di Giancarlo Pertici
↖ RACCONTI DALLO SCIOA
La
domenica mattina, quasi un rito in San Miniato, sul finire degli anni
50 e oltre
È
solo un'immagine sfuocata che mi riporta alla prima infanzia, alla
mia prima camera, a quei grappoli d'uva appesi ai travicelli del
soffitto che ogni mattina, al comparire del sole, mi appaiono ben
prima del volto sorridente di mia madre mentre allunga le mani per
alzarmi dalla culla, proprio accanto al lettone. È l'ora della prima
pappa. Ricordi fissati a inizio primavera del '48. Ricordi vivi!
Confermati anche dalla mamma.
Altra
immagine, quella di un domenica mattina di qualche anno dopo e di mia
mamma che mi alza dal lettino bastardo posto nella camerina buia.
Tinozza al centro della cucina, acqua fumante per il bagnetto,
saponetta profumata e borotalco, per finire avvolto in un asciugamano
caldo. Pronto per andare a messa, poi anche a giro, con nonno che è
li, tutto in ghingheri, che mi aspetta.
Prima
panca il nostro posto, messa delle 9. In rassegna ogni volta tutti
gli altari, una breve sosta ciascuno. Un segno di croce dopo esser
passato oltre quella panca arabescata, all'ingresso, in cantonata,
riservata alla casata Migliorati, signori e marchesi in San Miniato.
E lì accanto, in piedi, cappello in mano, quei contadini che non
hanno fatto in tempo alla “prima” delle messe. Le loro mogli, in
ginocchio sulla panca innanzi, rosario in mano, le solite vecchiette,
e la pezzuola in testa, a sgranare “marie” prima che suoni la
campanella. Ed io, sguardo intimorito, di fronte a quello scheletro
sotto l'altare maggiore, che a me pare disegnare ombre sinistre sul
rivestimento porpora della bara, mi seggo su quella prima panca
rassicurato da nonno, mani rinserrate nella mia. È la messa dei
bambini, quelli a catechismo, i più grandi a fare i chierichetti,
mentre io, istruito da nonno, ripeto a memoria strane formule in
latino.
All'Ite Missa Est i bambini sciamano rumorosi in piazza. I contadini calzano il cappello dopo averlo lisciato, e non prima di aver rimodellato la tesa e la bombatura; è quello della domenica. Le donne ripiegano il velo, le mani a controllare permanente o “messa in piega”. Nonno, che saluta a destra e a manca, si aggiusta anche il cappello, si scuote i pantaloni e controlla l'ora dalla “cipolla” dentro il taschino; mentre si avvia per “di là” insieme a me, mano nella mano. Botteghe chiuse. Gente per strada, chi va e chi viene. Nel vestito della festa è anche il popolo dei contadini. Nonno sembra conoscere tutti; un rito il salutare e il riconoscersi. Aperta la bottega di barbiere di Rino, affollato il Caffè Micheletti. Chi a farsi la barba, chi a farsi un bicchiere prima di ripartire per il giro in centro, per andare “di là” dove c'è lo struscio, quello di ogni domenica mattina. Quasi nessuno che resta nello Scioa. Qualche mamma a lavare rigaglie per farne salsa e “Gallina” e figli, attivisti convinti, ognuno in braccio un mazzo di giornali, a distribuire l'Unità assieme all'idea comunista.
È un brusio in crescendo, che penetra fino al Seminario e che attira verso una piazza oramai stracolma di una folla composita; commercianti, artisti e artigiani, mezzadri e proprietari terrieri, industriali, perdigiorno e fannulloni, operai e braccianti. La Piazza, quella di San Domenico, dopo l'uscita della messa. Folla che fa da tappo allo scorrere del popolo dello struscio. Chi dal Caffè Cecconi verso Piazzetta del Fondo fino al Piazzale, o chi, nell'altro verso, dai Loggiati di San Domenico fino a Piazza Grifoni e alla Nunziatina. Popolo ciarliero e chiacchierone, intento a trattare l'ultimo affare, ma soprattutto ad attaccar bottone pur di far mezzogiorno, e che ingrossa le sue fila, iniziando dalle “dieci”, fino appena dopo mezzogiorno. In compagnia di nonno, ma non sempre, riesco a sfondare fino al Bar del Corri per il gelato, per poi ritornare al Piazzale, in tempo per la partita di Pallacanestro della “Etrusca” squadra cittadina, su quel campetto in cemento e asfalto.
È
al suono della campana di mezzogiorno che inizia il viaggio a ritroso
che va a sfoltire velocemente quel tappo che rendeva quasi invisibile
la farmacia Cheli, la vetrina di “Viva Gesù”, l'edicola
“Catarcioni”, i cartelloni del Cinema Italia. È quello l'ultimo
nostro giro, giusto per salutare mio zio barbiere in piazza, per
leggere le ultime notizie del “Telegrafo” e de “La Nazione” e
per controllare che Film c'è oggi in programma “Sotto i Chiostri”.
Percorso
quasi in apnea, quest'ultimo, davanti al Seminario, al Comune e alle
Scuole, per respirare liberi, da lì in poi, a pieni polmoni, i
profumi intensi del dì di festa. Profumi che sanno di crostini
fegatini e capperi, di salsa di rigaglie, di coniglio e pollo arrosto
con patate, che a tegliate escono dai forni di Nello e del Peroni ad
incensare le vie. L'ora è la stessa per tutti, appena dopo
mezzogiorno e prima del tocco. Poi silenzio improvviso, strade
deserte, solo un tintinnare di posate e bicchieri a suggerire dove si
sia rifugiato all'improvviso quel popolo ciarliero e chiacchierone di
appena un'ora prima.
Foto di Francesco Fiumalbi
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