di Giancarlo Pertici
Non
è mai un silenzio assoluto. È un silenzio diverso. Quello che
precede quella calma apparente, quella calma piatta che improvvisa
irrompe sulla polverosa piazza di paese, in piena estate ad inizio
pomeriggio, e che la rende indefinibile, come se il paese fosse
disabitato: un paese fantasma. Calma che pare annunciata già dalle
mandate con le quali Nello serra il portone del mulino, dopo aver
fermato le macine, prima di gridare - 'Butta la pasta' - a Marina
che, affacciata alla finestra di cucina, ogni giorno a quell'ora di
mezzo, è in attesa di un segnale. Segnale che ha effetto 'domino',
come se l'orologio di paese - che non c'è - si mettesse a battere
l'ora convenuta; segnale per la bottegaia di piazza, che rimette le
imposte e serra la bottega di commestibili, aperta dalle 7 di
mattina. Segnale per la 'Venta', che cava dal forno l'ultima
infornata di pane insieme alle teglie di patate e al pane riscaldato
del giorno avanti.
A
ruota, anche per l'autofficina del Leoni, che è anche autonoleggio e
pare non chiudere mai.. ma appena passato il 'tocco', spente tutte le
luci, riposte chiavi e cacciaviti anche se a portone aperto, mentre
scocca l'ora del pranzo e della pennichella ...il Leoni sale in casa.
Stesse identiche mosse la parrucchiera d'angolo che chiude a due
mandate la porta del negozio, anche se non c'è nulla da sottrarre,
forse un po' di shampoo. Se qualche bicicletta si annuncia, sua la
scia di polvere sollevata sulla via e sulla piazza, è per il ritorno
a pranzo del manovale, degli uomini ad opra nelle vigne del Masi, e
quanti tornano con l'ultima corriera che fa tappa all'incrocio per
'le Mura'. È sempre così sul finire degli anni '50 quando sulle
strade polverose, sopratutto di campagna, transitano solo vecchie
corriere, qualche autocarro o qualche motociclo. Poche le
autovetture.
Poi
silenzio assoluto, che tutti sembrano rispettare iniziando dai
piccioni che di solito stazionano davanti al mulino in attesa delle
puliture e degli avanzi, e che a quell'ora si rifugiano nella
soffitta del mugnaio e sopra il forno. Le nane di Marina fanno
ritorno dal loro giro, lungo e dentro l'Egola. Partite alle prime
luci dell'alba, sono state avvistate anche a tuffarsi nell'ultima
pescaia, dopo il ponticino in ferro e fin verso la Sughera, e a
rastrellare fino all'ultimo granello rimasto nei campi ai lati,
oramai mietuti del grano e dell'orzo. Anche i passerotti e le rondini
sembrano osservare le consegne. In quell'ora di mezzo solo le mosche
volano indisturbate nel loro sozzo rito quotidiano ad indicare dove è
passato l'ultimo carro di buoi, lasciandone fresche tracce. Solo un
ronzio, appena percettibile tra il frinire delle cicale, che talvolta
si perde nel silenzio. È un frinire così intenso e costante che
pare quasi di non sentirlo. Anzi! Non lo senti. È questa l'ora di
mezzo in estate, quando anche la via che sale verso la Sughera resta
deserta, e la polvere che staziona sempre a mezz'aria scompare
all'improvviso come nebbia al sole estivo, deposto sui rovi e sulle
more ai lati l'ultimo velo.
È
l'ora di mezzo che in estate annuncia il pranzo e il successivo
momento della siesta, per tutti o quasi. Per noi bambini che in
estate, in quegli anni '50, ci ritroviamo su quella piazza, è il
momento buono per 'altro'. Partiamo. Per dove, non sempre lo
sappiamo. Certamente all'aria aperta, tra sole ed ombre, a vivere il
nostro pomeriggio in piena libertà verso nuove scoperte, diverse
ogni giorno... per un gruppo, il nostro, piuttosto misto. Tutti
maschietti, o quasi, dai 7 fino ai 12 anni a ritrovarsi alla pescaia
dietro il mulino. Io, che, ospite fisso di zia Rosanna in estate,
esco di casa insieme a Renato; stesse scale, io al primo piano, lui
al secondo. Cesare e Pietrino dall'altro lato della piazza. Il
figliolo di Umbertina, di cui non ricordo né il nome e neppure il
soprannome, ha sempre idee nuove e strane ogni giorno. E anche quel
giorno annuncia la sua idea su per l'Egola, alla caccia di pesche.
Quelle di pasta bianca, che lui solo conosce. Sa dove sono, le ha già
assaggiate: sono mature.
E
in quell'ora, dentro Egola, lì seduti, dietro il mulino, sul bordo
di quella pescaia, i piedi immersi fino alle caviglie, all'ombra del
noce di Nello, facciamo la conta di chi arriva e di chi manca.
Aspettiamo il via che coincide quasi sempre col rumore delle macine
riavviate da Nello, mentre qualche mamma, dalla piazza si affaccia a
turno per accertarsi di dove siamo e cosa stiamo combinando. Qualcuno
arriva attrezzato di lenza e amo. Qualcun altro ha preso in prestito,
senza farsene avvedere, il bilancino, di cui suo nonno è
particolarmente geloso. Sandali in mano, a piedi nudi, in perfetto
silenzio, abbandoniamo la postazione d'attesa e iniziamo a risalire
quel tratto che è tutto ombreggiato, prima dell'ansa esposta a pieno
sole. Una leggera brezza inizia ad intrufolarsi in quell'immobile
pomeriggio e in quel silenzio surreale. E il frinire delle cicale
pare ondeggiare avanti e indietro, come un eco mal riuscito. Le more
e i rovi, dai colori immacolati, neppure sfiorati dalle polveri che
ricoprono ogni cosa a bordo strada; quei roghi che pendono dalle rive
fin quasi a toccare, in alcuni punti, il letto e l'acqua cheta, non
paiano neppure accorgersi di quella brezza leggera, anche se ne
fremono, mentre questa si insinua tra foglia e foglia, con fare
gentile. Brezza leggera che fa ondeggiare quella che sembra una
colonia di libellule, che a quell'ora riposa, tra sole ed ombra,
qualcuna a mezz'aria, altre come nell'atto di abbeverarsi nell'acqua
che in quel punto è perfettamente stagnante, tiepida sotto i nostri
piedi.
E
noi, in perfetto silenzio, rasentando la sponda a monte libera da
rovi e da arbusti, per non rompere quel clima magico che sembra
tenere insieme, legata per fili invisibili, quella colonia
silenziosa, ma anche a passo svelto, strusciando i piedi, evitando
qualsiasi rumore, passiamo oltre, fino ai margini della segheria. In
lontananza il 'flop' di un tuffo, seguito da altri 'flop' a segnare
il nostro avvicinamento a quella pozza sempre al sole, regno
indiscusso di ranocchi e girini, che rompono quel silenzio nel loro
gioco ripetuto all'infinito; un po' lo stesso gioco che nella grande
pescaia a monte, i più grandi, quelli che sanno nuotare, fanno sotto
gli occhi meravigliati di noi più piccoli. E sguardi nascosti, gli
unici, spettatori ogni giorno della stessa scena, svelano la loro
discreta e distratta presenza che si nota solo a momenti, quando i
rovi e le fronde mosse dalla leggera brezza, lasciano intravedere
sopratutto merli in cova.
Li
riconosci dal becco giallo e dai voli in libertà da e verso la siepe
nel loro rituale in cerca di cibo, abbondante in estate. E intanto
cerchiamo di far perdere le nostre traccie, mentre a stormi una
miriade di pesciolini cambia sponda, fuggendo al nostro passaggio per
rifugiarsi sotto i rovi che sfiorano o si immergono sotto l'altra
sponda. Lo facciamo lasciando l'illusione, a chi si è affacciato
dietro al mulino per l'ultima volta, che nostra intenzione è
starcene lì, quieti quieti con i piedi a mollo, a non far nulla,
sopratutto a non fare malestri. Operazione che riesce quasi sempre. A
volte si conclude con la defezione di chi, in retroguardia, viene
raggiunto da un ordine perentorio che non ammette repliche. È quasi
sempre una mamma o un nonno che s'avvede all'ultimo momento del
cambio di programma del gruppo e corre ai ripari, e che sbotta -
"Torna subito a casa!" -
Qualche
moccioso, spesso a seguire il fratello più grande, vorrebbe unirsi
al gruppo, e con successo anche, fintanto che restiamo fermi nei
dintorni di casa. Ma appena ci muoviamo, siamo noi più grandicelli,
a lasciare indietro quelli troppo piccoli, quelli che non possono
arrampicarsi su per le pareti della pescaia, o risalire sulle sponde
piene di rovi per giungere così ai piedi del pesco in estate e del
noce o del fico a settembre. Li lasciamo, spesso a 'frignare' seduti
sugli scalini del forno, anche se rischiano di richiamare
l'attenzione di qualche mamma.
Mentre
ci incamminiamo proprio diretti a quel campo che si apre ai piedi
della segheria, giusto alla fine di quella specie di laguna, enclave
preferita di libellule di ogni tipo e colore, che ci lasciamo alle
spalle, immobili a mezz'aria, per nulla turbate dal nostro rispettoso
passaggio. Passaggio in apnea, in punta di piedi, il nostro, lo
sguardo rivolto alla meta che appena si intravede oltre la curva,
oltre la segheria, e che riflette la luce del sole sulla sua
superficie: la prima grande pescaia. È quasi sempre, ma non sempre,
la nostra meta. Dipende da chi si ferma per primo, tra i più grandi,
infrangendo la consegna del silenzio, oramai a distanza di sicurezza.
Quasi un boato costellato di risate, dal risciaquìo dei tuffi a
ripetizione, che si consuma nel giro di pochi minuti fino a quando ci
disperdiamo, ma a distanza di uno sguardo, in tanti piccoli
gruppetti, comunque a portata di voce.
I
più grandi al centro della pescaia, dove non si tocca. Qualcuno si
inerpica per i ciglioni e raggiunge il pesco o il fico di turno,
tutto dipende dalla stagione, a fare incetta del necessario per l'ora
di merenda. Scalzi e semi ignudi, facciamo il giro delle pozze alla
ricerca dei pesciolini rimasti prigionieri. Chi getta la lenza, chi
invece tenta la sorte col bilancino. Una scaglia di mattone basta a
ridisegnare sopra uno scoglio liscio lo schema del 'filetto': pochi
sassi e si gioca a turno. Ore che sfuggono veloci al nostro
controllo. Senza riferimenti veri, nessuno con l'orologio, andiamo
avanti a sensazioni, prevalentemente epidermiche quando il sole va a
nascondersi oltre la siepe. Come nel Paradiso Terrestre è in quel
momento che ci accorgiamo di essere nudi, o quasi nudi. I pochi
vestiti sopra un masso. I primi brividi di freddo, difficile
asciugarsi all'ombra. La brezza, sempre la stessa, ora non è più
tiepida, ma pizzica la pelle. I polpastrelli delle mani e dei piedi
avvizziti. È l'aria che è cambiata, ridisegnata da nuove creature e
dai loro voli radenti, quando, le ombre allungate, riprendiamo il
cammino in quel corridoio tra il cielo e il corso del rio.
Nessuna
traccia delle libellule dell'ora di mezzo, ora il cielo è solcato da
decine e decine di rondini a fare la spola, da un ciglione all'altro,
scansando miracolosamente ognuno di noi, qualunque mossa facciamo.
Sono loro che col loro garrito stanno tentando di avvisarci dell'ora
tarda. È un po' che le sentiamo ed ogni volta rimandiamo la
partenza, fino all'ultimo. Partenza in disordine sparso, chi prende a
destra, chi a sinistra, chi risale fino alla strada maestra, per fare
ritorno su quella piazza in mille rivoli, possibilmente arrivando
contro sole, quel poco che ne è rimasto, quasi a suggerire altri
passatempi, altri luoghi, lontano da pericoli.
La
piazza è particolarmente animata in quell'ora che sta per annunciare
l'ora di cena. In bottega per il quartino di vino, per la boccetta
dell'olio e per qualche etto di pasta. L'autofficina, ora che i più
sono tornati dal lavoro, fa da rimessaggio anche per motori e
motocarri. Il forno, qualche volta, ma non sempre, è in funzione ad
ospitare teglie colme di patate, qualche arrosto sopratutto di nane,
di cui è popolato l'Egola. Frenesia particolare sottolineata dalla
radio che a quell'ora diffonde le ultime notizie e le ultime canzoni,
sopratutto dell'ultimo Festival della Canzone Italiana di Sanremo.
Qualche
strillo, il chiaro segnale di qualche sculaccione andato a segno,
seguito da un pianto dirotto, a fare la spia che non tutto è andato
liscio. Dai capelli e dai panni fradici è facile capire dove siamo
stati tutto il pomeriggio. Ma 'nonna Marina' con me non fa mai una
piega. Non mi domanda neppure dove sono stato. Non gli mentirei. Sa
che di regola non faccio malestri. Mi accoglie sempre con un sorriso.
- "Aiutami ad apparecchiare, che tra poco torna zia e zio. Ma
prima vai al mulino da Nello, ti deve mandare in giro per
commissioni. Ma fai alla svelta. Stasera per cena... pastasciutta e
nana".- "E collo di papero" - faccio io di rimando, a
completare e sottolineare una specie di filastrocca che declamiamo a
turno ogni qualvolta, una delle nane di Marina viene sacrificata, col
olive ...sull'altare... ovvero nel forno della Venta.
Foto dell'estate del 58 nell'autofficina di piazza
trasformata
per l'occasione in salone per il Pranzo di Nozze
tra
Brucci Alberto, detto Barnaghino e Rosanna Gennai.
Nessun commento:
Posta un commento