[testo originariamente pubblicato sul sito
www.dellastoriadempoli.it,
che ringraziamo per la gentile disponibilità]
di Claudio Biscarini
Misteri,
misteri: ma quali misteri?
Spesso
le cose ci sfuggono ma poi le riacchiappiamo. Mi è capitato, in una
delle mie frequentissime visite alla libreria Rinascita, di
acquistare un volume ormai datato 2014 di Enzo Cintelli dal titolo
San Miniato settant’anni dalla Liberazione. Come supponevo,
la “liberazione” ha voluto dire, per l’autore, un lungo
ragionamento sulla strage del Duomo.
Ringrazio
Cintelli di aver specificato che, da storico di razza (parole
sue e non mie) non mi guida nessun pregiudizio politico
nell’affrontare questo tema. Nello stesso tempo, vorrei ancora una
volta cercare di spiegare i misteri che Cintelli ancora
ritiene ci siano in questo dramma.
Partiamo
dalla questione dei partigiani che sapevano che ha fatto
irritare, così mi è parso, l’autore del volume sopra citato.
Tutto parte (carta canta) da quanto scritto nel rapporto americano
che trovai anni or sono nei National Archives & Records
Administration di Washington e che dice:
Message
from Lookout 2: Partisan report that yesterday someone shooting in
the vicinity of S. Miniato hit a church and killed 30 Italians and
wounded about a 100. Wounded are in hospital at 4699/5998, not be
fired upon. Town of S. Miniato is heavily mined and booby –
trapped.
In
buona sostanza, la comunicazione del posto di osservazione 2
statunitense riporta che: un partigiano (Partisan) riferisce
che ieri (il documento porta la data del 23 luglio e quindi in
maniera inequivocabile ci si riferisce al 22) qualcuno ha sparato
vicino a S. Miniato colpendo una chiesa e causando 30 morti e 100
feriti. Tutto qui. Mai ho asserito che il partigiano, o i partigiani,
avessero saputo che la granata era americana ma solo che durante un
cannoneggiamento qualcuno aveva sparato sulla chiesa causando
30 morti. Che c’è di misterioso o di offensivo nei confronti dei
partigiani non riesco a capirlo.
Del
resto, lo stesso Cintelli riporta quanto scritto da Barzacchi
sull’episodio di un tenente dei bersaglieri partigiano in
borghese che cerca di radunare gente per portare aiuto ai feriti.
Quindi, un combattente alla macchia seppe di sicuro subito quel che
era accaduto, ovviamente senza conoscerne i particolari. Potrebbe
essere lui il partisan ricordato nel rapporto. Quel che è
strano, in quelle poche righe, è che l’uomo non dice agli
americani che sono stati i tedeschi a fare la strage, cosa che,
secondo Barzacchi e i fautori della mina, si seppe subito o almeno si
suppose subito, ma un generico someone. Pensate che bella
propaganda sarebbe stata per gli Alleati sapere che i perfidi
germanici avevano straziato la popolazione dopo averla chiusa in una
chiesa! C’è un altro particolare che mi induce a pensare che,
almeno qualche dubbio sui responsabili della strage, il partisan
doveva averlo perché comunica che i 100 feriti sono stati
portati all’ospedale, di cui fornisce le coordinate, con l’invito
a non spararci sopra (pare che abbia voluto dire come avete fatto
con la chiesa).
Ricostruire
una strage è come affrontare un delitto: se non si dà ai fatti una
funzione logica è inutile pensare alla psicologia del criminale, in
quanto non si avrà nessun colpevole.
La
funzione logica è questa: intorno alle 10,15 del 22 luglio 1944, il
337th US Field Artillery Battalion tirò una prima salva di
obici da 105 mm seguita da una nuova salva alle 10,30 sparata tra il
Duomo, la chiesa del SS. Crocifisso e lo sdrucciolo dei Mangiadori.
Punto. Queste salve di artiglieria sono ricordate da numerosi
testimoni presenti in chiesa in pratica alle stesse ore,
testimonianze che anche Cintelli riporta. Nello stesso tempo, una
esplosione si ode nel luogo sacro ed è quella che causerà subito 28
morti (ricordate i 30 riportati dal partisan agli americani?).
Ora, a meno che non si voglia dar valore all’assurda tesi che una
bomba tedesca sarebbe scoppiata in concomitanza con il
cannoneggiamento americano (un accordo sugli orari tra G.I. e
Panzergrenadier?), come si spiega la cosa se non con l’arrivo
di un proietto statunitense? Andiamo avanti.
Cintelli
riporta almeno tre casi in cui i tedeschi, in risposta ad attacchi a
loro uomini, abbiano minacciato rappresaglie: i fatti della Catena,
la morte del tenente in Chiecina e l’attacco ai Cappuccini. Tutto
in perfetta sintonia con la strategia del massacro operata dai
germanici che voleva che la punizione fosse palese in modo da
rompere quell’equilibrio, se esisteva, tra Resistenza e popolazione
e in modo da far vedere chiaramente che chi toccava un tedesco
rischiava la morte. Tutto questo non si abbina né si potrà mai
abbinare – e chi si occupa di guerra ai civili,
anche se fa finta di non saperlo, lo conosce benissimo – con
quanto accadde in Duomo.
Altro
argomento: la granata fumogena americana arrivata anch’essa in
concomitanza con lo scoppio tedesco. Come dice giustamente anche
Cintelli, un proietto fumogeno aveva la caratteristica di spezzarsi
in schegge molto grandi, e non piccolissime come una granata
esplosiva, e aveva un involucro più fine nonché sprigionava una
tale quantità di fumo che ci sarebbero sicuramente stati dei morti
per asfissia, cosa che non risulta (i morti per asfissia, anche ad
occhio nudo, sono ben riconoscibili). In più, se è vero come è
vero che tra le 10,15 e le 10,30 l’artiglieria statunitense stava
sparando sulla città, ovviamente sotto l’occhio attento dei propri
ufficiali osservatori, perché mai avrebbe dovuto usare proietti
fumogeni che vengono utilizzati per mascherare un obiettivo?
Veniamo
al fatto che i tedeschi avrebbero messo la gente in Duomo per poterla
uccidere meglio. In realtà, la spiegazione logica che l’ufficiale
comandante volesse tutelarsi da possibili attacchi partigiani mentre,
con scarsi effettivi, doveva fronteggiare sia gli americani che
minare le case, non piace a Cintelli e nemmeno a chi, mesi fa,
ironizzando dichiarò che sarebbe stata la prima volta che un
ufficiale tedesco si preoccupava di mettere al sicuro degli italiani.
Invece,
rivendico questo fatto e lo stesso Cintelli me ne fornisce i motivi.
Barzacchi, ad un certo punto, dichiarò che i partigiani venivano
spesso, facevano la spola tra S. Miniato e il fronte alleato per
tenere gli Americani al corrente di quel che si faceva in città.
Quindi, la possibilità di attacchi alle spalle dei pochi
tedeschi, o almeno la segnalazione dove essi avrebbero posizionato
le mine, esisteva ed era concreta. Quindi, l’ufficiale che fa?
Prima dice di radunare gli uomini in piazza e le donne e bambini in
due chiese dove, ovviamente, servendosi di pochissimi uomini può
controllarli. Gli uomini, invece, dovevano essere trasportati fuori
città. Poi ci ripensa, forse perché si rende conto che per fare
questa manovra egli avrebbe dovuto distaccare tripla guardia, una
alle chiese e una per gli uomini, e non aveva le forze per fare tutto
con il rischio che qualcuno gli scappasse e andasse dritto
dritto dal suo avversario. Allora
decide di concentrare anche i maschi in Duomo e in S. Domenico.
Quanti
erano questi tedeschi e, soprattutto, come erano? Qualcuno, citato da
Cintelli, parla di dieci soldati in tutta la città. Non è vero,
erano di più. Circa 40 e dovevano minare le case, guardare i civili
e contrastare gli americani. Non erano molti. Barzacchi li definisce
dagli occhi diabolici, dalla faccia bestiale intenti a
guardare l’orologio in attesa (lo si deduce) dello scoppio della
mina a tempo. Ma lo stesso Barzacchi ci offre, invece, la possibile
soluzione a questo piccolo mistero: ci tenevano chiusi per essere
liberi di radere al suolo S. Miniato con la dinamite. Già, e se
i biechi tedeschi avessero guardato l’orologio per capire quanto
tempo ancora occorresse per piazzare le mine alle case? Del resto,
già dal 20 avevano iniziato le demolizioni che ripresero all’alba
del 23. E se il 22 gli fosse servito solo per finire di piazzare gli
ordigni?
Mario
Caponi, invece, ci descrive un militare dopo lo scoppio, in fondo
al corridoio, prima dell’uscita, un soldato tedesco era appoggiato
alla parete, mitra sul fianco con la canna rivolta a terra, immobile,
con lo sguardo assente, fisso alla parete di fronte, bianco in faccia
come un morto, sembrava non vedere nulla. La madre di Mario lo
assale, questo militare giovanissimo non si difende, resta così,
immobile, schiacciato dalla paura e dallo choc. Siamo distanti dagli
sguardi diabolici, ma la reazione di questo ragazzo (lo si
descrive molto giovane), per chi si occupa di “guerra” come me, è
molto più logica di fronte ad un evento non previsto. Ci sono, poi,
le strane testimonianze di Mons. Giubbi e di certo Fabio F., spia al
soldo del nemico, che ricordavano l’intervento di militari tedeschi
a soccorso dei civili feriti. Strano davvero, prima li ammazzano e
poi, invece di finire l’opera come di solito facevano, vanno al
soccorso. Oppure, siccome chi testimoniò esce dal novero di coloro
che non appartenevano a una certa squadra di opinione (l’uno spia,
l’altro quasi accusato di connivenza) le loro testimonianze,
contrapposte ai ghigni notati dal Barzacchi, non hanno lo stesso
valore?
Veniamo
alla mina in Duomo. Cintelli, servendosi anche di un
noto ”esperto” della materia, ci dice che un oggetto
esplosivo (quale? mina antiuomo? mina Teller anticarro?
plastico T4? con quali inneschi?) poteva essere stato posizionato
sulla balaustra, che appare distrutta nelle foto Barzacchi, senza che
nessuno se ne accorgesse perché poteva essere stata piena di pacchi
e pacchetti dei reclusi. Bene, ammesso e non concesso che questo sia
stato vero, quando i primi si posizionarono vicino alla balaustra,
avrebbero notato sicuramente una borsa, un sacco solitario lì
appoggiato anche solo per chiedere di chi fosse. Una mina non poteva
essere stata messa sulla balaustra così, solo appoggiata. Da
scartare è l’introduzione nella famosa cassapanca che si sarebbe
trovata sotto la balaustra, o giù di lì.
Come
giustamente dice Cintelli, citando la strage del 12 dicembre 1969
alla Banca dell’Agricoltura a Milano, sul pavimento si creò una
profonda buca perché la borsa con l’ordigno era stata posata a
terra. Nelle foto Barzacchi non si riscontra nessuna buca (o fornello
da mina) simile sul pavimento della chiesa. I tedeschi avevano timer?
Certamente sì, ma per confezionare le booby traps, di cui
erano maestri, usavano anche inneschi a tempo limitato (time fuze
da 8 a 15 secondi). Uno degli orologi a tempo usati dai tedeschi,
quando azionato, poteva far esplodere una carica da un minimo di un
minuto a 21 giorni dopo. Ma doveva essere montato su un grosso
ordigno. Certamente, si potevano utilizzare anche normali orologi ma,
purtroppo per i fautori della bomba a tempo, per far deflagrare una
carica avevano bisogno di fili elettrici che non furono visti da
nessuno. Altri inneschi erano a pressione o a strappo, e questi ci
pare improbabile che siano stati usati nel Duomo per azionare una
carica: chi era vicino avrebbe visto il detonatore a meno che non
fosse stato sotto il pavimento o piazzato, con dei fili, attraverso
la stanza. Cintelli, nel volume, si rammarica di non aver avuto
informazioni sui sistemi di innesco tedeschi. Voglio, pur rischiando
di essere noioso, dargli informazioni in merito specificando che la
quasi totalità degli inneschi si riferiscono a quelli a strappo, a
pressione e a rottura usati prevalentemente nell’uso delle mine S,
Schu, antiuomo, e Teller anticarro.
Accenditori
tedeschi:
S.Mi
Z 35 a pressione, usato sulla mina S; S.Mi.Z 44 a pressione, idem;
ZZ42 a pressione usato con la mina Holz 42; R.Mi.43 Z a
pressione, usato con la mina Riegel; Hebelzünder
a pressione, usato con la mina Glass 43; chimico Buck a
pressione, type I e II, usato con la mina A.200; D.Z. 35 a pressione
Type A e B; ZZ 35 a strappo; ZUZZ 35 a tensione e a strappo; ZUZZ 35
modificato; elettrico E.S. Mi Z 40 a pressione; Zdschn Anz. 29 a
frizione; Zdschn Anz. 39 a frizione, usato come sistema antirimozione
con le Teller mine; BZE a frizione e con funzionamento
ritardato (testa sferica di colore bleu ritardo di 4 secondi, testa
rossa ritardo di 1 secondo, testa gialla ritardo di 7 secondi); B.Z
24 a frizione; ad asta Kippzünder 43 usato con
le mine anticarro; ad asta Ki.Z 43 modificato, idem; a rottura
Knichzünder 43/1; a rottura Kn.Z. 43/2; a
rilascio di pressione E.Z. 44 (Entlastungzünder
44).
Tutti
questi accenditori abbisognavano o di fili, o di pressione, o di
strappo o di mine e non avevano nessun effetto ritardante. L’unica
eccezione era l’accenditore ad orologeria a lungo ritardo J. Feder
504, usato con grosse quantità di esplosivo per distruggere
abitazioni che i tedeschi presupponevano che gli alleati avrebbero
usato (01). Aveva, come ho già detto, la possibilità di
venire ritardato fino a 21 giorni e 24 ore grazie a due dischi che
giravano in senso antiorario, posti nella parte superiore del
congegno. Un disco agiva sui giorni l’altro sulle ore. La
graduazione dei dischi si poteva controllare da una finestrina chiusa
da un vetro dove, dentro, era scritto Rot= tage (giorni) e
Shwar=Stunden (nero-ore) (02). Ma, come ho detto ,
questo innesco veniva adoperato, anche perché era abbastanza
voluminoso, con grosse cariche di demolizione che, se fossero state
usate in Duomo, avrebbero fatto danni e morti in misura molto
maggiore. Spero di aver soddisfatto la curiosità di Cintelli,
altrimenti il consiglio è di leggersi alcuni manuali stesi
dall’esercito americano sul problema delle trappole esplosive (03).
C’è
poi tutta una dotta disamina sulla granata P.D. Fuze M48 da cui si
deduce che il tempo intercorso tra lo sparo, la penetrazione in
chiusa, la carambola sul marmo dei Maestri Comacini e lo scoppio
finale, sarebbe stato troppo lungo per un proietto con spoletta
ritardata a 0,05 secondi. La cosa è opinabile, in quanto proprio la
velocità di uscita del proietto dalla bocca dell’obice da 105 mm,
uno dei migliori della seconda guerra mondiale tanto che viene usato
anche oggi, dimostra che esso aveva tutta la possibilità di agire
anche in quei pochi decimi di secondo. Non solo, ma come mi confermò
un ufficiale dello stesso 337th US Field Artillery, gli
americani usavano anche proietti antifanteria che scoppiavano non
all’impatto primario ma dopo essere penetrati dentro un
edificio. La lettera è a completa disposizione degli “esperti”.
Interessanti
(già noti a chi ha letto il nostro Arno-Stellung) i rapporti
dell’ufficiale 1c della 14. Armee. Peccato che, ad esempio,
nel TM (04) del 23 luglio non si sciolga la numerazione
relativa al 26/19 che si collega a quella di Castelnuovo. Infatti, a
quella data il 26/19 era l’incrocio che da La Dogana porta a Coiano
e, verso la statale 429, a Granaiolo. Siamo un po’ lontani da San
Miniato. I TM del 22 luglio riportati da Cintelli a p. 51 non possono
costituire prova in quanto si riferiscono all’intero settore
operativo della 14. Armee che andava dal Tirreno ai Monti del
Chianti.
C’è,
infine, un’ultima cosa: a p. 26 del suo libro, Cintelli ha
pubblicato una foto e nella didascalia dichiara priva di fondamento
la tesi mia e di Lastraioli relativa al punto di penetrazione del
proietto in Duomo, e non capisco perché visto che, pagine prima, si
era sperticato a dimostrare che, se oggi il rosone da cui entrò la
granata è chiuso, tale non lo era nel 1944.
Concordo
con Cintelli che gli esperti di cose militari ( quelli veri e
non improvvisati (05)) spiegano con dotta competenza
traiettorie, scoppi, potenze, ritardi e che al semplice cittadino
abbia il diritto di avere dei dubbi. Purtroppo, la vicenda di San
Miniato ha bisogno anche di questi riscontri per essere capita. Fu un
dramma collettivo, e questo può assolutamente essere una
giustificazione a chi ancora oggi crede alla bomba tedesca: il dolore
è spesso cattivo consigliere. Avere dei dubbi può essere, quindi,
lecito ma cercare addirittura dei misteri mi pare eccessivo.
Foto
di Francesco Fiumalbi
NOTE
(01)
Il 7 ottobre 1943 uno di questi
ordigni fece saltare le Poste Centrali di Napoli causando diversi
morti. Di solito, questi inneschi ad orologeria, per causare più
danno, venivano posti con l’esplosivo nelle cantine e nei
sotterranei.
(02)
Ministero della Guerra, Ispettorato Bonifica Immobili da ordigni
esplosivi, Mine e
bonifica dei campi minati,
vol. I, mine, ordigni
esplosivi e congegni vari di accensione,
Roma, Istituto Poligrafico dello Stato 1946, pp. 227-273.
(03)
Cito solo
due: Booby
traps,
Bureau of Naval Personnel, Navy Department, Washington D.C., United
States Government Printing Office, 1944; Department of the Army Field
Manual FM 5-31, Boobytraps,
Headquarters, Departments of the Army, September 1965.
(04)
Tagesmeldungen,
rapporti giornalieri della 14. Armee.
(05)
A questo proposito, a p. 218
del suo volume, Cintelli riporta la lettera di un soldato americano
che ha combattuto a San Miniato. Pur servendosi di esimi noti
“esperti”, Cintelli non è riuscito a sciogliere le sigle che si
riferiscono ai reparti dove militò quest’uomo, scrivendo, ad
esempio, 362 nd Int st Divisione, al posto di 362nd Infantry 91st
Division, ovvero 362° reggimento fanteria della 91a Divisione, e st
Inp F comp B 362 ud inp, al posto di 91st Infantry, Company B, 362nd
Infantry, ovvero 91a Divisione fanteria, compagnia B, 362°reggimento.
Senza polemica, l’amico Cintelli si serva di veri esperti in ogni
caso.
Un grande grazie all'autore sempre convincente e all'editore che non manca di dare voce alle "cose serie" sui fatti del duomo
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