a
cura di Francesco Fiumalbi
INTRODUZIONE
I BACINI POTEVANO ANDARE DISTRUTTI
GIUSEPPE PIOMBANTI E GUIDO CAROCCI
TRA SILENZIO E APPROSSIMAZIONE
GAETANO MILANESI E GUSTAVE SOULIER:
LE PRIME CONGETTURE
IL GENERICO APPORTO DEL CAN.
FRANCESCO M. GALLI ANGELINI
GAETANO BALLARDINI E DILVO LOTTI: IL
PRIMO CATALOGO DEL 1938
PIETRO TOESCA, LA CONSERVAZIONE E LA
NECESSITA' DI UN CATALOGO
M. L. CRISTIANI-TESTI E LA PRIMA
IPOTESI SUL CONTESTO ISLAMICO
G. BERTI E L. TONGIORGI: I PRIMI
STUDI SCIENTIFICI
GLI ANNI RECENTI E L'ULTIMO CATALOGO
INTRODUZIONE
La
facciata della Cattedrale dei SS. Maria e Genesio di San Miniato
offre numerosi spunti d'interesse. Fra questi la presenza dei
cosiddetti bacini
ceramici
in maiolica smaltata, di cui ci siamo occupati, da un punto di vista
compositivo, nel post INTERPRETAZIONI
CERAMICHE.
Allo
stato attuale degli studi, conosciamo molte informazioni su questi
manufatti che vanno ad impreziosire il tessuto murario in laterizio
del fronte principale della chiesa. Grazie a rilievi chimici e a
confronti stilitico-materici gli studiosi sono stati in grado di
attribuire la produzione di questi elementi ad una
manifattura nordafricana,
probabilmente
tunisina,
della seconda metà del XII secolo, forse dei primi anni del '200.
Tuttavia pervenire a questa affermazione non è stato così
immediato. In questo post ripercorreremo il percorso, talvolta
accidentato, degli studi e delle pubblicazioni che hanno trattato di
questi preziosi manufatti a partire dai primissimi anni del '900,
epoca delle prime congetture.
Al di là di questo, merita davvero
fare una visita al Museo Diocesano d'Arte Sacra, presso il quale sono
conservati gli originali (sulla facciata sono collocate delle copie)
per apprezzare, da vicino, la bellezza e la preziosità di tali
manufatti, provenienti da un mondo lontano nel tempo e distante nello
spazio.
I
BACINI POTEVANO ANDARE DISTRUTTI
L'interesse
per i bacini
prese avvio solamente nei primi anni del '900 e attraverso
pubblicazioni di autori esterni all'ambito culturale cittadino. Gli
studiosi sanminiatesi appassionati di storia “patria” non
sembrano aver mostrato, fino a quel momento, quella sensibilità per
assegnare a tali manufatti il rango di “opera d'arte”, o comunque
di “bene culturale” degno di essere conservato e tutelato. Alla
metà dell'800, infatti, il complessivo progetto di ristrutturazione
del Duomo – organizzato dal Proposto della Cattedrale Canonico
Giuseppe Conti,
redatto dall'architetto Pietro
Bernardini
e posto in opera dal 1858 al 1861 – prevedeva anche il rifacimento
della facciata. Il disegno della nuova sistemazione esterna è noto
ed è pubblicato a margine dell'articolo di F. Onnis, Biografia
di una architettura,
in La
Cattedrale di San Miniato,
a cura di C. G. Romby, CRSM, Pacini Editore, Pisa, 2004, p. 78.
Nella
medesima pagina, nella nota n. 75, viene riportato anche un piccolo
passaggio della lettera che il Can. Conti inviò al Bernardini nel
1863 [originale conservato presso l'Archivio dell'Accademia degli
Euteleti, n. 96, ins. 7], in cui pregava l'architetto affinché la
facciata venisse rifatta «del
carattere Bizantino (cioè del Duomo di Pisa) che confina col Gotico.
Così avremo la facciata in armonia con l'interno del Duomo, e non ci
stancheremo di tanto dal primo concetto, e dalla prima costruzione».
Queste parole sono quanto mai significative della sensibilità
dell'epoca. Insomma, per il Proposto Conti – personalità pure
attiva e attenta anche alle vicende storiche sanminiatesi – la
facciata della Cattedrale, e dunque anche il suo apparato decorativo,
ancorché rimaneggiato da numerosi interventi nel corso dei secoli,
era un qualcosa di cui c'era il rischio di “stancarsi”. Se
l'alacre impegno del Conti fosse stato premiato, oggi non sarebbero
note queste testimonianze medievali in ceramica che, da circa otto
secoli, adornano la facciata della chiesa dei SS. Maria e Genesio di
San Miniato. La storia, tuttavia, andò diversamente.
Foto di Francesco Fiumalbi
GIUSEPPE
PIOMBANTI E GUIDO CAROCCI TRA SILENZIO E APPROSSIMAZIONE
Gli
studiosi più accorti, prima di pronunciare inesattezze, preferiscono
tacere o sorvolare brillantemente l'argomento. E' il caso, ad
esempio, di Giuseppe
Piombanti
che nella sua Guida
della Città di San Miniato al Tedesco [Tipografia
M. Ristori, San Miniato, 1894, VAI
AL LIBRO↗]
non profferì parola alcuna, come se i “bacini” non esistessero.
D'altra parte i manufatti sanminiatesi non sembrano aver ancora
catturato l'attenzione degli studiosi. Ad esempio, C.
Drury Fortum
nell'articolo Notes
on the “Bacini” or Dishes of Enamelled Earthenware introduced as
Ornaments to the Architecture of some of the Churches in Italy,
pubblicato nella rivista «Archaeologica»,
periodico della Society of Antiquaries of London (numero 42, 1870, n.
XVII, pp. 379-386) propose lo studio degli esempi pisani nelle chiese
di San Sisto, San Francesco, Sant'Andrea, Santa Cecilia e San
Martino. Cercò corrispondenze a Bologna, Rimini, Pesaro e Urbino, ma
non si “accorse” dei bacini sanminiatesi.
Solo
nei primi anni del XX secolo, Guido
Carocci
si “accorse” della presenza dei manufatti in maiolica, di cui
dette notizia nell'articolo Gli
edifizi monumentali di San Miniato
pubblicato nella Miscellanea Storica della Valdelsa, n. 32 del 1904,
a p. 76, senza tuttavia approfondire: «[...]
la
chiesa maggiore di San Miniato, dedicata a S. Maria ed a S. Genesio,
serba solo nella parte esterna, e soprattutto nella facciata, le
tracce della sua antichità remota e della sua forma primitiva. Sorta
attorno al mille, fu rifatta nel XIII secolo di stile lombardesco con
paramento a cortina di mattoni, decorata di piatti di maiolica e di
fregi di terracotta stampata».
Un
paio d'anni dopo, ancora Guido
Carocci
nel
volume “Il
Valdarno. Da Firenze al mare”,
edito a cura dell'Istituto Italiano d'Arti Grafiche di Bergamo, nel
1906 [VAI
AL POST↗]
rimase
comunque sul generico:
«La
facciata della chiesa, a cortina di mattoni, serba le tracce delle
trasformazioni e degli ampliamenti succedutisi dal XII al XVII
secolo. Degli ornamenti di terracotta stampata, delle scodelle di
majolica infisse nella cortina sono i resti della primitiva facciata.
Nell'interno la chiesa è stata modernamente rifatta.»
GAETANO
MILANESI E GUSTAVE SOULIER: LE PRIME CONGETTURE
Gustave
Soulier
(1872-1937), già direttore dell'Istituto Francese di Firenze, nel
volume Les
influences orientales dans la peinture toscane
pubblicato a Parigi nel 1924, analizzando in dettaglio, anche
attraverso riproduzioni grafiche, le “scodelle” di San Pietro a
Grado (Pisa) e della Cattedrale di San Miniato (pp. 91-98) concluse:
«Il
est infiniment probable que les scodelle que nous avons relêvees
sur des églises de la rêgion
proviennent d'un centre unique et voisin, Montelupo».
Lo
studioso francese, tuttavia non fu il primo ad attribuire alla
manifattura montelupina le maioliche smaltate della Cattedrale di San
Miniato. Prima di lui aveva trattato l'argomento Gaetano Milanesi
(Siena, 1813 – Firenze, 1895), storico e storico dell'arte, fra
i massimi esperti del tempo. A quest'ultimo va riconosciuto anche un
altro primato assoluto, quello di essersi occupato per la prima
volta, attraverso una pubblicazione a stampa, dei bacini
sanminiatesi.
Tipografia
di G. Barbera, Firenze, 1902, frontespizio.
Le
primissime analisi del Milanesi, all'interno di un volume più ampio
uscito postumo solamente nel 1902, non ebbero tuttavia riscontro
nella letteratura sanminiatese. Sull'argomento, Milanesi si confrontò
anche con Umberto Rossi (1869-1896), allora Conservatore del Museo
Nazionale di Firenze (oggi conosciuto come Museo Nazionale del
Bargello) e prese contatto col Canonico Emilio Marrucci di San
Miniato. Dopo aver visionato i manufatti della facciata della
Cattedrale dal vivo, seppur dal livello della piazza, lì attribuì
erroneamente al contesto delle manifatture di Montelupo. Queste le
sue parole, pubblicate in Di
Cafaggiolo e d'altre fabbriche di ceramica in Toscana,
ed. a cura di Gaetano Guasti, Tipografia di G. Barbera, Firenze,
1902,
alle
pp. 30-31:
«[30]
Ma alla mancanza o quasi
di esemplari, che la fragilità loro, le turbolenze, il gusto e la
moda e soprattutto la noncuranza contribuirono a distruggere,
possiamo in qualche modo, sebbene in piccolissima parte, supplire. E'
noto che le antiche opere d'arte ci hanno conservato ricordo delle
foggie, dei costumi, delle suppellettili, degli utensili, degli
ornamenti usati in tempi lontani dai nostri; e per non m' allontanar
troppo dall'argomento, ricorderò, parlando dell'architettura, come
nei secoli XII o XIII si cominciò ad adornare le facciate e le torri
di alcune chiese con bacini e scodelle di terra invetriati e a
colori, detti piatti votivi, che, secondo il Passeri, «posson
chiamarsi le primizie dell' arte della Majolica, la quale ha un
carattere differente dall'antica figulinaria, poiché in questa
s'introdusse una nuova maniera di verniciare, non conosciuta nei
tempi antichi». Se alcune delle prime chiese fiorentine avessero di
questi poveri ornamenti non posso asserirlo, ma è probabile; e forse
ne ebbe la vecchia Santa Reparata, che il cronista Villani disse di
«molta grossa forma». Certamente non ne furono prive alcune chiese
dell'antico dominio fiorentino; e anch'oggi ne rimangono venticinque
tra piatti e scodelle con fregi, stemmi e testine di non rozza
esecuzione, nella
facciata della cattedrale di Sanminiato,
e precisamente [31]
nella parte superiore, che conserva fregi architettonici della prima
costruzione (1).
– (1)
Si congettura che la costruzione della chiesa rimonti al secolo XI,
ma è certo che nel seguente era già ufiziata da sacerdoti nominati
direttamente dalla Santa Sede, come sappiamo da una bolla di
Celestino III del 1194. Del suo ingrandimento non è noto il tempo, e
forse ebbe allora la facciata, che dalle più antiche parti pare
possa appartenere al secolo XIII. Di questi piatti, e della figulina
di Sanminiato dirò in altro capitolo.»
Ancora
il Milanesi, nella stessa pubblicazione, alle pp. 263-264:
«[263]
[…] Ho già accennato
all'antichità della figulina di Montelupo e di Sanminiatello, pur
avvertendo che le memorie scritte non risalgono oltre la metà del
Trecento. Ma io credo che vi s'esercitasse da tempo [264]
immemorabile, molto prima che la Repubblica fiorentina facesse
costruire, nel 1203, il castello da cui il borgo già formato prese
nome di Montelupo. Una prova, non certo molto sicura, che almeno
circa un secolo innanzi alla più antica memoria, l'arte di lavorar
le terre colte vi fosse, si può avere da quelli scodelliti e piatti
murati nella
facciata della cattedrale di Sanminiato,
detto al Tedesco per la residenza dei Vicari imperiali, sulla quale
rimangono ancora tracce della sua prima costruzione, probabilmente
del secolo XIII.
Di
essi fu dato un cenno nel capitolo secondo; ed ora considerando che
Montelupo è distante pochi chilometri da Sanminiato, dove, come
dirò, una fabbrica di maioliche ebbe principio soltanto intorno alla
seconda metà del Seicento, suppongo
quelli scodellotti e piatti delle fornaci di Montelupo.
Fu pure di questa opinione il defunto dott. Umberto Rossi,
intelligente e zelante Conservatore del Museo Nazionale fiorentino:
avutane poi particolare notizia dal canonico Emilio Marrucci di
Sanminiato, studioso delle memorie storiche della sua città, ed
esaminatili com'è possibile a tanta distanza, maggiormente credo
fondata quella congettura. Pare che su fondo di smalto bianco (una
sola scodella l' ha verde chiaro) vi sieno dipinti in turchino cupo
fregi o stemmi, piccole teste e forse animali fantastici. Fra i quali
stemmi sarebbe significativo, ma potrei ingannarmi, quello bipartito
d'una scodella rappresentante un pesce e parte d' un castello, o
ponte con torri.»
Casa
Editrice Sonzogno, Milano, 1928?, frontespizio.
IL
GENERICO APPORTO DEL CAN. FRANCESCO M. GALLI ANGELINI
Tuttavia
la supposizione di Gaetano Milanesi (ripresa dal Soulier) rimase
sconosciuta nell'ambiente sanminiatese, oppure non accolta. Ancora
sul finire degli anni '20 il Canonico
Francesco Maria Galli Angelini,
nel testo di San
Miniato. La Sveva Città del Valdarno
per la Casa Editrice Sonzogno di Milano, parlando della Cattedrale
sanminiatese, ebbe prudentemente a scrivere: «Conserva
però molte opere d'arte: sono pregevoli per antichità le terrecotte
che adornano la facciata infisse nella cortina».
Pare davvero strano, infatti, che il Canonico Galli Angelini –
personalità estremamente vivace nel panorama culturale cittadino, da
anni attento alle vicende storiche sanminiatesi nonché delle
testimonianze artistiche dei secoli passati – avesse potuto
trattare l'argomento senza scendere in ulteriori dettagli.
Più
o meno negli stessi anni il primo studioso di Storia
dell'Architettura che fece un breve accenno ai bacini ceramici
sanminiatesi, fu Mario
Salmi,
nel suo volume L'Architettura
Romanica in Toscana,
Milano-Roma, 1928, a p. 41 n. 30, anch'egli senza scendere in
dettagli.
GAETANO
BALLARDINI E DILVO LOTTI: IL PRIMO CATALOGO DEL 1938
Di
ben altro livello Gaetano
Ballardini (1878-1953),
già Direttore del Museo Internazionale delle Ceramiche di Faenza,
che sulla rivista «Faenza»,
trattò per la prima volta la questione in un contesto specialistico.
Avvalendosi del contributo grafico di un giovanissimo Dilvo
Lotti, propose anche una prima catalogazione delle maioliche smaltate della
Cattedrale di San Miniato.
Il
Ballardini, molto probabilmente, ebbe modo di conoscere la facciata
sanminiatese grazie all'intervento di Piero
Sampaolesi (1904-1980) al II Convegno Nazionale di Storia
dell'Archiettura di Assisi nel 1937, con una relazione dal titolo
Alcuni
edifici romanici in cotto in Toscana (i
cui atti furono pubblicati nel 1939) e i cui contenuti ebbero un
risalto nel panorama culturale italiano del tempo. Anche Ballardini, infatti, aveva inviato un contributo al medesimo convegno.
Da
un punto di vista scientifico, Ballardini si limitò ad osservare i
manufatti compiendone una precisa descrizione stilistica, ma senza
entrare nel merito della provenienza. Solo per un “bacino” si
risolse con sembra
di origine orientale.
Queste le sue parole complete:
«I
BACINI
DI
SAN
MINIATO - Da Firenze a Pisa, costeggiando l'Amo, si giunge alla
cittadina di San Miniato, che si protende come da un balcone sulla
vallata. Il duomo, nella sua facciata romanica, alterata coi
rimaneggiamenti imposti dalla varia vicenda che subì nei secoli
l'edificio, è
decorato
oltre che di elementi decorativi (la rosa, la croce, le losanghe) di
carattere costruttivo, da molti bacini inseriti in muratura, dei
quali venticinque sono supertisti. La tavola I ci dispensa da più
lungo
discorso:
essi sono sparsi con un certo ritmo, al di qua e al di là dell'asse
della facciata, in gruppi di due file oblique, che seguono
all'incirca, in due piani diversi, gli spioventi del tetto.
Le
scodelle, le cui figure qui si pubblicano, hanno diversa sagoma e
dimensione. La maggior parte è
a
fondo non troppo concavo. Quanto a gli ornati, conviene subito dire,
in generale, che i bacini impostati a sinistra dell'archetto
superiore della facciata sono adorni di un motivo di nastro con
foglie o tratti verdi; il gruppo a destra abbonda più degli altri di
figurazioni animali, mentre i due raggruppamenti decorativi in basso
sono formati esclusivamente da bacini dipinti con la stilizzazione
fantastica di una foglia. I soli piatti diversi da questo tipo comune
sono
due:
lo scodellino con decorazione a tratteggi rosso e blu (n. 10)
e
quello con arabesco centrale in verde (n. 12). Anche le due losanghe
incassate nel muro portano nel fondo una scodella con dipinta la
foglia dei gruppi inferiori. Oltre agli ornamenti che potrebbero
avere un significato nella simbologia medievale (il cervo, il pesce
preso all'amo, il drago (tav. 11), altre ve n'ha di carattere
fitomorfo e geometrico; i più sono di senso astratto, linee
parallele, quasi a marezzatura, come vediamo nelle tavole
III,
IV
e V.
Un
bacino verde, a contorno
di
pesci nuotanti, sembra di origine orientale. Anche
la dentellatura in turchino che diversi
bacini ci mostrano sull’orlo ci dà facilmente un’eco di arte
esotica. La quasi totalità è
a
fondo bianco: se ne escludono quello in verde già ricordato, i due
col drago (nn. 2 e 3) e i due ultimi (nn. 15 e 16), il cui fondo
risulta di un verdognolo-gialliccio. Il disegno è
in
bruno nella prima serie, in verde per quelli «marezzati»,
in
turchino per la rosetta (n.
9),
alternativamente bruno e turchino per la scodella n. I0.
Le
linee circolari che racchiudono il campo sono di vario colore:
brunomarrone
(manganese oppure ferro?) e verde in 2, 7, 11,
13,
I 4, 16: solo verde in 3, 12
e
15: solo turchino in 8; il n,
13 porta
anche un
grigio-celeste
nell’ornato «a
cordiglio ritorto»
del
contorno.
Non
ci fermiamo ad accentuare l’alto valore decorativo, ricchissimo,
di queste ceramiche. Vogliamo, invece, ringraziare l’egregio
artista Dilvo Lotti che ne ha tratto dei chiari acquarelli e che io
addito alla riconoscenza degli studiosi per la sua opera volonterosa
ed efficace. Questo bravo giovane, segnalatomi dal direttore del R.
Istituto d’Arte di Firenze, ha dovuto vincere non poche difficoltà
per l’interpretazione dei cimeli di San Miniato, collocati in alto
e non sempre facilmente leggibili per le loro condizioni. Anche gli
ornati in cotto dei due archetti originari sano particolarmente
notevoli.»
G.
Ballardini, I
bacini di San Miniato,
in «Faenza»,
Bollettino del Museo Internazionale delle Ceramiche di Faenza, anno
XXVI, 1938, fasc. I, pp. 17-18.
(dagli
acquarelli originali di Dilvo Lotti)
a
corredo di G.
Ballardini, I
bacini di San Miniato,
in
«Faenza»,
Bollettino del Museo Internazionale
delle Ceramiche di
Faenza, anno XXVI, 1938, fasc. I, pp. 17-18.
Utilizzo ai sensi
dell'art. 70 c. 1-bis della Legge 22 aprile 1942 n. 633
(dagli
acquarelli originali di Dilvo Lotti)
a
corredo di G.
Ballardini, I
bacini di San Miniato,
in
«Faenza»,
Bollettino del Museo Internazionale
delle Ceramiche di
Faenza, anno XXVI, 1938, fasc. I, pp. 17-18.
Utilizzo ai sensi
dell'art. 70 c. 1-bis della Legge 22 aprile 1942 n. 633
(dagli
acquarelli originali di Dilvo Lotti)
a
corredo di G.
Ballardini, I
bacini di San Miniato,
in
«Faenza»,
Bollettino del Museo Internazionale
delle Ceramiche di
Faenza, anno XXVI, 1938, fasc. I, pp. 17-18.
Utilizzo ai sensi
dell'art. 70 c. 1-bis Legge 22 aprile 1942 n. 633
(dagli
acquarelli originali di Dilvo Lotti)
a
corredo di G.
Ballardini, I
bacini di San Miniato,
in
«Faenza»,
Bollettino del Museo Internazionale
delle Ceramiche di
Faenza, anno XXVI, 1938, fasc. I, pp. 17-18.
Utilizzo ai sensi
dell'art. 70 c. 1-bis Legge 22 aprile 1942 n. 633
TOESCA,
LA CONSERVAZIONE E LA NECESSITA' DI UN CATALOGO
Le
problematiche di individuazione, catalogazione e studio dei manufatti
ceramici si protrassero ancora per molto tempo nel generale contesto
italiano del Dopoguerra. Ed erano ben note a Pietro
Toesca,
il quale nel 1951 affermava:
«La
ceramica medioevale ha in Italia i suoi incunabuli in un vastissimo
museo aii’aperto: in antichi campanili e nell’esterno di antiche
chiese. E’ un
museo insidiato assai meno dalle intemperie che dalle sassaiole;
trascurato dalle autorità se pur non intervengano, inconsapevoli o
no, a menomarlo.
[…] in quanto poi
al catalogo, esso è appena abbozzato per qualche insieme ormai
celebre, com'è quello dei bacini di S. Piero a Grado e di altre
chiese pisane, ma chi si è preso, o si prenderà, la briga di
elencare le maioliche di S.
Miniato in Toscana,
di S. Paragorio di Noli, delle chiese di Pavia e di tanti altri
luoghi minori? Certo non è agevole comporre codesto catalogo, sia
pure sommario; e non è facile dargli ordine perchè i dati
cronologici e topografici che si potrebbero indurre dall’età e dal
luogo delle costruzioni sono malsicuri essendo, le maioliche, merce
di facile trasporto e qualche volta messa in mostra come rarità
piuttosto che - e sembra questo il caso più frequente - come
prodotto locale.»
[P. Toesca, Maioliche
decorative nel Duomo di Lucca,
in «Faenza», Bollettino del Museo Internazionale delle Ceramiche di
Faenza, n XXXVII, 1951, fasc. V-VI, p. 94]
M.
L. CRISTIANI-TESTI E LA PRIMA IPOTESI SUL CONTESTO ISLAMICO
La
prima ipotesi sull'origine “d'importazione” da un contesto non
italiano, a proposito dei manufatti in maiolica della Cattedrale di
San Miniato, sembra debba attribuirsi a Maria
Laura Cristiani Testi.
Già nel 1967, infatti, propose di inquadrare la produzione in un
generico ambito islamico, comprendente Egitto, Arabia e Persia e
giunti a San Miniato tramite i floridi scambi dei vicini commercianti
Pisani [M.
L. Cristiani-Testi,
San
Miniato al Tedesco,
Marchi e Bertolli, Firenze, 1967, pag. 42].
La
studiosa si produsse anche nell'elaborare una teoria geometrica a
proposito della composizione formale dei bacini sulla facciata della
chiesa. L'analisi fu aspramente criticata da Dilvo Lotti alcuni anni
dopo, e di cui abbiamo proposto la disamina nel post INTERPRETAZIONI
CERAMICHE.
G.
BERTI E L. TONGIORGI: I PRIMI RILIEVI SCIENTIFICI
Risposero
all'appello di Pietro Toesca, almeno per quanto riguarda il
territorio pisano, Graziella
Berti e
Liana Tongiorgi.
Furono le due studiose, infatti, le prime a collocare i manuatti
sanminiatesi all'interno di un contesto più ampio nell'articolo
Ceramiche
a cobalto e manganese su smalto bianco (fine XII –
inizio
XIII secolo),
in
Atti
del V° Convegno Internazionale della Ceramica -
Aibisola
1972,
Savona,
1972.
E' in questa pubblicazione che viene avanzata, per la prima volta,
l'ipotesi della provenienza magrebina.
Gli
studi di G. Berti e L. Tongiorgi proseguirono anche negli anni
seguenti, come dimostra la pubblicazione dal titolo
I
bacini ceramici delle chiese della Provincia di Pisa con nuove
proposte per la datazione della ceramica spagnola «Tipo
Pula»,
in
«Faenza», Bollettino del Museo Internazionale delle Ceramiche di
Faenza, n. LX, 1974, fasc. IV-VI, di cui proponiamo un estratto alle
pp. 70-71:
«S.
MINIATO
- Chiesa di
S.
Maria
- Ventiquattro bacini superstiti dei trentuno che costituivano la
decorazione originale della facciata della chiesa appartengono al
gruppo a cobalto e manganese su smalto bianco (Berti e Tongiorgi,
1972b, 157, 169, fig. 4,
tav,
X/1, XI, XII), due sono di tipo diverso: quello della posizione n. 7
(tav.
XLIV, c) è
decorato
in bruno su fondo verde, mentre quello della posizione n. 17 (tav.
XLIV, d),
di
cui rimane solo un minuscolo frammento è
a
decorazione policroma su fondo chiaro. Per quanto riguarda il n. 7
l’associazione di questo tipo con bacini a cobalto e manganese ci
riporta alla chiesa di S.
Michele
degli Scalzi in Pisa, dove, insieme ad altri tipi di ceramica,
troviamo appunto il cobalto e manganese su smalto bianco unito ad
esemplari in bruno su smalto verde.
Sebbene
per il momento un’analisi non sia possibile, anche il bacino n. 7
di S.
Maria
sembra eseguito con la stessa tecnica di quelli di S.
Michele.
Tutto il
complesso
ceramico di S.
Maria
di S.
Miniato
fu certamente inserito al momento della edificazione della facciata e
cioè tra la fine del XII e gli inizi del XIII secolo; se si
considera inoltre che fra il materiale raccolto negli scavi di Pisa
(Ferron e Pinard, 1954, 1955) si trovano sia esemplari a cobalto e
manganese che decorati in bruno
su
smalto verde non sembra troppo azzardato ritenere tutti i bacini del
duomo di S.
Miniato
provenienti da un unico centro, probabilmente magrebino.»
Il
primo studio “scientifico”, completo e complessivo, sull'apparato
dei bacini
ceramici
fu compiuto solamente nel 1979, allorché la facciata della
Cattedrale venne interessata da una generale operazione di restauro.
In quell'occasione i manufatti di maiolica furono smurati dalle loro
sedi e, una volta analizzati e restaurati, furono collocati
nell'ambito del Museo Diocesano d'Arte Sacra. Al loro posto vennero
inserite delle copie. Di tutto ciò fu fatta una pubblicazione curata
ancora da G. Berti e L. Tongiorgi, I
bacini ceramici del Duomo di S. Miniato (ultimo quarto del XII
secolo),
CRSM, Sagep Editore, Genova, 1981. Questa pubblicazione ha
rappresentato per oltre trent'anni il punto di riferimento per ogni
altra analisi e pubblicazione.
ALTRE
PUBBLICAZIONI A MARGINE
Ai
manufatti in maiolica venne dedicata anche una scheda, curata da
Mario
Luccarelli,
dal titolo I
bacini del Duomo. Secoli XI-XII
nel più ampio volume AA.VV., Tesori
d'Arte Antica a San Miniato,
CRSM, Sagep Editrice, Genova, 1979, alle pp. 16-18, facendo il punto
degli studi fino a quel momento noti, ma senza tuttavia aggiungere
novità.
L'anno
seguente, Dilvo
Lotti
in San
Miniato. Vita di un'antica città,
CRSM, Sagep Editrice, Genova, 1980, a p. 360 scriveva: «Sulla
facciata del Duomo le preziose scodelle, provenienti come le pisane
dal mondo arabo-spagnolo, o dalla costa africana mediterranea, anche
se è possibile ingabbiarle nella proposta partitura geometrica della
Testi, (a posteriori si possono trovare infinite motivazioni e
orditure) l'idea teologica avanzata dall'amico Lorenzo Cavini, 1969,
è la più attendibile».
Le stesse identiche parole furono usate da Dilvo Lotti anche l'anno
seguente alla p. 84 del volume San
Miniato nel Tempo,
il catalogo della mostra che fu stampato da Pacini Editore, Pisa,
1981.
L'interesse
del pittore sanminiatese, forse dimentico del lavoro svolto nel 1937
con Gaetano Ballardini, si dimostrò rivolto soprattutto alla
questione compositiva e iconografica, in decisa polemica con quanto
aveva proposto Maria Laura Cristiani Testi nel 1967. Di questo
particolare, tuttavia, ce ne siamo occupati nel post INTERPRETAZIONI
CERAMICHE.
GLI
ANNI RECENTI E L'ULTIMO CATALOGO
Più
di recente, l'occasione della mostra La
luce del mondo. Maioliche mediterranee nelle terre dell'Imperatore
[Palazzo Grifoni, 2 marzo – 19 maggio 2013]
è stata utile per riportare l'attenzione sui bacini
ceramici
sanminiatesi, di cui si trova una schedatura completa all'interno del
catalogo a stampa. L'indagine è stata curata da Fausto Berti (da molti anni Direttore del Museo della Ceramica di Montelupo) e Marta Caroscio [F. Berti e M.
Caroscio, I
bacini “cobalto e manganese” della cattedrale di San Miniato,
in La
luce del mondo. Maioliche mediterranee nelle terre dell'Imperatore,
a cura di F. Berti e M. Caroscio, Noédizioni, Firenze, 2013, pp.
143-179].
In questa pubblicazione è proposta un'ampia analisi circa l'impasto, il rivestimento a cobalto e manganese, la pittura e i pigmenti, le caratteristiche della cottura.
Infine viene proposto il dettagliato catalogo dei 24 elementi
presenti nella facciata della Cattedrale sanminiatese, trattati uno ad uno, con l'indicazione delle dimensioni e delle caratteristiche peculiari di ciascuno.
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