giovedì 15 gennaio 2015

ROMA 1970 - I GIOCHI DELLA GIOVENTU' A SAN MINIATO - Racconto di Stefano Bartoli

Racconto di Stefano Bartoli


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Roma 1970 – I giochi della gioventù di S. Miniato.

La pallacanestro è sempre stata, per i ragazzi di S. Miniato, scuola di sport e di vita ed ha permesso a tante ragazze e molti ragazzi di crescere in modo sano, in un ambiente dove i più grandi si prendevano cura dei piccoli e trasmettevano Loro insegnamenti ed esperienze. Io ho avuto la fortuna di frequentare quell'ambiente dagli undici ai ventuno anni e se oggi sono ciò che sono un po' di merito è anche di coloro che, insieme con me, hanno vissuto e condiviso quell'esperienza.

L'opportunità di accedere alla fase nazionale dei giochi ce la giocammo contro i ragazzi di Altopascio, sul campo della Crocetta, in una giornata di sole veramente calda. Ricordo l'allenatore di quella squadra, molto agitato, rosso in faccia per lo sforzo di urlare in continuazione e Dante che rispondeva senza mezzi termini; sfottò da panchina a panchina. Poiché questo signore era bello in carne io, non trovai di meglio che urlargli contro: Fatelo star zitto qualche secondo, dategli una coscia di pollo così gli tappiamo la bocca!

Non ricordo la risposta ma non fu certo un complimento.

Noi, la bocca gliela tappammo davvero a fine partita, S. Miniato aveva staccato il biglietto per Roma e Altopascio rimaneva a casa, contrariamente alle previsioni perché poche settimane prima ci avevano battuti, ma, questa volta, il Menga non si era fatto fregare e aveva rinforzato la squadra. In quella gara giocarono diversi amici che poi non parteciparono alla fase nazionale, mi riferisco a Maurizio Pandolfi, Raffaele Mori Taddei e l'indimenticato Andrea Susini, il mitico Nappa e Ciuffo, sempre elegante, sempre gentile sia nei modi sia nei comportamenti. Dante rimescolò un po' le carte lasciando a casa questi e altri giovani e inserì giocatori di maggior esperienza.

Questa è una delle prime lezioni di vita che apprendevi giocando a basket, ti allenavi insieme con tutti, a volte eri convocato e avevi l'opportunità di giocare la partita, partendo da titolare o dalla panchina, a volte passavi quaranta minuti interi in tribuna o seduto in panchina senza poter toccare il terreno di gioco se non per fare il riscaldamento. Nessuno faceva drammi e tutti accettavano la scelta fatta dall'allenatore, senza recriminare o protestare, primi segni di maturità.

Il viaggio per Roma lo facemmo in treno, poi bus per attraversare la città e raggiungere l'alloggio. Soggiornammo nei pressi di S. Pietro, in un convento di suore, intitolato al Preziosissimo Sangue di Gesù, avevamo camere a tre o quattro letti e fu agevole e divertente sistemarsi scegliendo i compagni di stanza. L'esordio fu nelle palestre degli impianti sportivi dell'Acqua Acetosa, avversari i giocatori della Roma, la squadra di casa. Eravamo emozionati e avevamo tutto il tifo contro, fecero di tutto per intimidirci.

Ci difendemmo bene però, grazie anche a qualche piccolo favore arbitrale perdemmo la prima. Avevamo tre splendidi Dirigenti accompagnatori: Daniele Ciaponi, Franco Mancini e Gianfranco Rossi. Ci seguirono, guidarono, incoraggiarono per tutta la durata dell'evento senza farci mai mancare suggerimenti e supporto. La seconda partita la giocammo al Palazzetto dello Sport di Roma: tabelloni in cristallo, fondo del campo liscio come un biliardo, migliaia di posti per gli spettatori, quasi tutti vuoti però faceva impressione il miglioramento dell'ambiente. Noi giocavamo all'aperto, su di un campetto asfaltato con il catrame, con tabelloni di truciolato ricoperto da una specie di formica; appoggiavi il tiro sul tabellone e questo smorzava la potenza e la velocità, qui la palla rispondeva diversamente, prendeva forza e velocità ed anche il ferro si comportava in modo diverso alle sollecitazioni.

Dovevamo prendere velocemente le misure e adeguarci se volevamo andare avanti nel torneo e così facemmo. La cerimonia di apertura dei giochi fu molto bella, mi piacque l'intervento del campione olimpico Livio Berruti, dieci anni prima aveva gareggiato sui 200 metri e aveva trionfato, un esempio nello sport e nella vita. Le altre due partite del girone le vincemmo bene, però avemmo anche il tempo di perderci per Roma un elemento della squadra. I nostri spostamenti in autobus erano continui, sia il mattino, sia il pomeriggio. Appena saliti, ci contavamo, il più vicino all'autista chiamava uno, quello dietro due, e poi tre, fino all'ultimo che gridava dodici. Era bello ritrovarsi tutti, fu una sorpresa quella volta che dopo “undici” ci ritrovammo in assoluto silenzio.

Era tardo pomeriggio, stavamo rientrando per la cena e c'eravamo persi un compagno, in una città immensa come Roma.

Un veloce controllo ci fece capire che mancava all'appello Carlo Tozzi. Fu un momento di smarrimento generale e di grande tensione, proseguimmo nel rientro esternando fra noi la grande preoccupazione. Dante, ci lasciò al convento e partì in cerca di Carlo, ma non lo trovò, fu il Tozzi che recuperò noi. Dopo un bel po' di tempo si presentò al convento madido di sudore, la maglietta da strizzare, respiro corto e affannato per la lunga corsa. Era successo che Carlo non aveva soldi in tasca, però aveva il numero dell'autobus bene in testa e allora aveva deciso di correre a perdifiato dietro al mezzo, cercando di non perderlo di vista ma, la missione era impossibile, sia per la velocità del mezzo, sia per le curve. Carlo non si arrese, quando non vedeva il bus, si fermava ad attendere il prossimo, recuperava ossigeno per riportare la respirazione alla normalità, scioglieva i muscoli delle gambe e appena vedeva arrivare un mezzo con lo stesso numero riprendeva a correre.

Il ritorno all'alloggio fu un bel premio, per Lui, per tutti noi e per il nostro allenatore.

Le suore erano molto ospitali e avevamo grande simpatia per il più piccolo di noi, Andrea Testi, mentre era particolarmente affezionato alla suora dispensiera l'amico Walter Barnini. Amore interessato, Walter sedeva sempre a capotavola e non ne voleva proprio sapere di bere solo acqua allora si alzava e con aria angelica e collaborativa iniziava così: Buongiorno sorella, mi manda il nostro allenatore, le chiede se è possibile avere un goccetto di vino per Lui. La suora non aveva alcun modo di dubitare di quel volenteroso ragazzo e Walter aveva modo di tornare al tavolo con un sorriso trionfante stampato sul volto e una bottiglia in mano. Un mezzo bicchiere lo teneva per sé, la ricompensa per il servizio, il resto andava all'allenatore.

Noi ragazzi dell'Etrusca rappresentavamo la Provincia di Pisa, sul fronte femminile si era qualificata la squadra delle ragazze del CUS Pisa. L'allenatore della squadra femminile aveva preso in prestito, per l'occasione una ragazzina di S. Miniato, Patrizia Righini, una morettina minuta che era molto brava nel giocare a basket. Questo fatto aveva avvicinato molto le due squadre per cui, quando possibile, noi andavamo a vedere le partite delle bimbe o Loro venivano a vedere le nostre.

In quelle occasioni sembrava di ritrovarsi un po' nella natìa S. Miniato, noi ad allenarci e giocare e le ragazze, a bordo campo, a fare il tifo. Favore restituito quando le ragazze si allenavano o giocavano e noi davamo Loro il cambio seduti sulle lunghe file delle panchine verdi dell'ex cinema all'aperto di Via Roma.

Avere spettatori dell'altro sesso, in periodo adolescenziale, era un qualcosa che Ti spingeva a impegnarti al massimo, Ti dava entusiasmo e Ti metteva le ali ai piedi. Qui a Roma avevamo, provvisoriamente, le ragazze del CUS, alcune veramente belle come la biondissima Paola Omezzolli, un centrale di grande forza e talento che alternava grinta sul campo a grandi sorrisi e simpatici dialoghi appena fuori o Ester Guadagni, una morettina riccioluta dalla pelle molto abbronzata, un tipo che sapeva portar bene palla ed anche impostare il gioco. Era anche una tipa pronta alla battuta ed era difficile avere l'ultima parola con Lei. Ovviamente, in quel di Roma, non dimenticammo mai le ragazze di S. Miniato, erano sempre presenti nella mente, nel cuore e nei dialoghi dei Loro “fidanzatini” in trasferta, però l'amicizia nata con le ragazze del Cus ci fece sentire tutti un po' meno soli nella grande città romana.

Arrivati alla fase finale a sedici squadre, dovremmo incontrare la vincente di un altro girone, il Bologna. Mentre ci recavamo al campo di gara, apprendemmo che la Roma si era già qualificata battendo la seconda dell'altro girone. Vincere con Bologna ci avrebbe portato a un secondo incontro i padroni di casa. Affrontammo la gara molto determinati, i bolognesi erano abili palleggiatori, buoni tiratori noi eravamo più “fisici” e molto determinati. I primi tre tempi tutti condotti in vantaggio, all'inizio del quarto eravamo sopra di quattro, poi scattò la trappola arbitrale.

Appena uno di noi superava la metà del campo, l'arbitro fischiava qualche infrazione: passi, doppio palleggio, ecc.

Gli arbitri dimostrarono grande fantasia nel punirci per consegnare palla agli avversari. Riuscimmo a non perdere la calma e a fare una grande difesa. A poco dallo scadere eravamo sotto di una palla lanciata su Andrea Vezzi che corre veloce sulla destra, palleggio pulito, impossibile fermarlo. Andrea stacca il terzo tempo per andare a canestro in sottomano, pare già fatto ma un romano, in frettoloso recupero lo afferra per i pantaloncini e li tira giù, quasi fino al ginocchio. Andrea non si arrende e, pur sbilanciato, tira la palla verso il canestro, tabellone, ferro, fuori …… poi la sirena.

Perdiamo di uno, dopo lacrime, grida, rabbia, i giocatori del Bologna che vengono ad abbracciarci e darci la mano:


– Siete Voi i veri vincitori.
Vi hanno fatto questo perché la Roma Vi temeva.
Siete Voi i più forti!

Tutto molto bello, molto carino, ma, a distanza di quarantaquattro anni non mi è ancora passata e mentre scrivo, sono ancora rosso dalla rabbia.

In quegli ultimi dieci minuti di partita il nostro mondo di ragazzi ha conosciuto, nel peggior modo possibile, l'esistenza delle “raccomandazioni”. E' un'esperienza forte che ci ha preparato per il futuro. Mentre la Roma andava a vincere sia il titolo maschile sia quello femminile, noi giocavamo nel girone che assegnava i posti fra il nono e il sedicesimo. La mattina seguente giocavamo al Palazzetto dello Sport e accadde un fatto strano. Dante era uscito nella notte romana, forse per mitigare un po' la delusione, si era preso qualche ora di permesso. Lui ci aveva avvertiti del fatto che ci avrebbe raggiunti per l'inizio della partita. Noi prendemmo il solito autobus, ci cambiammo e iniziammo il riscaldamento. Di Dante nemmeno l'ombra.

L'ora stabilita l'arbitro chiamò il Capitano Paolo Maestrelli al tavolo e chiese notizie dell'allenatore ammonendolo sul fatto che senza allenatore non potevamo giocare e che avremmo avuto partita persa 2 a 0 a tavolino. Paolo non si perse d'animo e iniziò ad argomentare sul fatto che noi sapevamo benissimo che formazione mettere in campo, eravamo in grado di giocare mentre il nostro allenatore ci stava raggiungendo. Alcuni di noi si associarono a quella conversazione e facemmo capire che sarebbe stato un delitto non farci giocare.
L'allenatore dell'altra squadra diede il Suo assenso e, alla fine, seppur con un po' di ritardo iniziammo a giocare. Poco dopo la metà del primo tempo arrivò Dante, gli spogliatoi erano chiusi e Lui si presentò in tribuna, richiamò l'attenzione dell'arbitro che fermò subito il gioco e iniziarono le spiegazioni.

Non so quali furono gli argomenti citati dal Menga ma fu efficace, l'arbitro insisteva dicendo che i ragazzi avevano voluto giocare lo stesso, anche se da soli e Dante tagliò corto, si tolse gli occhiali, pulì le lenti con un fazzoletto mentre sbirciava il tabellone, chiese conferma del punteggio e del tempo residuo da giocare e proseguimmo la partita. La vittoria ci proiettò nella gara per la conquista dei posti fra il nove e il dodici. Nella successiva i più grandi di noi tennero consiglio e decidemmo di far marcare un canestro al più piccolo di noi, Andrea Testi, la mascotte del gruppo. Decidemmo di giocare anche per Lui.

Il salto d'inizio mi fu fatale, ricaddi con il piede sinistro su quello di un avversario e mi feci una brutta storta. Piede e caviglia con abbondanti spruzzi di spray gelato, fascia elastica ben stretta, la gamba che non senti più da sotto il ginocchio, però giochi, stringi i denti e vai avanti; lotti come dopo farai anche nella vita e non Ti arrendi alla sfortuna o al dolore, sai che qualcuno si aspetta qualcosa da Te e non vuoi deluderli. Allora vai caparbiamente avanti, al meglio di come puoi.

La partita è vinta, domani sapremo se saremo noni o decimi sulle trentadue partecipanti, ci godiamo il momento ma ci raccontiamo l'un l'altro il canestro fatto da Andrea Testi. Il ragazzo c'è riuscito, alla grande, ha fatto i due punti con un'azione sulla destra, si è smarcato bene ed ha ricevuto il passaggio che tutti volevano fargli, si è involato a canestro, veloce e preciso ed ha segnato. Siamo corsi tutti ad abbracciarlo dimenticandoci per un momento del gioco e degli avversari. Missione compiuta.

L'ultima gara è con il Bari, Dante mi avverte dicendomi che quella caviglia m'impedirà di giocare, scendo in panchina con caviglia fasciata e medicata ma non tocco il terreno di gioco se per un leggero e blando riscaldamento. Si perde l'ultima, siamo decimi, quattro vittorie e tre sconfitte, in ogni caso un ottimo risultato per una squadra di ragazzi tutti provenienti da una cittadina di circa tremila abitanti che si è confrontata con le squadre delle grandi città italiane. Immagino tutti Loro erano abituati a giocare in palestre e palazzetti dello sport, a fare tre o quattro allenamenti a settimana a essere coccolati e ben vestiti, noi giocavamo sempre, tutti i pomeriggi dopo la scuola, non avevamo molto di altro e, dopo aver giocato un paio d'ore, ci cambiavamo, indossavamo maglietta e calzoncini e facevamo un paio d'ore di allenamento. Dopo la doccia non era raro ritrovarsi di nuovo sul campo per altre sfide: Il giro del mondo, tiri liberi, o “dalla pompina” (il nostro tiro da tre punti), partitelle due contro due, tre contro tre, partite a “squadre miste”.

Noi avevamo fame di basket e non ci stancavamo mai anche perché le nostre spettatrici erano le più belle del mondo e non potevamo deluderle. La cerimonia di chiusura si tenne allo stadio dei marmi, in notturna, in ambiante spettacolare. Ragazze e ragazzi che si salutano, sorridenti e piangenti secondo l'emozione provata, tutti che si scambiamo abbracci insieme a magliette o pezzi di tuta, solo noi “pisani” di S. Miniato non riusciamo proprio a dar via niente, la provincia “avara” ci aveva messo a disposizione un'anonima maglietta rossa con le maniche, più adatta alla pallavolo che al basket, pantaloncini bianchi, scarpe basse da tennis meno male che Dante si era organizzato procurandoci le nostre maglie arancioni.

Non so quanti tentativi ho fatto e a quanti ragazzi ho chiesto per riuscire a scambiare la mia maglietta rossa con una viola con la scritta gialla RIETI, però ci sono riuscito. Questo cimelio l'ho indossato a lungo nel mio periodo adolescenziale. Devo ringraziare Dante, Franco, Daniele e Gianfranco se, a distanza di poco meno di quarantacinque anni sono ancora qui che mi emoziono con questi bei ricordi e chiedo ai miei compagni di squadra ma ce la facciamo a ritrovarci intorno ad un tavolo oltre che su Face?



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