Estratto
da G. Piombanti, Guida della Città di San Miniato al Tedesco. Con
notizie storiche antiche e moderne,
Tipografia M. Ristori, San Miniato, 1894, pp. 80-84.
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PIAZZA
DEL DUOMO E ROCCA
Era
questa piazza con tutto il colle da forti mura circondata, le quali
chiudevano e difendevano l’antica citadella. Da quattro parti si
poteva andare. Dalla porta alle
cornacchie,
o porticciola, munita di torre, che era sulla via, ora scendente al
nuovo passeggio, demolita nel 1847, allorché quel passeggio fu
fatto; dalla porta dello
sdrucciolo,
al palazzo della Signoria sottostante, oggi del vescovo; da quella
accanto alla torre, ridotta poi a campanile, e dalla porta che
sottostava al palazzo dei vicari. L’illustre naturalista mons.
Michele Mercati, verso la fine del secolo XVI, acquistava dal governo
l’area abbandonata dell’antica fortezza su cui sorgeva la rocca.
Ridottala a coltivazione, dov’era la cadente chiesa di S. Michele,
edificò una villa, oggi Donati, ottenuto che ebbe di poterla
dissacrare e di trasportarne il titolo a S. Stefano. Dalla opposta
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parte, dove ora tu vedi una casa colonica, sopra S. Francesco, fu
l’altra chiesetta di S. Biagio. Il più alto fortilizio intorno
alla rocca, e le mura circondanti la piazza del duomo, per inalzare
la chiesa del Crocifisso vennero smantellati. La torre o rocca, dal
municipio e dal governo restaurata nel 1890 e 91, sebbene in sei
secoli sia stata dai fulmini scoronata, si eleva ancora incrollabile
dalla cima del colle per metri trentasette. «Ma di lassù che
stupenda veduta! A ponente il mare, a levante il Casentino e i monti
senesi, a tramontana gli appennini di Pistoia, a mezzogiorno i poggi
di Volterra e della maremma toscana! Chi sta su quella punta, gli par
d’essere come nel centro d’un circolo, la cui periferia non
chiude la vista, ma n’è quasi termine naturale, che la riposa. Da
una parte fanno semicerchio i selvosi appennini, che dalle Alpi
apuane, giù giù pei monti di S. Marcello, di Firenze, del Casentino
e di Siena, vengono ai colli maremmani, e sotto le Alpi vedi lontano
il mare, che brilla d’una lunga striscia di luce al sole cadente, e
il pian di Pisa e di Lucca e la Valdinievole con cento castelli sulla
china dei monti, e il Valdarno, che par tutto una città. Dall’altra
parte è un ondeggiare di colli, proprio come onde marine, fino a
Volterra e a Montenero, sicché li diresti una grande pianura solcata
in valli dal diluvio, quando ritiravansi l’acque verso l’oceano.
Ed ogni [082]
cima di colle ha la sua chiesetta, ed ogni pendice le sue case
rusticali o ville signorili, ed ogni valle il suo fiumicello; e tutte
le convalli si girano verso la valle dell'Arno, e d'ogni lato
l'occhio ritorna a questo paradiso, nel cui seno serpeggia il fiume
reale, specchiando in sé fitte, e, quasi direi, gremite, le belle
terre, i castelli, le chiese, le ville, e case innumerevoli e candide
d'agricoltori. Oh che bei luoghi! oh luoghi divini! – Mirate, noi
siamo quasi nel mezzo d'Italia. Sotto quel monte aguzzo, che si
chiama Verruca, giace Pisa, la terra natale di Galileo, l'antica
signora del mare; e lungo i monti più là è Genova, la patria del
Colombo; varcati quei monti, si va nel Monferrato, e poi a Torino,
nella piccola nostra Macedonia, fatta grande dalla pietà e dal
costume guerriero de' suoi re e del suo popolo. Quelle sono le
montagne del Pistoiese, ove la nostra favella suona sì pura ed
armoniosa nei canti dei montanari; e là è S. Marcello e Gavinana,
ove Francesco Ferruccio fu prodigo dell'anima grande alla patria.
Indi si valica in Lombardia bella, che ha scontate a sì caro prezzo
le discordie di sue città, un dì sì potenti e fiorite; e là vive
il Cantù, e là nacquero Virgilio e l'Ariosto. Su quel nodo di monti
in fondo sorge Fiesole, la città etrusca, una di quelle città, onde
Roma trasse tanta parte del suo vivere civile; e più sotto è
Firenze, che vide le spalle d'Arrigo imperatore e di Carlo [083]
re, patria dell'Alighieri, Atene d'Italia. Sui gioghi più lontani il
poverello d'Assisi rinnovò in sé l'immagine della passione di
Cristo e si offerse a Dio per questa sua misera terra piena di
peccato e di discordia. Di là si scorge l'Adriatico, sposo infedele
della cara Venezia, che fiaccò tante volte l'orgoglio ottomanno, e
parve al mondo quasi Roma novella; e giù per quei monti da una parte
discende l'Arno, che corre presso ad Arezzo, cuna di Mecenate, del
Petrarca, del Cesalpino e del Redi; e dall'altra si muove il Tevere,
che affrettasi verso la città di Quirino e di S. Pietro, alla
sublime Roma, di cui negli antichi e nei nuovi tempi, dopo quello di
Dio, non suonò mai nome più grande sotto la volta de' cieli.
Volgetevi in qua; vedete come nel sereno dell'orizzonte si
distinguono nettamente le torri dell'etrusca Volterra, onde le copie
in alabastro delle statue greche e nostre vanno per tutte le parti
del mondo; e movendo l'occhio per la cerchia de' colli, mirate, noi
andiamo a terminare in quella punta, che è Montenero, ove d'inalza
il Santuario della Madonna; e là, quando leva e quando getta
l'ancora, volge lo sguardo il nocchiero. Dal porto di Livorno
sciolgono le navi, che passando vicine al lido sottostante a quella
lunga a quella lunga fila di poggi, rasentano poi Fiumicino. Il
navigante, salutata da lungi la cupola di S. Pietro, dopo non molto,
vede le deliziose colline di Posilipo e di Mergellina, e il biforcuto
Vesuvio; e ricorda gli antichi [084]
popoli, de' quali non ebbe Roma più valorosi soldati, e le glorie
della Magnagrecia, e la battaglia di Velletri, e la divina musa del
Tasso, e l'Aristotile santo d'Aquino. Fuggono poi dinanzi agli occhi
il Capo Miseno, Baia, Cuma e Sorrento, e in breve ora scorgersi i
monti di Sicilia, sprone d'Italia, margherita del mare, tesoro di
stupende rovine, patria d'Empedocle e d'Archimede, la quale aspetta
glorie novelle, quando noi, fatti migliori, placheremo lo sdegno di
Dio. (21) [VAI ALLE NOTE ↗]»
La Rocca vista dal Campanile del Duomo
Foto di Francesco Fiumalbi
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