di Giancarlo Pertici
I
“SANTUARI” DEL GIOCO
…e
noi bambini, anni '50 e paraggi, testimoni e ….officianti…
SECONDA PARTE DI CINQUE
– La
Campana – in giro lungo la strada, senza un luogo ben preciso –
Alle
bambine non era riconosciuta una Libertà a tutto campo, quella di
muoversi e di decidere cosa e dove fare qualsiasi cosa o qualsiasi
gioco. Dovevano comunque restare nella sfera di controllo di
qualcuno, nonno, zia, fratello... anche se era consentito loro di
partecipare a tutti i giochi di noi maschietti. Certi giochi,
prettamente femminili come “La Campana” è lungo la strada nelle
vicinanze della casa di qualcuno, che la facevano.
Io
mi ricordo sempre di quel gruppetto formato da Maurizia, Brunina,
Daniela e Anna che quasi ogni pomeriggio stazionavano davanti
all'uscio di casa. Mentre quasi per imitazione se ne formavano sempre
altri davanti al Migliorati, come davanti al Ricovero. Si piazzavano
esattamente tra l'uscio di nonna Livia e quello di zia Primetta e con
il gesso disegnavano la loro Campana utilizzando le lastre che
contrassegnavano con un numero e terminando lo stesso al centro
strada con quella pietra ovale che chiudeva il pozzetto centrale
delle acqua pluviali. Non c'era quindi bisogno di disegnare tutta la
Campana. Bastava farne i contorni dopo aver assegnato un numero ad
ogni lastra.
Se
in quel momento sono sull'uscio in compagnia di Nonno Nuti che mi
racconta di Tonino, non posso non seguire con lo sguardo il gioco che
un po' mi affascina… anche se “è da femminucce”.
Sette
i settori tutti contrassegnati con un numero. Lancia per prima
Brunina la sua pietra, pietra liscia, dalla base terra alla casella
1. A zoppetto, senza toccare i bordi va nella casella 1 e raccoglie
di terra la pietra e torna alla base terra. Quindi lancia la sua
pietra alla casella 2 e la centra. A zoppetto passa dalla uno, va
alla due, recupera la pietra e fa il tragitto al contrario. Percorso
netto fino all'ultima casella.
Qualche
sosta obbligata quando arriva un ambulanza o passa una macchina o un
camioncino. Quando è la volta di Maurizia, mia sorella, ...in
difficoltà per il precario equilibrio dovuto alla lussazione alle
anche non del tutto superata, si trova a ripetere spesso il gioco...
quando pesta la riga, quando perde l'equilibrio. E' quasi sempre
ultima.
E'
un gioco ripetuto fino alla noia mentre mantengono l'occhio fisso a
Piazza Santa Caterina in attesa che rientri qualche gruppo di
maschietti, per aggregarsi.
– Gli
Aquiloni – in Pian delle Fornaci –
Andare
e arrivare in Pian delle Fornaci ha il profumo e il sapore stesso
della libertà, veramente lontano dagli sguardi, fuori controllo
diretto, nessuna finestra che vi si affacci, solo una vista parziale
e ridotta dai terrazzi, ma non nella parte che sale al Sanatorio
nascosta dal ciglione. E non è questo l'aspetto che più mi
affascina di Pian delle Fornaci. Anche nel ricordo, ...è la sua
vocazione naturale …donata a noi bambini. Chi vi si affaccia per la
prima volta non ne può cogliere la vocazione. Non è uno spazio
veramente aperto. Incorniciato da un doppio filare di cipressi,
lontano, almeno in apparenza, da venti favorevoli. Invece alla prova
dei fatti a noi bambini degli anni '50, anche perché a portata di
mano, risulta il posto ideale per gli Aquiloni.
Anche
in piena estate, sia di luglio sia di agosto, dopo le 4 del
pomeriggio si alza un leggero venticello che, incanalato nella valle
di Gargozzi che va a terminare salendo, assume una direzione
ascendente all'incrocio con Pian delle Fornaci, per spingere con
gentilezza in direzione est a velocità costante. Pochi i giorni di
bonaccia ad impedire il volo. Angusto il “corridoio” (spicchio
abile al volo) giusto tra lo stradello per Casa Giusti e il primo
cipresso …forse 10 metri, mentre ampio lo spazio che degrada verso
il Valdarno passando tra e sopra il “gozio”, riserva d'acqua per
i buoi nella calura estiva.
La
tecnica di volo univoca nei modi, con due possibili varianti rispetto
alla direzione di corsa (corsa necessaria al distacco ...al decollo),
in direzione Cappuccini o in direzione Sanatorio. Il decollo avviene
giusto al passaggio davanti al “corridoio” di volo
indipendentemente dalla direzione di corsa. E' in quella breve corsa
che capisci se il lavoro fatto è stato fatto bene, se quell'aquilone
che hai costruito volerà o potrà volare. E quell'arte, perché di
arte trattasi, di costruire aquiloni, l'hai imparata dagli altri…
in parte “insegnata” dai più grandi, in parte carpita nei
segreti più gelosamente conservati. Risultati alterni, dove passi
dalla delusione all'euforia del “volo”.
Pochi
di fatto i segreti anche carpiti… la pazienza di attendere il
momento propizio… la scelta del materiale per lo scheletro –
canne palustri lavorate al verde e lasciate essiccare per l'uso dopo
averle squartate – la giusta equilibratura sia nel peso sia nella
dimensione… la carta velina o oliata a scelta tra un piccolo
aquilone o un grande aquilone. La pazienza perché, con il materiale
in mano, prima e, con l'aquilone appena realizzato, poi, bisogna
saper rispettare il giusto lasso di tempo perché l'incollaggio sia
perfezionato.
Colla
a base di farina ed acqua, che assicura costo zero, ma esige
quantomeno una nottata di attesa, meglio se di più. E non è finita
perché per decollare l'aquilone ha bisogno di essere imbracato per
l'attacco alla corda che lo tende nel cielo e al tempo stesso lo
tiene prigioniero (legato a sé), non prima di averlo dotato di una
lunga coda a bilanciare adeguatamente testa e coda. Operazione che
risulta sempre molto complessa e che spesso si risolve solo
provandolo sul campo. Allora lo vedi, anzi lo intravedi, mentre corri
e lo senti tirare la corda dietro di te che prende il vento e inizia
ad issarsi su nel cielo, mentre rallenti la corsa per restare nel
“corridoio” e con leggeri colpetti lo fai innalzare. Mentre si
innalza rilasci un po di corda, appena un po' e mentre l'aquilone
tende a ridiscendere lo riconduci in alto nel mezzo della brezza con
un altro colpetto di corda, in un continuo alternarsi di rilascio e
di colpetti calibrati… mai troppo il primo, mai bruschi i secondi,
finché giunge al centro della corrente convettiva e comincia a
chiedere solo corda.
Allora!!!
Allora??? allora basta averne… se c'è, e basta avere gli occhi
buoni, un colore azzeccato dell'aquilone (mai verde o azzurro che si
perderebbe nel cielo) per capire di cosa ha bisogno in volo… e tu
resti li per minuti, per ore ad accudire questa tua creatura che
vibrando nel tuo palmo ti rende emozioni incredibili mentre il tempo
vola veloce e lontano come l'aquilone.
E
qui si inserisce un personaggio, a volte antipatico, che di corda ne
ha da vendere… io credo che in verità sia corda tutta “sottratta”
al babbo calzolaio. Intere rocchelle di Refe, quella usata dai
calzolai con l'aggiunta di pece per cucire suola al tomaio e renderla
impermeabile. Rocchelle lunghissime di refe resistente e leggera...
sembra nata e inventata per gli aquiloni. Io non me lo posso
dimenticare Luigi di' Lotti… da quella volta che alla caduta del
vento in tarda serata, il suo aquilone oramai un punto invisibile nel
cielo, cade insieme al filo… è quasi una richiesta di aiuto,
tentazione alla quale non riesco a resistere e giù in valle a
seguire quel filo esile, sempre più invisibile alla luce del sole
che sta scomparendo, da un campo all'altro, tra filari di viti, campi
di carciofi e ulivi guardiani sui ciglioni fino alle prime case
vicino alla strada maestra oramai punteggiata dai lampioni già
accesi.
Quando
riemergiamo in Pian delle Fornaci è buio da un pezzo… ma mia madre
ci vede benissimo per accompagnarmi a sculaccioni fino a casa…. “e
stasera a letto senza cena”. Non era un modo di dire allora!
–
Carretti
a cuscinetti – Pian delle Fornaci –
Siamo
oramai alla fine degli anni '50 e la motorizzazione ha iniziato a far
sentire i suoi effetti e a rilanciare anche i suoi bisogni che
cominciano ad invadere le nostre “enclavi di gioco” che perdono
man mano l'esclusiva di alcuni angoli di territorio, mentre
occasionalmente rendono utilizzabili al gioco altri spazi. Ed avviene
questo quando viene asfaltata la strada che conduce in Pian delle
Fornaci fino ai Cappuccini ed oltre… se ben ricordo. Strada che
usiamo, ma raramente, per filare a pedalino su vecchie biciclette
fuori uso dalla Piazza fino a Pian delle Fornaci, giusto all'altezza
della Casa di Marianna dove inizia la salita. La superficie regolare
suggerisce altri usi.
E'
l'esempio del Giustino che lo percorre in scioltezza con il suo
barboncino Parigi, a tirare il suo carretto, lui che... finimenti
fatti su misura… già percorreva quella strada e lo strabello di
casa tutti i giorni. E' solo un esempio che trasforma le nostre
strade, le nostre cantine, i nostri orti in laboratori e
falegnamerie, officine per creare su disegno unico dei carretti a
cuscinetti.
Carretto
fatto a triangolo, snodo sul davanti a tenere una barra trasversale a
fare da volante tramite una cordicella ai due estremi. Due cuscinetti
fissi sul dietro per ruote più grosse sul telaio di legno, freni a
pedale… o meglio a pedate, piedi a terra e scarpe dalle suola
robuste. Non solo ragazzi, oramai siamo oltre i 10 anni quasi tutti,
ma anche ragazze ad ingrossare le fila già alla prime discese.
Ginocchia sbucciate… mani graffiate, ammaccature dappertutto dopo
capitomboli, perdita di ruote, fuoristrada… è il rodaggio che
dobbiamo imparare a condividere con le prime motociclette, qualche
camioncino, qualche auto che va e viene su e giù per quella strada
ad ogni ora del giorno. Vita breve per quei carretti con le ruote a
cuscinetti che alla fine già del primo anno vengono riposti nelle
cantine fino ad addormentarvicisi in letargo.
FINE
SECONDA PARTE
Foto
di Francesco Fiumalbi
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