di
Alessio Guardini
Oltre
due secoli fa, esattamente nel 1804, nasceva a Santa Croce sull’Arno,
Giovanni Bracci, figlio di Luigi e Maria Lapi, famiglia appartenente
al popolo di San Lorenzo come si evince dai registri dei battesimi,
matrimoni e morti della Parrocchia di San Lorenzo in Santa Croce
sull’Arno.
Nella
piccola comunità del Valdarno inferiore (ancora lungi dal conoscere
l’enorme sviluppo dell’attività conciaria iniziato nella seconda
metà dell’ottocento) Giovanni Bracci apprese ed esercitò il
mestiere di calzolaio, ma evidentemente la natura l’aveva dotato di
un particolare estro letterario, tant’è che Giovanni si fece
conoscere per un’apprezzabile produzione drammaturgica.
Nonostante
questo, il suo nome non è certo passato alla storia, neppure nella
sua città natale dove risulta, ad oggi, praticamente sconosciuto.
Foto
di Francesco Fiumalbi
Chi
si trovasse a leggere le memorie del Cav. Comm. Ferdinando Martini
(1841-1928) intitolate “Confessioni e ricordi – Firenze
Granducale” (R. Bemporad & Figlio Editori, Firenze, 1922,
pagg.69-71) troverebbe questo brillante ritratto dell’artigiano
santacrocese:
«[…]
Giovanni, calzolaio di Castelfranco [si
tratta con ogni probabilità di un refuso, n.d.r.]
nel Valdarno inferiore, aveva scritto e fatto rappresentare alla
Quarconia in Firenze un suo “Conte Ugolino”, tragedia in cinque
atti ed in versi.
La
Quarconia era, su per giù nella Firenze del 1840, […]
un teatro popolare dove per due crazie (quattordici centesimi) si
trattenevano gli spettatori dalle sette al tocco dopo la mezzanotte.
In una medesima sera tragedia, farsa, ballo, esercizi acrobatici,
pantomima, concerto di violino e giochi di bussolotti. L’intelletto
usciva naturalmente ben nutrito da così diverso e lungo spettacolo,
ma affinché lo stomaco non ne patisse altrettanto, si mangiava e
beveva nei palchi e nella platea con varietà di utili effetti; tra
l’altro, il pubblico che recitava clamoroso la parte del coro
antico, poteva, provveduto com’era di vettovaglie, sostenere con
l’elargizione di arance bell’e sbucciate le forze dell’innocenza
in pericolo e colpire con le scorze il tiranno persecutore.
In
quel teatro innanzi a quel pubblico il buon “lavoratore della
scarpa” fece rappresentare il suo “Conte Ugolino”.
Nella
parte del protagonista era un endecasillabo: «Ho fame, ho fame, ho
fame, ho fame, ho fame» che l’attore doveva pronunziare, facendo
pausa fra l’una e l’altra di quelle esclamazioni, dopo ogni pausa
abbassando il tono della voce; sì che da ultimo il quasi estinguersi
di quella annunziasse imminente l’estinguersi della vita. Gli
uditori si sarebbero certamente commossi a quella ognor più fievole
doglianza delle angosce digiune, se (com’io seppi già da chi fu
presente alla recita) un bell’umore non avesse scagliato un “semel”
ai piedi del Conte pisano, gridando: «Piglia, mangia e chetati...»
[…]
Raccontano i cronisti che al pericoloso endecasillabo sostituita una
parafrasi delle terzine dantesche, la tragedia rappresentata a
Livorno vi ottenne successo felicissimo: fece versare lacrime copiose
durante quattro atti e le mutò al quinto in singhiozzi; comunque sia
di ciò, l’autore o pago di quella rivendicazione, o rinsavito,
tornò dal coturno allo stivaletto»
Oltre
alla drammaturgia, Giovanni Bracci si dilettò anche nella poesia
scrivendo numerose odi e sonetti. Curiosando tra le poche opere da
lui pubblicate, ci siamo imbattuti in una raccolta di poesie
intitolata, per l’appunto, “Poesie di Giovanni Bracci da Santa
Croce” pubblicata dal tipografo Eugenio Pozzolini di Livorno nel
1837. È qui che, piacevolmente sorpresi, abbiamo trovato a pagina 29
una pregevole ode datata 1835 ed intitolata “La Rocca di S.
Miniato”.
Costituita
da quattordici strofe ciascuna di sette versi settenari gradevolmente
cadenzati, la poesia ha uno schema metrico che parrebbe ispirato
dalla famosa ode “Il cinque maggio” (1821) di Alessandro Manzoni.
Il primo e il terzo verso sono sdruccioli e non rimati, il secondo e
il quarto verso sono piani e rimano tra loro, così come il quinto e
il sesto verso, mentre il settimo verso è tronco.
L’ode
ci permette inoltre di fare delle interessanti considerazioni su come
doveva apparire la torre federiciana agli occhi di un osservatore
della prima metà del XIX secolo. Il poeta esordisce elogiando la sua
maestosità che da lontano si impone alla vista di uno sbalordito
pellegrino, ma poi, una volta giunto sul faticoso colle, denota il
suo stato di forte degrado e rievoca magistralmente con un pathos
teatrale di notevole effetto, la triste vicenda, nella versione
“dantesca”, di Pier delle Vigne.
Una
descrizione dello stato dell’antica fortezza militare che richiama
immediatamente alla “sfasciata Rocca”, così definita
da
Averardo Genovesi nella sua poesia satirica del 1841, che fece da
apripista ad una vera e propria “guerra poetica”.
Frontespizio
LA
ROCCA DI S. MINIATO
Ode
(1835)
O
ancor fra le macerie
Superba,
e maestosa
Mole,
su cui l'attonito
Sguardo
talor si posa
Dell'ansio
pellegrino,
Che
per lungo cammino
Tua
vista lo colpì:
Oh!
quante alla memoria
Svegli
idee di dolore;
E
di mestizia al palpito
Come
richiami il core!
Quando
l'uom del pensiero,
Ricerca
in sen del vero
L'uopo
a cui fosti un dì.
Tributo
ampio di lacrime
Egli
a ragion ti rende,
Quando tua vera origine
Quando tua vera origine
Appien
tutta comprende;
E
nel silenzio ei dice,
«Oh!
d'etade infelice
Monumento
crudel!»
Per
l'erto giogo*,
ed aspero
Quindi
ti sale appresso. -
Attentamente
esamina
Lo
tuo squallor d'adesso;
E
sul tuo fasto antico,
Al
comun ben nemico,
Vorria
tirare un vel.
Poscia
d'intorno aggirasi
D'alto
terror compreso. -
Là
vede esser dal fulmine
Un
merlo al suol prosteso;
E
l'erba, che il ricuopre,
Par
che in celar s'adopre
Le
tue ruine ancor.
Il
musco solitario,
Che
ti serpeggia intorno,
Par
che brami nasconderti
A'
tanti rai del giorno;
Ma
in van; che la tua istoria
Vive
nel memoria
Del
forte, e ne ha rossor.
Delle
discordie al vortice,
Per
Te, la rimembranza
Volge,
e pensa, che ai liberi
Itali
cor fu stanza
L'interno
di tue mura
Converso
in carcer dura
Dallo
spietato Sir.
Del
grande, a un tempo, e misero
Piero **,
il destin rammenta.
Ed
oh! qual truce immagine
Lo
affanna, e lo tormenta;
Immagin
di quel forte
La
cui spietata morte
Tu
sol potresti dir.
Tu
che il vedesti agli ultimi
Istanti
di sua vita
Brancolar cieco, e fremere
Con
alma indispettita;
Non
per il duol ch'ei senta,
Non
perchè si rammenta
L'antico
suo splendor,
Ma
perché muta vittima
Cadrà
d'altrui furore,
E
un tristo avrà ne' secoli
Eco
di traditore;
Senza
una tomba in cui
Fissi
gli sguardi sui
Pietoso
il viator.
A
idea così terribile
Quasi
non regge. - Il seno
Gli
strazian mille furie,
E
come quei ch'è pieno
D'altissimo
sentire,
L'ora
del suo morire
Ad
affrettar pensò.
Onde
torsi all'infamia,
Poiché
gli manca un brando ***,
Va
con la fronte (ahi misero)
Nella
parete urtando. -
S'infrange,
e la sdegnosa
Alma
in fuggir, pietosa
La
spoglia sogguardò.
Cadde;
e per lungo spazio
Fu
il suo cader mistero;
Finché
sul labbro armonico
Del
Trovator sincero,
Che
questo còlle ascese,
Voce
suonar s'intese
Di
lutto e di dolor.
Sull'imbrunir
dell'aere,
Al
sibilar del vento,
Quel
solitario passere,
Che
sfoga il suo lamento,
Il
fatto memorando,
Più
volte andò narrando
Sull'Arpa,
il pio cantor.
*
Il termine “giogo”
è qui utilizzato col significato di sommità del colle.
**
Questa nota è inserita nel testo dall’autore stesso è riporta in
calce questa precisazione:
È
fama che il famoso Piero delle Vigne, dopo d'essere stato fatto
abbacinare da Federico II, fu posto nella Rocca di S. Miniato, dove
morì infrangendosi la testa nella parete. Abbiamo seguitato
l'esempio di Dante, figurandolo innocente, e vittima dell'invidia.
***
Il brando è un’antica
spada (da cui il verbo brandire). Il termine è qui usato nel senso
esteso di arma, per significare che il prigioniero non aveva altro
modo per suicidarsi che fracassarsi il cranio contro il muro della
torre.
Il
17 giugno 1828 Giovanni Bracci sposò Elena Tempesti, di famiglia
benestante, dalla quale il 9 novembre 1830 ebbe come figlio
secondogenito Braccio Teodoro.
Avviato
agli studi di giurisprudenza dal padre, Braccio Bracci fece poi
carriera a Livorno come avvocato e giornalista e si fece apprezzare
anch’egli come poeta e drammaturgo. Ma ciò che rende interessante
la vita di Braccio Bracci è come il destino volle incrociarla con
quella del giovane Giosué Carducci, suo quasi coetaneo, nel tempo in
cui quest’ultimo visse a San Miniato (1856-57).
Ma
questa è tutta un’altra storia che vi racconteremo prossimamente…
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