a
cura di Francesco Fiumalbi
INTRODUZIONE
Il
primo a parlare di «processo» fu lo stesso Carducci ne Le
“risorse” di San
Miniato al Tedesco in
Confessioni e battaglie
(1° edizione 1883), per
descrivere la situazione “surreale” venutasi a creare durante la
sua permanenza a San Miniato, dato l'incarico di insegnante di
Rettorica presso il Ginnasio nell'anno scolastico 1856-57.
Le
argute parole carducciane non devono trarre in inganno: benché le
circostanze coinvolgessero il Sottoprefetto di San Miniato Luigi
Manenti, il Prefetto di Firenze Comm. Petri, vari funzionari di
polizia e pubblica sicurezza, oltre all’allora Ministro
dell’istruzione Pietro
Fanfani, non
si trattò di un “processo penale”, nell’accezione moderna del
termine processo.
Fu piuttosto una serie di fatti, atti e operazioni propri di una
“indagine”, che tuttavia non determinò nemmeno un richiamo
disciplinare vero e proprio.
Una
simpatica rielaborazione di una immagine
raffigurante
il giovane Giosuè Carducci
A
dire la verità, le accuse che furono mosse al Carducci non erano da
considerarsi di particolare gravità o di pericolo per l'ordine
pubblico in generale. Il nodo della questione è che egli non era un
comune cittadino, bensì un insegnante, e a chi svolgeva tale compito
era richiesta non solo una preparazione disciplinare, ma anche una
irreprensibile condotta morale, essendo una figura d'esempio per gli
studenti. Ecco il motivo per cui, oltre alle autorità
politico-governative sanminiatesi (Sotto-prefetto, il Delegato e il
Capo-posto), si interessò della vicenda anche il Ministero dell'Istruzione dell'allora
Granducato di Toscana. Un maestro o professore che non avesse
mantenuto una condotta esemplare poteva essere ritenuto inidoneo
all'insegnamento e quindi gli poteva essere revocato il Diploma di
Magistero.
Cosa
era successo? Cosa aveva combinato il giovane Giosué Carducci di
tanto grave per essere sottoposto ad indagine?
Tutta
la vicenda fu ricostruita dal filologo e scrittore Ermenegildo
Pistelli
[Camaiore, 15 febbraio 1862 – Firenze, 14 gennaio 1927] sulle
pagine de «Il Marzocco» nel 1908 – il cui testo è proposto di
seguito – salvo poi ripubblicare il medesimo articolo nella più
ampia raccolta Profili e
caratteri, G. C. Sansoni
Editore, Firenze, 1921, pp. 31-53.
Trascrizione
del testo E. Pintelli, Il
Carducci e il Governo Toscano. Da documenti d'Archivio inediti,
1856-58, in «Il
Marzocco», anno XIII, n. 36 del 6 settembre 1908, Firenze, 1908, p.
1:
IL
CARDUCCI E IL GOVERNO TOSCANO
Da
documenti d'Archivio inediti, 1856-58
I.
Il «processo» di San Miniato.
Tutti
hanno letto “Le «risorse» di San Miniato al Tedesco” e perciò
tutti sanno che l'anno scolastico 1856-57 è per più ragioni
memorabile nella vita del Carducci. Memorabile perché fu il primo
del suo insegnamento, perché la spensieratezza giovanile gli fece
correre qualche pericolo e perché illudendosi di trarne tanto da
saldare i debiti con l'oste e il caffettiere – debiti assai
giustificati dallo stipendio di 77 lire codine al mese – egli
s'indusse a pubblicare a San Miniato il suo primo volumetto di Rime
(luglio 1857). Tutte cose ormai notissime, anche per quel che ne ha
scritto Giuseppe Chiarini nelle Memorie. Per il mio scopo basti
ricordare che il Carducci, nelle bellissime pagine sopra ricordate,
descrivendo la vita sua e de' suoi colleghi Pietro Luperini, «il più
positivo» dei tre, e Ferdinando Cristiani, racconta che si trovavano
spesso con «una brigata di giovanotti, piccoli possidenti e dottori
novelli, che passavano tutte le sante giornate» a mangiare, bere e
divertirsi. Nella “casa dei maestri”, dove i tre facevan vita
comune, «ci si sentiva, pur troppo, di notte e di giorno, ogni qual
volta, ed era spesso, l'allegra compagnia la invadesse»:
Ave
color vini clari.
Ave
sapor sine pari!
Tua
nos inebriari
Digneris
potentia!
«Tali
erano – continua – se non le parole, il senso e il significato di
quelli strepiti, e le invocazioni e le antifone di quei misteri, che
non di rado erano pure celebrati in pubblico nel caffé Micheletti, o
in una osteriuccia a pié del colle su la strada provinciale»
Peggio,
qualche volta andavano alla messa e ci stavano con poco rigetto. Una
di quelle messe al poeta era in memoria «per la lieta illustrazione
di certi quadri o affreschi, che il capo più ameno della brigata
recitava menandolo in giro per le navate, in istil bergamasco..., con
un sistema critico di perpetua comparazione tra la figura di san
Giuseppe e quella del sotto-prefetto, che, tutto in nero, ascoltava
il divino ufficio nella prima panca».
Afferma
il Carducci che da tutto questo si formò contro di lui «una
leggenda d'empietà e di feroce misocristismo» tanto che prese
credito la voce calunniosa che egli, il Venerdì Santo del '57, fosse
sceso da San Miniato alla taverna del piano e all'oste sbigottito
avesse intimato, con bestemmie sacrileghe, di portargli cibi di
grasso. Fu perciò «avviato un processo» contro di lui; e «un
processo di tal materia e in quegli anni in Toscana poteva menar
lontani. Per fortuna che del '57 anche c'era in Toscana, pur
all'ombra della cappamagna di santo Stefano, del buon senso parecchio
e dell'onestà».
Tutto
dunque finì bene, ma noi restiamo con la voglia di qualche
particolare su questo processo. A me è accaduto di potermi levar
questa voglia, che avevo da un pezzo, mentre, per isbattere la
malinconia di queste vacanze, frugavo – con le debite licenze –
tra le filze del nostro Archivio di Stato, dove è, per chi la sa
intendere e sentire, tanta più poesia che nelle opere o nelle
chiacchiere estetiche di tanti artisti incompresi o, peggio, critici
d'arte creati ex nihilo. Le «risorse» sono pagine d'arte di
mirabile evidenza: eppure in quelle filze vidi e conobbi il Carducci
a ventun anno con evidenza anche maggiore, perché mi dicevano come
fosse accolto e giudicato nel primo paese dove insegnò e me ne
mostravano la figura, già fin da allora fuori dal comune anche nei
difetti, disegnata da testimoni che, non supponendo di parlare per i
posteri, erano naturalmente più sinceri. Comunque sia, certo ne
risultava un quadretto non privo d'interesse della vita d'una piccola
città toscana di cinquant'anni fa, e del carattere, in fondo così
bonario, benché fossimo già al '57, dei rappresentanti di quel
Governo morituro; insomma, quasi un commento e un complemento alle
«risorse». Spero dunque che non parranno inutili le notizie che mi
induco a pubblicare; anzi confido che i lettori me ne saranno grati,
non foss'altro per la bella pagina inedita che offrirò loro dopo
aver narrato del processo e d'altro, “pour la bonne bouche”, o...
per ammenda.
***
Non
si trattò propriamente d'un “processo per accusa d'empietà”,
come dice con qualche esagerazione il Chiarini nelle “Memorie”
(sommario del cap. III) e come potrebbe far credere il Carducci
stesso con le parole “un processo di tal materia”. Le indagini
politico-giudiziarie ebbero due periodi, e il secondo non s'intende
bene senza conoscere il primo, sin qui del tutto ignoto. Dice il
Carducci che “prima mali labes” furono la «bergamascata» in
chiesa e le «smargiasserie di antimazonianismo». Ma la spinta al
movimento anticarducciano dei Samminiatesi non poteva venire soltanto
da questi motivi, dirò così, troppo ideali. Anche a questi si
ricorse, ma più tardi, e soltanto per trovar pretesti a piegare le
ingiuste antipatie contro il giovine professore e poeta.
Il
26 maggio 1857 da “picchetto” della I. e R. Gendarmeria di San
Miniato il gendarme “capoposto” scriveva al Delegato di Governo
in questa forma ed ortografia:
La
sera del 25 stante verso le ore 9 Gesue Carducci, Maestro di
Lettorica a questo liceo entrava colla sua solit'aria baldansosa nel
Caffè di Giuseppe Micheletti di questa città ed ordinava al
medesimo Micheletti un Ponce, che subito gli fu portato, ed egli
prendendo il Bicchiere in mano diceva questo
lo bevo alla Barba dei Signori Pecori di S. Miniato,
a questa parola parte della Signoria che vi si trovava sortirono dal
predetto Caffè ed il signor Dott. Giovanni Pazzini che volle in
certa maniera riprenderlo fu dal Carducci quasi invitato ad una lotta
come in essere di provarlo... (seguono
i nomi dei testimoni)
Per
cui questo Capoposto fa conoscere a V.S. Ill.ma quanto sopra, fa
altresì osservare che quest'Individuo ogni qual volta passa
d'accanto ad un'impiegato motteggia il medesimo o in lingua francese
o in altri termini vessatori e segnatamente alla Polizia motivo per
cui ne rimetto analogo rapporto per l'uso opportuno.
(Segue
la firma)
Non
le smargiassate antimanzoniane, ma fu veramente questo ponce
principio e cagione de' guai che seguirono. Quel buon capoposto non
avrebbe forse avuta mai l'occasione di rimettere analogo rapporto per
far sapere ai superiori che il Carducci motteggiava gli impiegati “o
in lingua francese o in altri termini vessatori” - parole che vado
superbo di consegnare alla storia - , se l'occasione non glie
l'avesse offerta la scenata del Caffé Micheletti, per la quale gli
animi di buona parte de' paesani naturalmente si eccitarono e si
inasprirono. Dirò fin d'ora che, appena si poté ristabilire
com'erano andate le cose, fu subito chiaro che non c'era motivo di
tanta agitazione; ma oramai quelle parole in bocca s'esagerava
l'offesa. Si dové dunque procedere alle «opportune verificazioni»
per ordine del Delegato Chiarini e del Sottoprefetto Manenti, subito
tra il 26 e il 27 maggio. Ascoltiamo per esteso almeno una delle
testimonianze, quella del caffettiere, che depose in buon toscano
così:
Gli
dirò come andò il fatto. Ieri l'altro sera sulle ore nove circa
essendoci assai gente in bottega entrò il Maestro Giosuè Carducci
con altri quattro o cinque e messosi a sedere disse a voce alta: -
porta un ponce alla barba di questi pecoroni –. Sentito questo e
rimasto maravigliato di tale ingiuria mi trattenni a portargli il
ponce e allora a voce sempre alta tornò a gridare: – porta un poce
alla barba di questi pecoroni di San Miniato –. Allora andai presso
certo Luperini suo collega che era in sua compagnia pregandolo che lo
levasse di bottega che era alterato forse per aver bevuto troppo e in
questo frattempo molti se ne andarono sentendo queste ingiurie e poco
dopo il Carducci fu condotto fuori di là da diversi suoi amici. Che
anzi sebbene tutti stassero zitti si espresse: - se hanno da dir di
me vengano a tavolino che li rendo soddisfazione. – Per quanto ho
inteso dire pare che entrando il Carducci suddetto in bottega e
parlando in francese qualcuno si mettesse a ridere, ma non potrei
soggiungere nulla di preciso.
Sentiamone
ancora un altro, che anch'egli era al Caffé:
Mi
si misero accanto diversi fra i quali il Maestro Giosuè Carducci il
quale parlava in francese e poi ragionava anche di filosofia e mi
parve allegro secondo il suo solito ma non ubriaco.
Dimandato,
questo stesso, se il Carducci pronunciasse altre parole, oltre quelle
“alla barba dei pecoroni”, risponde di sì e afferma che disse su
per giù: – Se
uno vuol soddisfazione nel discorrere venga qua a tavolino; se poi è
un ignorante, basta una risata. –
Altri testi o confermano o
non dicono di più: nessuno smentisce che le cose stiano come è
accennato in queste ed altre testimonianze, cioè: 1) il Carducci
entrò parlando in francese e con aria un po' (come dire?)...
baldanzosa; 2) alcuni Samminiatesi che erano nel Caffé risero delle
sue mosse e del francese; 3) il Carducci si impennò e pronunziò le
famose parole; 4) non invitò nessuno quasi ad una lotta (come diceva
il capoposto), ma ad una discussione con lui a tavolino, purché
fosse persona da poterci discutere. E così, se non entravano in
quistione altri fatti, tutto sarebbe finito in tre giorni, cioè col
richiamo del Carducci davanti al Sottoprefetto, presso il quale egli
si difese dichiarando, com'era infatti, che «la espressione
imprudente di cui se gli fa carico era stata provocata dalle
irrisioni di alcuni giovani che già trovavansi nel Caffé al suo
arrivo, e non diretta in alcun modo alla ingiuria in genere dei
Paesani». Son parole che hanno tutta l'aria d'essere testuali: il
Sottoprefetto se ne contentò e nello stesso giorno (28 maggio)
riferì al Prefetto di Firenze che «il richiamo sembrava aver
prodotto una viva e salutare impressione» e che quanto ad altre
accuse venute fuori avrebbero indagato. Il Prefetto, in data 31
maggio, riferì negli stessi termini al Ministro della istruzione, il
quale rispose il 2 giugno dicendo che avrebbe aspettato il resultato
delle nuove indagini, per provvedere se del caso (*).
Ecco
dunque che, in seguito alla prima, sono sorte altre quistioni. Ce ne
darà notizia il rapporto che il Delegato presentò al Sottoprefetto
il 27, subito dopo le prime «verificazioni»; rapporto non troppo
severo, quando si pensi che è scritto sotto le influenze di tutta
una popolazione irritata e provocato da alcuno di quei testimoni che,
chiamati per il fatto del Caffé, non s'erano saputi trattenere
dall'estendere le loro accuse senza che nessuno ve li obbligasse.
Ometto naturalmente la parte che riguarda il Caffé Micheletti, che è
ormai quistione finita:
Il
contegno che da qualche tempo tiene Giosuè Carducci Maestro di
questo Liceo non è quello per certo che si addice ad un Individuo
cui è affidata la pubblica istruzione.
Prescindendo
dal sospetto che le sue facoltà mentali vadano soggette
interpolatamente a qualche alterazione per effetto di malattia
nervosa, portando ciò a ritenere lo stravagante suo incedere per le
pubbliche vie, il suo modo ridicolo di tenere il cappello e la bieca
sua guardatura, è un fatto incontrastabile che le sue imprudenze
hanno generalmente indisposto i cittadini.
Detto
Carducci apparisce anche indifferente in fatto di religione avendo
talvolta commesse pubblicamente delle trasgressioni ai precetti della
Chiesa e delle irriverenze nel Santuario che hanno destato, per il
momento, dello scandalo nelle persone che le hanno avvertite.
Si
racconta infatti che in un giorno del dicembre passato nella
ricorrenza dell'anniversario della morte dello Spagliagrani, in cui
ha luogo una solenne messa nella Cattedrale con intervento dei
maestri del Ginnasio e loro alunni, il Carducci se ne stesse seduto
in tutto il tempo della sacra funzione e non si alzasse neppure
nell'atto della elevazione dell'Ostia e del Calice.... (seguono
i nomi dei testimoni).
Un'altra
volta dice che in giorno di vigilia si facesse vedere a mangiare del
salame nella pubblica bottega di Luigi Maioli detto Bilagno....
(seguono i nomi dei
testimoni).
Da
tutto ciò si tira la conseguenza che il Carducci non possa
instillare nei suoi Discepoli sane massime religiose.
Si
dové procedere a nuove «verificazioni». Già nelle prime l'oste
Bilagno aveva parlato del salame mangiato dal Carducci e dal
Cristiani nella sua bottega in giorno di magro; ed aveva insistito
nell'assicurare che era proprio giorno di magro con queste parole:
Me
ne ricordo, perché avendomi ordinato delle bistecche andai dal
macellaio con una scusa e non mi riuscì di averle.
Gli
altri interrogati (1-5 giugno) confermano gli addebiti, ma non senza
molte attenuanti. Si insiste dagli inquirenti per mettere in chiaro
se quel giorno di magro era in quaresima o dopo Pasqua. Chi dice
prima, chi dopo. La moglie di Bilagno assicura che fu dopo Pasqua.
Questa buona donna somiglia, come si somigliano due gocce d'acqua, a
quel famoso suo collega il quale a Renzo, troppo curioso, rispondeva
che la sua osteria era «un porto di mare». Le domandano se può
citare testimoni, che fu dopo Pasqua; e lei risponde: –
«Non mi rammento chi ci
fosse; ma, saprà bene, essendo botteghe uno va e l'altro viene». –
Ma poi voglion sapere se
lo scandalo fu grave; e lei, come se nulla fosse, dice che a
quell'ora e in quella stagione ci doveva esser poca gente in bottega.
Finalmente può anche dire, con sicurezza, che le bistecche furono
chieste in altra occasione da altri, ma non dai due maestri. Che
volete di più? Bilagno, anche questa volta, fu messo in sacco dalla
moglie. Così la solita irresponsabile «voce pubblica» aveva
accennato ad amorazzi: vengono i testimoni, gente savia e d'età, e
tutto sfuma o si riduce a chiacchiere senza consistenza. Fa sorridere
che più d'uno insista sul «modo di guardare» del Carducci; fa
sorridere quanti l'abbiamo conosciuto e sappiamo che nella sua
guardatura poteva trovar qualcosa di «bieco» o di «truce»
soltanto chi non riusciva ad accorgersi che c'era invece molto tra
l'ingenuo e lo spaurito. Tutto, insomma, si riduce a dire: son
giovanotti troppo allegri, bevono volentieri, s'imbracano con altri
che hanno meno giudizio di loro; e gli inquirenti non insistono, non
malignano, non cercano di mettere nell'imbroglio i testimoni. Tra i
quali disse tutto, in poche parole piene di buon senso, un bravo
vecchio che merita di essere ricordato: Damiano Morali: Si conosce a
primo aspetto che hanno più del ragazzo che dell'uomo.
Quando
alle sacrileghe parole del Venerdì Santo nessuno ne domanda e
nessuno vi accenna neppure indirettamente, come nessuno ricorda la
«bergamascata» alla messa, ma soltanto l'essere rimasti sempre
seduti, così il Cristiani come il Carducci, a quella per quel tal
funerale.... di sei mesi prima! S'aggiunga, a correzione di quanto
apparirebbe dalle «risorse», che il processo non fu contro il
Carducci solo, ma anche contro il Cristiani. Sul conto del Luperini
ci fu qualche lamento, ma nei rapporti non è mai nominato; e quando
più tardi il Sottoprefetto è interrogato su lui, risponde (25
giugno) facendone elogi e assicurando che coi compagni pericolosi
egli stava soltanto «quanto la convenienza esige».
Ma
anche verso il Carducci e il Cristiani non tardò il Delegato
Chiarini a mutar pensiero. Fin dal 31 maggio, dopo indagini fatte per
conto suo, egli s'era accorto delle gonfiature e lo confessa. Prima
della scenata al Caffé, egli scrive, i difetti del Carducci e del
Cristiani sembravano piccoli nèi. Si diceva che alla messa il
Carducci era rimasto seduto per distrazione: ora lo accusano
d'empietà. Nessuno parlava, prima, del salame; ora se ne è voluto
fare uno scandalo, e il Carducci «si propala per giovane irreligioso
ed immorale, dedito all'ubriachezza ed al libertinaggio, gli si fa
carico di mal contenersi nella scuola e nei luoghi pubblici, del suo
modo ridicolo di camminare e di fissare le persone» ecc. Invece
l'onesto Delegato s'è ormai convinto «che il Carducci ha peccato di
leggerezza, d'imprudenza e se vuolsi anche d'indifferenza in materia
di Religione»; ma che tutto il resto è esagerazione dettata da
animosità. «Per quello poi – conclude – che ha rapporto al
contegno che tengono nelle Scuole, l'egregio Direttore delle
medesime, Sig. Can. Dott. Domenico Novelli, interrogato
opportunamente, non ha potuto convenire che abbiano difettato sotto
nessun rapporto, ed ha escluso in spece che il Caducci siasi permesso
di fumare il sigaro in tempo della Lezione, come veniva asserito
dalla pubblica voce».
Dello
stesso tono è la relazione che di tutto questo, in data 12 giugno,
il Sottoprefetto Manenti fa al Prefetto di Firenze. Prende le mosse
del solito fatto del Caffé Micheletti, loda il Carducci di aver
obbedito «al consiglio datogli di non recarvisi per qualche tempo»,
ripete le osservazioni del Delegato che le voci d'accusa si elevarono
soltanto dopo quel fatto «a cui la straordinaria suscettibilità di
alcuni ha dato una importanza e una portata maggiore del merito» e
assicura che le assunte verificazioni «nulla somministrano in
aggravio dei due Maestri circa alle loro massime morali e religiose e
rispetto alla rettitudine dell'insegnamento». Ricorda poi quel poco
che «può ritenersi sufficientemente provato» e che già
conosciamo, e conclude così:
Se
a ciò si aggiunga il difetto in loro di una certa dignità,
assennatezza e compostezza di modi, e quanto al Carducci un carattere
sommamente strano e maniere che hanno dello sprezzante e disgustano,
null'altro di obiettabile ai medesimi dagli atti risulta. Giova però
avvertire che ambedue hanno poco più di venti anni: sono di recente
usciti dalla Scuola Normale di Pisa, e mancano di esperienza di
mondo. Il Carducci gode estimazione di assai distinta capacità nelle
Lettere Greche, Latine e Italiane.
Se
si trattasse di semplici cittadini – continua
quel valentuomo che
ascoltava la messa «tutto in nero» nella prima panca –
sarebbero mancanze e difetti «inosservabili governativamente». Ma
anche trattandosi di Maestri,
e
perciò basterà «un serio avvertimento per parte del Direttore o
dei Deputati del Ginnasio».
Il
Petri, Prefetto di Firenze, ricevuto questo rapporto, riferì il 20
giugno al Ministro dell'Istruzione in termini quasi identici, e forse
anche più bonarii:
Rilevasi
dalle verificazioni che tanto il Carducci quanto il Cristiani,
giovani poco più che ventenni ecc., si sono abbandonati a quella
giovanile baldanza e scapestrataggine che suole ordinariamente
manifestarsi nei giovani che da poco tempo prosciolti dalle
discipline di un Istituto di Educazione si trovano repentinamente e
senza alcuna gradazione padroni di se stessi, ecc. ecc.
E
il Ministro, che era Cosimo Buonarroti, tanto per parere di far
qualcosa, rispose incaricando il Prefetto di richiamare, come si fa
con gli scolari irrequieti ma non cattivi, il Carducci e il
Cristiani,
ammonendoli
severamente a tener d’ora innanzi una condotta del tutto regolare,
quale si addice a chi sostiene il delicatissimo ufficio di pubblico
Istitutore, e facendo loro sentire che in caso diverso sarebbero
irremissibilmente privati del posto.
Così,
in poco più d’un mese, tutto fu finito. Che il Carducci,
disgustato perché persuaso di non meritare neppure il richiamo,
rinunziasse per questo alla cattedra di San Miniato, è affermazione
d’un documento che avrò occasione di ricordare, e può esser
giusta. Ma, come vedremo anche in seguito, almeno per tutto il 57 né
il Carducci né il Cristiani ebbero noie, forse neppur quella di
presentarsi al Prefetto: se avessero dovuto piegarsi a quest’atto,
il Carducci non avrebbe mancato di descriverci la curiosa scena. E
gli inquisitori meritarono più tardi dal poeta, giudice in tale
argomento non sospetto, l’attestazione d’onestà e di buon senso.
Mi piacerebbe perciò di poter conchiudere narrando come il processo
per accusa d’empietà finisse con un lieto simposio all’osteria
di Bilagno, presenti il Sottoprefetto tutto in nero e l’onesto
Delegato e anche quel bravo gendarme Capoposto; il quale, nella
concordia di sentimenti davanti a un fiasco di buon Chianti,
riconciliatosi col poeta, gli avrebbe senza dubbio perdonato i
motteggi «in lingua francese o in altri termini vessatori». Ma di
questo la storia non dice nulla.
II.
La cattedra d’Arezzo e Fucci filologo
Il
Carducci lasciò San Miniato alla fine di agosto del ’57, passò
alcuni giorni in famiglia a Santa Maria a Monte, tornò a Firenze
nella prima metà di settembre. A questo punto il Chiarini scrive
nelle Memorie (cap. IV):
Lasciando
San Miniato, il Carducci era deciso di non tornarvi, e perciò aveva
concorso ad una cattedra nel Ginnasio municipale d’Arezzo. Vinse il
concorso, e fu nominato: ma le accuse d’empietà e di liberalismo,
che dalle autorità politiche di San Miniato erano giunte al Governo
granducale contro il giovane insegnante, furono cagione che la nomina
di lui non fosse approvata. Era allora impiegato al Ministero della
Istruzione Pietro Fanfani, furibondo contro il Carducci e gli amici
pedanti, che non gli avevano risparmiate e non gli risparmiavano
critiche e canzonature.
In
queste parole è qualcosa di troppo nella prima parte, di troppo poco
nella seconda, dove una grave accusa contro il Fanfani è piuttosto
accennata per chi vuole intendere che asserita. Le nostre filze ci
aiuteranno anche qui a stabilire con sicurezza la verità….
Segue
la narrazione dei fatti di Arezzo.
(*)
Mi sia permesso osservare,
qui in nota, che non ostante la complicazione dei rapporti tra le
varie Autorità, in soli otto giorni si interrogano i testimoni e
Capoposto, Delegato, Sottoprefetto, Prefetto, Ministro
dell'Istruzione scrivono e rispondono dando piena «evasione
pratica». Oggi, specialmente essendoci di mezzo il Ministro
dell'istruzione, benché gli impiegati sian cresciuti la ragione del
quadrato delle «pratiche» non basterebbero otto mesi.
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