ARCHIVIO DOCUMENTARIO DIGITALE DI SAN MINIATO [ADDSM]
ADDSM – 1022, 1 novembre – AAPi – Ventrignano Cumulo
In
questo post è proposto il commento al documento ADDSM – 1022, 1 novembre – AAP
– Ventrignano, che risulta interessante per il territorio sanminiatese per
alcune informazioni collaterali, rispetto all'oggetto specifico dell'atto, e
riguardanti due località: Ventrignano e Cumulo.
L'ATTO E I PROTAGONISTI Quello proposto è una
cosiddetta Cartula fondationis, ovvero il documento attraverso il quale
diversi membri della casata dei Della Gherardesca fondarono pro remedio anime l'abbazia di San Giustiniano di Falesia, nei pressi
dell'antico porto di Piombino, che al tempo, ancora non esisteva. I
protagonisti sono il Conte Ugo (Ugo I, i cui discendenti furono i “Conti di
Castagneto”), assieme ai suoi fratelli Gherardo, Guido, Tedice, Rodolfo ed
Enrico, figli del fu Conte Tedice, e quindi nipoti di Gherardo, capostipite
della casata (morto nel 967).
Come
rilevato da Maria Laura Ceccarelli Lemut, questo atto risulta essere
significativo perché contribuì ad accrescere il prestigio familiare, attraverso
l'instaurazione di nuovi o rinnovati rapporti con la Santa Sede e, di fatto,
consolidando la presenza dei
Gherardeschi sulla costa maremmana [per approfondire si veda M. L. Ceccarelli
Lemut, I Conti Gherardeschi, in I ceti dirigenti in Toscana nell'età
precomunale, Comitato di Studi sulla storia dei ceti dirigenti in Toscana,
Atti del 1° Convegno, Firenze, 2 dicembre 1978, Pacini Editore, Pisa, 1981, p.
174].
L'ABBAZIA L'abbazia
era un cenobio maschile che seguiva la regola di San Benedetto, fondato nei
pressi di una precedente chiesa dedicata a San Pietro, e posta sotto la
Protezione Apostoloca. I Della Gherardesca si riservarono tuttavia il diritto di giuspatronato.
All'Abbazia si legarono le vicende del castello di Piombino che sorse nel corso
dell'XI secolo [per approfondire: M. L. Ceccarelli Lemut, Il monastero di S.
Giustiniano di Falesia e il castello di Piombino (secoli XI-XIII), Biblioteca
del Bollettino Storico Pisano, Pacini Editore, Pisa, 1984].
A partire dal X secolo, le pergamene
pervenuteci registrano innumerevoli atti di questo tipo, attraverso i quali,
personaggi privati, prevalentemente laici, effettuarono fondazioni o copiose
donazioni di beni. Beneficiari di questi, chiese e oratori privati, ma anche
istituzioni monastiche o curie episcopali. Negli ultimi anni, gli studiosi si
sono molto soffermati a cercare di comprendere questo fenomeno, così ampio ed
esteso. Senza entrare troppo nei dettagli della questione, l'interpretazione
più diffusa riconosce tali donazioni, apparentemente dettate solo da esigenze
di tipo spirituale, anche come l'espediente giuridico per gestire sotto altra
forma i grandi patrimoni delle maggiori casate comitali e marchionali della
Toscana. Non ci dobbiamo scordare, infatti, che i monasteri e le strutture
ricettive come gli ospedali, erano quasi sempre esenti dai pagamenti tributari.
Di contro, i membri delle famiglie esercitavano una grande influenza su quelle
stesse istituzioni religiose destinatarie delle donazioni, anche riguardo la
gestione degli stessi patrimoni, divenendone quindi i “patroni”, cioè
esercitando i diritti di “patronato”. Significativo, da un punto di vista
linguistico, il fatto che fra le parole “patroni” e “padroni” ci sia una sola
consonante di differenza, lasciando intuire una sfumatura che nei fatti non fu
sempre così netta e precisa. Per descrivere il fenomeno, gli storici, ed in
particolare Wilhelm Kurze, hanno creato la definizione di “monasteri privati”,
associandola a quelle comunità religiose che avevano beneficiato di ingenti
donazioni da parte di ricche famiglie; da un punto di vista storiografico forse
non è propriamente corretta, come definizione, ma senz'altro indicativa [in
proposito W. Kurze, Monasteri e nobilità
nella Tuscia Altomedievale, in W. Kurze, Monasteri e nobiltà nel Senese e nella Toscana Medievale, Accademia
Senese degli Intronati, Siena, 1989, pp. 295-316].
I GHERARDESCHI E CUMULO. Fra i beni che i sei fratelli dichiarano di privarsi per la
fondazione dell'Abbazia, figura anche la Curtem nostra de Cumulo. Questa
località si trovava nei pressi di Agliati, e fino al 1928 faceva parte del Comune di San Miniato, prima di
passare a quello di Palaia.
Non si tratta, tuttavia, della prima
attestazione, che risale ad una ventina di anni prima. Nell'anno 1004, il Conte
Gherardo II (figlio di Gherardo I, capostipite dei Gherardeschi), fondò
l'Abbazia di Santa Maria di Serena in Val di Merse, presso Chiusdino,
dotandola, fra i vari beni, con medietate de Castello de Cumulo cum Corte [in
proposito ADDSM – 1004 – ASFi – Abbazia di Serena]. Quindi già nei primi anni
dell'XI secolo in loc. Cumulo era presente un castello, fondato su una
corte, e controllato dai Della Gherardesca. A tal proposito, è significativo il
fatto che a distanza di pochi anni i possedimenti di Cumulo siano
indicati nelle disponibilità di Gherardo II, per una metà, e dei figli di
Tedice I, suo fratello, verosimilmente per la restante metà. Dunque si può
ragionevolmente pensare che la più antica curtis di Cumulo,
incastellata precocemente già nel X secolo, facesse parte delle proprietà che
perverranno a Gherardo I, il capostipite.
LA CURTIS. In estrema sintesi, la curtis era una sorta di “azienda agricola”,
caratterizzata sia da elementi romani che da elementi germanici, e
rappresentava l'anello di congiunzione fra la struttura latifondistica delle
grandi proprietà comitali, marchionali e signorili (laiche ed ecclesiastiche) e
le singole realtà territoriali, caratterizzate da particolari situazioni
socio-economiche e da specifiche risorse peculiari. La curtis di solito
era strutturata in due parti, una direttamente controllata dal proprietario (pars
dominica), generalmente raccolta ad
un nucleo centrale dove era presente anche una sorta di edificio padronale, la casa
dominicata, e una parte data in gestione ad altri soggetti, prevalentemente
coltivatori diretti, detti “massari” (pars massaricia). Questa seconda pars
massaricia era suddivisa in unità singole, i mansi o le case
massaricie, detenute dai coltivatori che annualmente corrispondevano un
censo, in denaro o in prodotti agricoli. E' nell'evoluzione della curtis
medievale che possiamo intravedere la formazione del ben noto sistema
mezzadrile [per chi desidera approfondire si rimanda a R. Boutruche, Signoria e feudalesimo, vol. 1, Ordinamento
curtense e clientele vassallatiche, Il Mulino, Bologna, 1971, pp. 77-125].
LA CURTIS DI CUMULO. Nell'atto in questione la curtis di
Cumulo viene descritta cum donicatis, ovvero con quei terreni che
costituivano la porzione spettante al diretto controllo del proprietario, il dominus.
Oltre a ciò viene registratata anche la presenza degli angariis, ovvero
di quei “tributi”, o “obblighi”, che i braccianti, i coloni o i massari
dovevano garantire al dominus, come parte integrante del contratto di
lavoro o di affitto (generalmente del tipo a “livello”). Spesso non si trattava
di un vero e proprio tributo in moneta, quanto piuttosto di un obbligo
prestazionale, che poteva riguardare particolari lavorazioni o la manutenzione
degli edifici e delle infrastrutture, al fine di garantire il mantenimento del
livello di produttività della curtis. Da questo termine deriva anche la
moderna parola “angherìa”, a sottolineare l'aspetto massivo dell'obbligazione,
che spesso sfociava in vere e proprie forme di abuso.
Inoltre, dalla descrizione relativa
alla curtis di Cumulo, sappiamo che era costituita anche da oliveti,
boschi, campi coltivati e incolti. La circostanza secondo cui gli olivetis
sono menzionati per primi, potrebbe suggerire l'idea che quella fosse la
destinazione prevalente dei terreni donicati. D'altra parte la zona
geografica su cui sorgeva l'insediamento di Cumulo è caratterizzata, oggi come
allora, da rilievi collinari, intervallati da strette e modeste vallate
interne, come quella del torrente Chiecina. Per cui è un'ipotesi abbastanza
plausibile. La presenza di boschi, o selve, doveva essere marginale rispetto
allo stato odierno. I boschi erano delle vere e proprie coltivazioni di legname
(d'altra parte il legno era l'unico combustibile e l'unica fonte di calore del
tempo) e relegati nelle aree marginali, dunque sui fronti particolarmente
ripidi ed esposti a nord, dove il soleggiamento è minore e quindi dove la
coltivazione di altri prodotti diventava più difficoltosa e poco conveniente.
Ovviamente non mancavano terreni coltivati a seminativo e a prodotti
ortofrutticoli, anche se tali produzioni richiedevano una manovalanza maggiore,
che non sempre era disponibile, vista anche la bassa densità insediativa della
zona. E, forse, è proprio per questo motivo che non se ne fa specifica menzione
nel documento, se non parlando genericamente di cultis, trattandosi di
attività meno praticate. Considerando, poi, che la parte della curtis
oggetto di donazione era quella dominica, è probabile che essa non
concorresse al diretto sostentamento del dominus, che probabilmente
abitava lontano, ma si limitasse alla produzione di olio, un prodotto
facilmente conservabile e commerciabile.
Infine, la parte dominica
doveva comprendere anche apposite strutture finalizzate all'immagazzinamento e
alla trasformazione dei prodotti agricoli. Tuttavia nell'atto non sono
menzionati magazzini, granai, cantine, stalle, frantoi o mulini, che pure
dovevano, in qualche modo, essere presenti. E' probabile che la curtis fosse
particolarmente modesta, anche per i canoni dell'epoca, e che tutte queste
strutture, o edifici specializzati, fossero da inquadrare genericamente nelle pertinentes
ad donicato vestro.
IL CASTRUM DI CUMULO. In un momento finora sconosciuto, comunque in epoca anteriore
all'XI secolo, la curtis di Cumulo fu interessata da quel processo
chiamato “incastellamento”. Un intervento, certamente gestito dal dominus,
che portò alla definizione del Castello di Cumulo, cioè al passaggio da
un nucleo abitato “aperto” ad un centro
“fortificato” (cioè chiuso, claustrum,
quindi volgarmente castrum o castro). Si ha notizia della presenza
del “castello” fin dalla prima attestazione dell'insediamento di Cumulo, ovvero
l'atto di fondazione, ancora una volta da parte dei Della Gherardesca,
dell'Abbazia di Santa Maria di Serena [in proposito si veda ADDSM – 1004 – ASFi
– Abbazia di Serena].
Al termine castro, in
estrema sintesi, il dibattito storiografico ha assegnato il significato di
nucleo abitato, di varia dimensione, contraddistinto da opere di fortificazione
di tipo difensivo, spesso da identificare come un vero e proprio insediamento
militare, ma anche come borgata o villaggio fortificato [per approfondire:
R. Francovich, I castelli del contado
fiorentino nei secoli XII e XIII, Edizioni Cluesf, Firenze, 1976, pp.
7-12]. Probabilmente il castello di Cumulo si inserisce in quest'ultima
categoria, cioè come un insediamento dotato di un circuito, molto
probabilmente, allo scopo di difendere le strutture della curtis e i
prodotti agricoli lì immagazzinati, nonché, in caso di necessità belliche, come
luogo di riparo sicuro per i massari e per i contadini in generale.
Il castello di Cumulo risulterà documentato per tutto il '300,
costituendo uno dei tanti comunelli agricoli del più ampio districtu sanminiatese
[F. Salvestrini (a cura di), Statuti del Comune di San Miniato al Tedesco
(1337), ETS, Pisa, 1994, Libro V, rubb. 15<16> e 16<17>; G.
Ciampoltrini, Insediamenti medievali abbandonati nel territorio di Palaia.
Cerretello e Agliati fra ricerca archeologica di superficie e fonti
documentarie, in P. Morelli (a cura di), Palaia e il suo territorio fra
antichità e medioevo, Atti del Convegno di Studi (9 gennaio 1999), Comune
di Palaia, Bandecchi & Vivaldi, Pontedera, 2000, p. 95].
La rapida espansione fiorentina verso il territorio Volterrano e
Pisano, farà decadere l'importanza militare della zona. I castelli, dopo la
forte contrazione demografica causata anche dalla peste del 1348, conosceranno
la definitiva decadenza nel corso del '400 quando nell'organizzazione economica
delle campagne verrà introdotto capillarmente il sistema mezzadrile.
IL CASTELLO DI VENTRIGNANO Oltre al castello de Cumulo cum Corte, questo documento è
interessante per il territorio sanminiatese, in quanto registrato in loco
inter Castello, qui dicitur Ventrugnano. Si tratta del castello di Ventrignano,
anch'esso facente parte del dominio dei Della Gherardesca. Viene documentato
per la prima volta un paio di anni prima, il 28 giugno 1020, anche in quel caso
come luogo di registrazione di un atto.
Il protagonista dell'atto del 1020 è un certo Ugo del fu Ugo, che al
momento non è possibile legare con certezza ad Ugo di Tedice [G. Ghilarducci, Carte del secolo XI,
vol. 2, dal 1018 al 1031, Archivio Arcivescovile di Lucca, Maria
Pacini Fazzi Editore, Lucca, 1990, n. 34, pp. 96-98].
Il castello di Ventrignano si trovava
nei pressi di Montebicchieri (castello anch'esso dei Della Gherardesca) e,
secondo Paolo Morelli, da localizzare sulla collina dove nel Catasto del 1834
compare il toponimo Sant'Andrea [Catasto Generale della Toscana, Comunità
di San Miniato, Sezione S, Montebicchieri, foglio n. 1], cioè il
rilievo situato fra Loc. Il Palagio e il castello di Montebicchieri [P.
Morelli, Pievi, castelli e comunità fra Medioevo ed età moderna nei dintorni
di San Miniato, in AA.VV., Le Colline di San Miniato (Pisa). La natura e
la storia, Supplemento n. 1 al vol. 14 (1995) dei Quaderni del Museo di
Storia Naturale di Livorno, Consiglio Nazionale delle Ricerche, Provincia di
Pisa, Tip. Bongi, San Miniato, 1997, pp. 103-104].
La precoce distruzione del castello
di Ventrignano è da inquadrare nell'ambito degli scontri bellici del 1172 e che
videro come protagonista Cristiano di Buch, Arcivescovo di Magonza, Legato
Imperiale per la Tuscia. Il 17 agosto di quell'anno, come narrato da Bernardo
Maragone, il castello di Ventrignano fu attaccato dal contingente armato
guidato dallo stesso Cristiano di Magonza, e una volta preso fu distrutto e
dato alle fiamme [NOTIZIE DI SAN MINIATO NEGLI “ANNALI”
DI BERNARDO MARAGONE 06/07]. Lo stesso Maragone precisa che il castello apparteneva a Comiti
Gerardi, ovvero il Conte Gherardo, con ogni probabilità figlio di Ranieri,
e discendente da quel Guido che risulta tra i firmatari dell'atto di fondazione
dell'Abbazia di San Giustiniano di Falesia [P. Morelli, Pievi, castelli e...
Cit., pp. 103-104; M. L. Ceccarelli Lemut, I Conti Gherardeschi... Cit.,
p. 189]. L'episodio viene narrato da diversi cronisti, fra cui dall'autore
dell'Antica Cronichetta Volgare Lucchese [SAN MINIATO NELL'ANTICA CRONICHETTA
LUCCHESE 01/09] e da Giovanni Sercambi [SAN MINIATO NE “LE CRONICHE” DI
GIOVANNI SERCABI 01/41]
Comune
di San Miniato, Comunità di San Miniato,
Sezione
F, Monte Bicchieri, sintesi dei fogli nn. 1, 3 e 4, anno 1834 circa
Archivio
di Stato di Pisa, Catasto terreni – Mappe – San Miniato – 76, 78 e 79
Regione
Toscana e Archivi di Stato Toscani
I DELLA GHERARDESCA IN VALDEGOLA In conclusione, i castelli di
Ventrignano e di Cumulo, devono essere inquadrati nella politica a controllo
dei rilievi occidentali della Valdegola da parte dei Della Gherardesca.
Tuttavia, allo stato attuale degli studi, si ignorano le circostanze attraverso
le quali pervennero questi beni a tale casata.
Va detto che la Valdegola, a fronte di una modesta estensione, ha
rappresentato per secoli una realtà abbastanza complessa. Infatti, qui
insistevano anche interessi lucchesi, come quelli di varie abbazie o quelli del
Vescovado, concentrati nel territorio giurisdizionale della Pieve Corazzano da
una parte e sparsi fra Montopoli, Palaia e Usigliano dall'altra. La stessa area
in cui i Della Gherardesca controllavano anche altri castelli, fra cui
Montebicchieri, Barbialla, Collegalli, Scopeto (nei pressi di Balconevisi) e
Pratiglione, e che poi farà da confine fra il distretto sanminiatese e i
territori su cui incombeva l'influenza pisana, prima della definitiva
sottomissione a Firenze nel corso del '300.
Foto di Francesco
Fiumalbi
Foto di
Francesco Fiumalbi
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