di Giancarlo Pertici
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↖ RACCONTI DALLO SCIOA
AMEDEO GASPARRI, in arte CIONCE, il poeta del duro di menta.
Quel carretto dei Gelati, quella specie di triciclo, lo si sentiva arrivare anche da lontano. Si annunciava con un cigolio, che sembrava più un “lamento”. Tutto dipendeva dal carico che gravava sulle ruote anteriori e su quell'unico pernio su cui ruotava il cassone, che fungeva da manubrio, a rendere anche difficilmente manovrabile quel “carretto” a tre ruote. Il suo procedere era sempre a passo d'uomo, il più delle volte a spinta, a superare salite e pendii di cui San Miniato era ed è fatta. E Cionce non si arrendeva mai, e mai si perdeva d'animo di fronte alle solite asperità. E quei “fegatini”, come lui chiamava i bambini, che gli davano una mano, una spinta in salita... lui li conosceva anche per nome o quasi. Se non se ne ricordava il nome sapeva spesso che era figlio di… o nipote di… – "Vieni fegatino! Quante volte anche il tuo zio Barnaghino, il più piccino dei Brucci, mi ha aiutato a spingere il carretto proprio in questa salita fino lassù al magazzino, in cima a Sant’Andrea, …già prima della guerra. E tu gli somigli, si vede che sei un Brucci! Forza spingi!" – Quante volte me lo ha detto Cionce! Gli piaceva ricordarmelo, e gioiva nel farne memoria.
↖ RACCONTI DALLO SCIOA
AMEDEO GASPARRI, in arte CIONCE, il poeta del duro di menta.
Quel carretto dei Gelati, quella specie di triciclo, lo si sentiva arrivare anche da lontano. Si annunciava con un cigolio, che sembrava più un “lamento”. Tutto dipendeva dal carico che gravava sulle ruote anteriori e su quell'unico pernio su cui ruotava il cassone, che fungeva da manubrio, a rendere anche difficilmente manovrabile quel “carretto” a tre ruote. Il suo procedere era sempre a passo d'uomo, il più delle volte a spinta, a superare salite e pendii di cui San Miniato era ed è fatta. E Cionce non si arrendeva mai, e mai si perdeva d'animo di fronte alle solite asperità. E quei “fegatini”, come lui chiamava i bambini, che gli davano una mano, una spinta in salita... lui li conosceva anche per nome o quasi. Se non se ne ricordava il nome sapeva spesso che era figlio di… o nipote di… – "Vieni fegatino! Quante volte anche il tuo zio Barnaghino, il più piccino dei Brucci, mi ha aiutato a spingere il carretto proprio in questa salita fino lassù al magazzino, in cima a Sant’Andrea, …già prima della guerra. E tu gli somigli, si vede che sei un Brucci! Forza spingi!" – Quante volte me lo ha detto Cionce! Gli piaceva ricordarmelo, e gioiva nel farne memoria.
E
lassù davanti a quel magazzino, se ci passavi la sera, ora del
croccante e del duro di menta, l'avvertivi nell'aria, quando
fragranza dolce e tiepida, quando odore pungente, il laboratorio di
Cionce, a farti soffermare, anche solo un attimo, quasi ad assaporare
gratis, appena raffreddato il croccante, o il “Duro di menta”.
Per quei bambini di Sant'Andrea, immancabile l'assaggio gratis. Noi
bambini di Santa Caterina invece, lo si aspettava in piazza con un
occhio rivolto verso Pancole per vederlo arrivare, ogni pomeriggio
verso le quattro. Talvolta percorrevamo a tappe quel breve tragitto
iniziando da Piazza de' Polli. Lo si vedeva sostare davanti al
Ricovero, confabulare con qualche vecchietto, una o due monache,
attorno al carretto, per qualche duro di menta, qualche liquirizia o
delle caramelle al rabarbaro, in inverno. In estate era sempre in
ritardo; Topolino e Paperino dipinti a colori sulla pannellatura del
carretto smaltato di bianco; limitata la scelta, o cono o
“schiacciola” il gelato. Questione di spesa!
Ma
non è questo l'unico ricordo che conservo di Cionce. Uno dei primi
va a quella mattina di ottobre di tanti anni fa. Primi anni '50,
comincia la scuola. Mattina presto e mia mamma che mi sveglia con
caffè nero e pane abbrustolito a colazione. Una passata al viso, una
sgromata come dice lei, che sono ancora assonnato. Il sapone fin
dentro gli occhi. Una sciacquata da quella catinella posata lì su
quell'acquaio di pietra, l'unico di casa. E via verso la scuola.
Passando davanti alla Piazzetta di Santo Stefano, dove mi ritrovo
insieme a tanti, ma tanti bambini, anche più grandi di me. Tanti
quanti non ne avevo mai visti prima. E' come un nugolo che converge
nello stesso punto, quasi sull'uscio di scuola. Si muove ad ondate,
alza le mani, grida, spinge, fa il giro, ritorna. È un ricambio
turbinoso che a tratti lascia intravedere, là nel mezzo, prigioniero
sorridente, un Omone che mi sembra di conoscere. Tra i bambini anche
Anna, Antonietta, Rosaria, vicine di casa, anche loro a scuola per la
prima volta mentre suona una campanella: tono insistito, suono
prolungato. Come si alza in volo uno sciame d'api dall'alveare e uno
stormo di storni da una pianta di olivo ...quel nugolo assiepato, in
movimento, come onda anomala, sembra riunirsi, aggirare l'ostacolo ed
incanalarsi compatto nella stessa direzione, infilare l'uscio di
scuola, fino a far emergere, come dalla nebbia, all'improvviso… il
carretto di Cionce. Lui sorridente a badare i “resti” e in tempo
a darmi un panino con lo zibibbo. - "Tieni fegatino è caldo
caldo" – e sono già dentro anch'io.
È
il mio primo incontro con Cionce davanti alla scuola. Meraviglia!
Stupore! Io che credevo che il suo posto fosse là, in piazza
dell’Ospedale, a vendere gelati o duri di menta. Imparo a non
sorprendermi quando Cionce lo incontro anche al Cinema. Con mia
cugina Ginina mi soffermo sempre lì, al suo banco piazzato sotto i
chiostri, in attesa che Antonio, il padrone, venga ad aprire il
Cinema. Facciamo il conto dei soldi. Cinquanta lire per l’ingresso,
il resto in liquirizia, caramelle, duri di menta. Calcoli a volte
difficili per i quali Cionce ci viene spesso incontro - "Vieni
fegatino fammi vedere quanto c'hai!" – C’è quasi sempre una
caramella in più ed è gratis. Tra il primo e secondo tempo,
cassetta appesa al collo, con dentro un po’ di tutto, lo senti
Cionce. È quasi un proclama, colonna sonora comune a tante
generazioni, quando si annuncia - "Duridimentaaa Croccanti
allamandorlaaa" – a proferire semi, liquirizie, “cingomme”,
caramelle, noccioline. La voce impostata, toni alti, nota tenuta e
prolungata, come ritornello di una canzone di quei tempi. Appena
grandicello da andare a scuola da solo e anche fin “di là” al
Cinema, imparo a riconoscerlo ovunque per strada. Sul Piazzale quando
inizia la Fiera. Per la festa della Divina Pastora, processione
compresa. In estate a fare granite durante le feste patronali e la
mattina, ad attendere l'uscita delle messe, quale servizio di
ristoro, quando per fare la comunione bisognava essere digiuni dalla
sera avanti.
Presenza
costante la sua, che come tale resta ancor oggi nei ricordi di molti,
come in mia nonna Livia che me ne parla quale “Gigante Buono e
bianco come la panna” sempre da qualche parte in San Miniato.
Ricordi che si fanno modi di dire, se non addirittura proverbi, come
per bocca di quella mamma che davanti ai piedi in crescita del
figlio, e alla mancanza di soldi per ricomprargli le scarpe, esclama
– "Oh che c'hai i piedi di Cionce?" – Modi di dire che
testimoniano delle misure esagerate di mani, piedi e testa. E così
se lo ricorda anche Stefano, suo nipote, nei racconti dello stesso
nonno Amedeo, questo il suo nome di battesimo, il quale, quando fece
il militare non trovò né scarponi, né elmetto della sua misura.
Lui infatti le scarpe se le faceva fare su misura da un calzolaio
dell'Isola. Ma della stessa dimensione doveva essere anche il suo
cuore, sempre attento e sensibile verso i bambini, i più deboli. Non
riusciva a trovare parole di condanna o di critica per nessuno.
Riconosceva sempre a tutti la buona fede e il beneficio del dubbio.
Trovava il modo di giustificare chi magari gli faceva un torto, come
quando a scuola, la bidella, Elvezia cominciò a fargli sleale
concorrenza mettendosi a vendere panini. Un po' come Padre Pio –
"Devono mangiare pure loro!" – che trovava il modo di
giustificare anche coloro che si introducevano in chiesa a vendere
santini ed accendini. Diceva Bartali, il famoso corridore – "Le
Buone azioni si attaccano all'anima, non alla giacchetta" – E
Cionce evitava il clamore nelle sue azioni, salvo doverne rendere
testimonianza al nipotino Stefano, quinta elementare, il quale
chiedeva spiegazioni del suo agire. Perché Cionce ragionava a modo
suo, secondo una scala di valori comune a pochi, a pochissimi, a
quella schiera di persone speciali che sanno segnare un'epoca, sanno
tracciare una strada, preoccupato solo del “bene”, comunque lui
lo definisse.
Sicuramente non era il solo caso quello di quel bambino che ogni mattina si prendeva il panino ripieno dicendo – "Passa mamma." – Di fronte a suo nipote, non si preoccupava del panino, ma di questo bambino. – "Ti garantisco – diceva – che con tutto quel pane (era addirittura uno sfilatino intero) e quella mortadella, perché lo imbottisco bene, non patisce la fame" – mentre sottolineava che probabilmente quello sarebbe stato l'unico pasto decente della giornata. Cionce ben sapeva che la mamma non sarebbe mai passata a pagare: quattro figli da sfamare, il marito dentro e fuori di galera. Un po' il fermo-immagine del “Buon Samaritano” narrato nei Vangeli, nell'atto di farsi carico dell'uomo soccorso per strada, quando l'affida all'oste e si impegna per suo domani. Testimonianza al giovanissimo nipote, di una dolcezza struggente, frutto di compassione vera. Coerente e consapevole di questa “mamma sola”. Gesti quotidiani, di una normalità disarmante, carichi di un profondo senso della poesia. Non c'è da meravigliarsi quindi se la mattina al primo giro delle 6, a lasciare “semelli” e brioche porta a porta, lo vedi lasciare – ed è un omaggio – un panino con lo zibibbo, assieme alla cartella dimenticata da una bambina, davanti a scuola, accanto al suo carretto il giorno avanti. Ricordo che questa bambina, di nome Raffaella, serba in cuor suo ancor oggi, a distanza di tanti anni.
In
tutti i suoi giri, tra salite e discese, nonostante la mole e il suo
naturale peso a fare zavorra, non sempre il freno a pedale riusciva a
sortire l'effetto desiderato. Si raccontano ancor oggi i suoi
fuoristrada con qualche aneddoto curioso. Come di quella volta, e il
ricordo è di Pier Luigi Luti, che andando dal Piazzale verso il
“Riposo” a motore spento con la Lambretta, che aveva da poco
soppiantato il carretto a pedali, giunto appena sotto i “Frati”,
non riuscendo a fermarla manualmente, perché oramai aveva acquistato
troppa velocità, abbia esclamato – "Vuoi andare? E vai!"
– dando una spinta alla Lambretta, che finì nella scarpata
sottostante. Come di quella bambina di nome Paola, di otto o nove
anni, che si mise a piangere disperata alla notizia che Cionce aveva
perso il suo carretto in discesa e che ancor oggi ricorda con
profonda commozione.
Cionce non era solo un venditore atipico che aveva rifiutato di aprire Bottega davanti alle scuole. "Il mio lavoro è per le strade di San Miniato, non rinchiuso in una bottega" – confessa un giorno a suo nipote. Era anche un artigiano e un creativo, oserei dire un “Poeta del Duro di Menta e del Croccante” che produceva direttamente a modo suo, come pure il gelato. Secondo qualcuno per il gelato usava un secchio di legno a doppio fondo, secondo il ricordo di altri il secchio era di rame. Ma per tutti, per fare il gelato, occorreva girarlo a lungo a mano, anche con l'aiuto di qualche “fegatino” e per finire un assaggio per tutti. Tocco personale per il Croccante quando, unico nel suo genere, stendeva l'impasto uniforme su una pellicola di pasta sfoglia, una cialda bianca finissima, tipo ostia, che si faceva fare apposta dalla monache di San Paolo. Cialda che manteneva il croccante soffice e compatto anche dopo il taglio in pezzi. Lo si poteva maneggiare senza il rischio di ungersi, liberi di gustarne a piccoli morsi lo zucchero e le nocciole: dolcezza unica. Più complessa e lunga la lavorazione del Duro di Menta che doveva essere impastato, intrecciato, tirato fino a diventare un impasto compatto da fare raffreddare e asciugare. Lavorazione lunga e faticosa che richiedeva anche un punto di appiglio al quale agganciare quella specie di matassa, per tirarla ed intrecciarla, che nel magazzino di Cionce, in fondo alla discesa dei Frati, era rappresentato da tanti chiodi, ma di quelli grossi, inficcati nel muro. Lavorazione che richiedeva arte e fantasia, che si rivelò estremamente utile, questa ultima, cioè la fantasia, quando Cionce dovette trasferirsi un po' più su, verso Santo Stefano, in una casa e magazzino appena ristrutturati, ad una condizione, dettata dal padrone di casa – "Niente chiodi!"
E
CIONCE mantenne l'impegno e la parola data, non piantò nemmeno un
chiodo in quella casa, ma non rinunciò al suo Duro di Menta. La
sera, prendeva la chiave che di solito stava infissa tutto il giorno
nella toppa dell'uscio di casa, gli dava una passata con acqua e
sapone, chiudeva l'uscio e infilava la chiave dal di dentro dando una
mandata. Chiave quella, vera! di ferro con tanto di campanella, utile
non solo a chiudere l'uscio, ma ad agganciarci le trecce di menta, a
tirarle, ad intrecciarle, pronte a diventare duri di menta
rispettando sapori, accordi e regole.
Amedeo Gasparri "Cionce"
Foto collezione Stefano Bartoli
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