudenza e se vuolsi anche d'indifferenza in materia di Religione»; ma che tutto il resto è esagerazione dettata da animosità. «Per quello poi – conclude – che ha rapporto al contegno che tengono nelle Scuole, l'egregio Direttore delle medesime, Sig. Can. Dott. Domenico Novelli, interrogato opportunamente, non ha potuto convenire che abbiano difettato sotto nessun rapporto, ed ha escluso in spece che il Caducci siasi permesso di fumare il sigaro in tempo della Lezione, come veniva asserito dalla pubblica voce».
Dello stesso tono è la relazione che di tutto questo, in data 12 giugno, il Sottoprefetto Manenti fa al Prefetto di Firenze. Prende le mosse del solito fatto del Caffé Micheletti, loda il Carducci di aver obbedito «al consiglio datogli di non recarvisi per qualche tempo», ripete le osservazioni del Delegato che le voci d'accusa si elevarono soltanto dopo quel fatto «a cui la straordinaria suscettibilità di alcuni ha dato una importanza e una portata maggiore del merito» e assicura che le assunte verificazioni «nulla somministrano in aggravio dei due Maestri circa alle loro massime morali e religiose e rispetto alla rettitudine dell'insegnamento». Ricorda poi quel poco che «può ritenersi sufficientemente provato» e che già conosciamo, e conclude così:

Se a ciò si aggiunga il difetto in loro di una certa dignità, assennatezza e compostezza di modi, e quanto al Carducci un carattere sommamente strano e maniere che hanno dello sprezzante e disgustano, null'altro di obiettabile ai medesimi dagli atti risulta. Giova però avvertire che ambedue hanno poco più di venti anni: sono di recente usciti dalla Scuola Normale di Pisa, e mancano di esperienza di mondo. Il Carducci gode estimazione di assai distinta capacità nelle Lettere Greche, Latine e Italiane.

Se si trattasse di semplici cittadini – continua quel valentuomo che ascoltava la messa «tutto in nero» nella prima panca – sarebbero mancanze e difetti «inosservabili governativamente». Ma anche trattandosi di Maestri,

e perciò basterà «un serio avvertimento per parte del Direttore o dei Deputati del Ginnasio».
Il Petri, Prefetto di Firenze, ricevuto questo rapporto, riferì il 20 giugno al Ministro dell'Istruzione in termini quasi identici, e forse anche più bonarii:

Rilevasi dalle verificazioni che tanto il Carducci quanto il Cristiani, giovani poco più che ventenni ecc., si sono abbandonati a quella giovanile baldanza e scapestrataggine che suole ordinariamente manifestarsi nei giovani che da poco tempo prosciolti dalle discipline di un Istituto di Educazione si trovano repentinamente e senza alcuna gradazione padroni di se stessi, ecc. ecc.

E il Ministro, che era Cosimo Buonarroti, tanto per parere di far qualcosa, rispose incaricando il Prefetto di richiamare, come si fa con gli scolari irrequieti ma non cattivi, il Carducci e il Cristiani,

ammonendoli severamente a tener d’ora innanzi una condotta del tutto regolare, quale si addice a chi sostiene il delicatissimo ufficio di pubblico Istitutore, e facendo loro sentire che in caso diverso sarebbero irremissibilmente privati del posto.

Così, in poco più d’un mese, tutto fu finito. Che il Carducci, disgustato perché persuaso di non meritare neppure il richiamo, rinunziasse per questo alla cattedra di San Miniato, è affermazione d’un documento che avrò occasione di ricordare, e può esser giusta. Ma, come vedremo anche in seguito, almeno per tutto il 57 né il Carducci né il Cristiani ebbero noie, forse neppur quella di presentarsi al Prefetto: se avessero dovuto piegarsi a quest’atto, il Carducci non avrebbe mancato di descriverci la curiosa scena. E gli inquisitori meritarono più tardi dal poeta, giudice in tale argomento non sospetto, l’attestazione d’onestà e di buon senso. Mi piacerebbe perciò di poter conchiudere narrando come il processo per accusa d’empietà finisse con un lieto simposio all’osteria di Bilagno, presenti il Sottoprefetto tutto in nero e l’onesto Delegato e anche quel bravo gendarme Capoposto; il quale, nella concordia di sentimenti davanti a un fiasco di buon Chianti, riconciliatosi col poeta, gli avrebbe senza dubbio perdonato i motteggi «in lingua francese o in altri termini vessatori». Ma di questo la storia non dice nulla.

II. La cattedra d’Arezzo e Fucci filologo
Il Carducci lasciò San Miniato alla fine di agosto del ’57, passò alcuni giorni in famiglia a Santa Maria a Monte, tornò a Firenze nella prima metà di settembre. A questo punto il Chiarini scrive nelle Memorie (cap. IV):

Lasciando San Miniato, il Carducci era deciso di non tornarvi, e perciò aveva concorso ad una cattedra nel Ginnasio municipale d’Arezzo. Vinse il concorso, e fu nominato: ma le accuse d’empietà e di liberalismo, che dalle autorità politiche di San Miniato erano giunte al Governo granducale contro il giovane insegnante, furono cagione che la nomina di lui non fosse approvata. Era allora impiegato al Ministero della Istruzione Pietro Fanfani, furibondo contro il Carducci e gli amici pedanti, che non gli avevano risparmiate e non gli risparmiavano critiche e canzonature.

In queste parole è qualcosa di troppo nella prima parte, di troppo poco nella seconda, dove una grave accusa contro il Fanfani è piuttosto accennata per chi vuole intendere che asserita. Le nostre filze ci aiuteranno anche qui a stabilire con sicurezza la verità….

Segue la narrazione dei fatti di Arezzo.



(*) Mi sia permesso osservare, qui in nota, che non ostante la complicazione dei rapporti tra le varie Autorità, in soli otto giorni si interrogano i testimoni e Capoposto, Delegato, Sottoprefetto, Prefetto, Ministro dell'Istruzione scrivono e rispondono dando piena «evasione pratica». Oggi, specialmente essendoci di mezzo il Ministro dell'istruzione, benché gli impiegati sian cresciuti la ragione del quadrato delle «pratiche» non basterebbero otto mesi.

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